Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25070 del 16/09/2021

Cassazione civile sez. I, 16/09/2021, (ud. 19/05/2021, dep. 16/09/2021), n.25070

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco A. – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25335/2018 proposto da:

Reti Televisive Italiane (R.T.I.) S.p.a., in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Viale

del Lido n. 24/b, presso lo studio dell’avvocato Bianchi Schierholz

Fabrizio, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

R.N.R., elettivamente domiciliato in Roma, Foro

Traiano n. 1/a, presso lo studio dell’avvocato Palma Antonio,

rappresentato e difeso dall’avvocato Lattuca Antonino, giusta

procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

C.G.L., Computer Line S.r.l.,

Cr.An.Sa., D.C.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1407/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 15/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

19/05/2021 dal Cons. Dott. FALABELLA MASSIMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. – Con citazione notificata il 5 e il 6 marzo 2007 R.T.I. Reti Televisive Italiane s.p.a. ha convenuto in giudizio Computer Line s.r.l. e R.R.N. deducendo di trasmettere, da oltre ventiquattro anni, sull’emittente televisiva nazionale Canale 5, il programma (OMISSIS) e rilevando, altresì, che il 17 settembre 1996 aveva provveduto alla registrazione del marchio (OMISSIS) presso l’UIBM (Ufficio italiano brevetti e marchi). L’attrice ha lamentato che il convenuto R. aveva a sua volta registrato, in data 15 aprile 1999, il dominio internet (OMISSIS), che contraddistingueva un sito diretto a reclamizzare la propria attività di sarto e la vendita di prodotti di telefonia, e che Computer Line, quale internet access provider, ne avesse consentito la visualizzazione sulla rete telematica.

Nella resistenza dei convenuti, il Tribunale di Catania, con sentenza pubblicata il 21 aprile 2011, ha dichiarato che la registrazione del dominio (OMISSIS) costituiva violazione del marchio registrato da R.T.I., ha inibito a R. l’utilizzo del detto nome a dominio per l’attività d’impresa svolta, ordinato la cancellazione della registrazione dello stesso e condannato i due convenuti al risarcimento dei danni; nel provvedimento è stata altresì disposta l’applicazione di una penalità di mora per ogni violazione o inosservanza della pronunciata inibitoria e ordinata la pubblicazione del dispositivo della sentenza su due quotidiani.

2. – In sede di gravame la Corte di appello di Catania ha riformato la sentenza di primo grado, rigettando, in sintesi, la domanda proposta da R.T.I..

Per quanto qui rileva, il giudice distrettuale ha osservato: che il marchio (OMISSIS) aveva ad oggetto un’espressione assolutamente generica, composta da parole italiane di uso comune, non accompagnate da alcun segno che attribuisse loro capacità individualizzante; che doveva escludersi l’acquisto di un qualche carattere distintivo da parte della richiamata forma verbale, onde non poteva trovare applicazione la disciplina di cui all’art. 13, comma 2, c.p.i.; che ai richiamati fini non poteva essere attribuito rilievo alla trasmissione televisiva messa in onda anni addietro, il cui titolo non era comunque coincidente col marchio successivamente registrato; che nessuna prova, finanche indiziaria, era stata fornita a sostegno della domanda risarcitoria; che, in particolare, la produzione documentale non dava ragione di una riduzione di profitti, di uno sviamento di clientela, o di un danno all’immagine sofferto dall’attrice; che andava esclusa la responsabilità di Computer Line, dal momento che il semplice invio di lettere di diffida da parte di un soggetto che si professa titolare in esclusiva di un marchio utilizzato da altri quale domain name di un sito web non era idoneo a rendere edotto l’hosting provider della manifesta illiceità dell’attività o dell’informazione effettuata tramite il sito gestito dallo stesso provider.

La sentenza della corte di Catania è impugnata da R.T.I. Con un ricorso per cassazione fondato su sette motivi. Resiste con controricorso R.N.R.. Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – I motivi posti a fondamento dell’odierna impugnazione sono riassunti dalla stessa ricorrente come segue.

Primo motivo: violazione o falsa applicazione dell’art. 13 c.p.i.. Viene imputato alla sentenza impugnata di aver attribuito alla norma teste’ richiamata un significato errato e comunque non appropriato, avendo la Corte di appello ritenuto che, in ragione del cit. art. 13, il marchio (OMISSIS) non potesse essere registrato.

Secondo motivo: violazione o falsa applicazione dell’art. 22, comma 2, c.p.i.. Secondo la ricorrente il giudice distrettuale non avrebbe considerato che la norma in questione vieta l’adozione, come nome a dominio di un sito utilizzato per lo svolgimento di un’attività economica, di un segno uguale o simile a un marchio registrato per prodotti o servizi anche non affini, il quale goda nello Stato di rinomanza, se l’uso del segno, senza giusto motivo, consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio, o reca pregiudizio ad esso.

Terzo motivo: violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e nullità della sentenza per irriducibile contraddittorietà. Si addebita alla Corte di merito di aver escluso che ricorresse l’ipotesi di cui dell’art. 13 c.p.i., comma 2, secondo cui possono costituire oggetto di registrazione come marchio di impresa i segni che prima della domanda di registrazione, a seguito dell’uso che ne sia stato fatto, abbiano acquistato carattere distintivo: la Corte di appello avrebbe infatti ritenuto non esservi elementi per ritenere che l’espressione italiana di uso comune avesse acquisito carattere distintivo al momento della registrazione del marchio, in data 17 settembre 1996, ma avrebbe riconosciuto, al contempo, che quel nome dava il titolo a una trasmissione televisiva che risaliva a molti anni addietro.

Quarto motivo, formulato in via subordinata rispetto al primo: omesso esame di un fatto decisivo. Deduce la ricorrente essere stato provato agli atti che essa, fin dal 1996, aveva registrato il marchio (OMISSIS) per diverse categorie merceologiche, tra le quali anche quelle relative all’abbigliamento e agli apparecchi per registrazione, trasmissione e riproduzione del suono e delle immagini: in tali categorie, ad avviso dell’istante, andavano ricomprese le attività di sarto e di vendita di apparecchi per la telefonia, entrambe pubblicizzate sul sito Internet dall’odierno controricorrente utilizzando il nome a dominio (OMISSIS), registrato successivamente al marchio della società ricorrente.

Quinto motivo: nullità della sentenza per omessa pronuncia, in violazione dell’art. 112 c.p.c.. La decisione di appello è censurata per avere la stessa mancato di statuire sulla domanda di accertamento della concorrenza sleale che sarebbe stata posta in essere da R.. Si osserva, infatti, che a norma dell’art. 2598 c.c., n. 1, costituisce illecito concorrenziale l’uso di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri o il compimento, con qualsiasi altro mezzo, di atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l’attività del concorrente; è aggiunto che, giusta l’art. 2598 c.c., n. 3, costituisce atto di concorrenza sleale il valersi, direttamente o indirettamente, di ogni mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale idoneo a danneggiare l’altrui azienda.

Sesto motivo: violazione o falsa applicazione dell’art. 125 c.p.i., nonché dell’art. 2697 c.c. e art. 116 c.p.c.. La sentenza impugnata è censurata nella parte in cui ha ritenuto che nessuna prova, nemmeno di carattere indiziario, fosse stata fornita al fine di sostenere la pretesa risarcitoria.

Settimo motivo: violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 70 del 2003, artt. 16 e 17. Il ricorrente lamenta che secondo il giudice distrettuale il semplice invio di lettere di diffida da parte di un soggetto che si professa titolare in esclusiva di un marchio utilizzato da altri quale nome a dominio di un sito web non sia idoneo a rendere edotto l’hosting provider della manifesta illiceità dell’attività o dell’informazione. Si oppone che l’hosting provider risulta essere civilmente responsabile nel caso in cui, avendo avuto conoscenza, anche attraverso mera diffida inviata dall’interessato, del carattere illecito o pregiudizievole del contenuto di un servizio al quale assicura l’accesso, non abbia provveduto a rimuoverlo.

2. – I primi quattro motivi possono esaminarsi congiuntamente. Il primo, il secondo e il terzo motivo sono fondati nei termini che si vengono a esporre, mentre il quarto resta assorbito.

Il Tribunale ha ritenuto che, per un verso, tra le classi merceologiche per le quali era stata chiesta la registrazione da parte di R.T.I. rientravano anche quelle corrispondenti alle attività svolte dal convenuto (ovvero abbigliamento e telefonia) e che, per altro verso, il marchio (OMISSIS) aveva acquistato rinomanza anche per effetto della nota, ed omonima, trasmissione diffusa a livello nazionale.

Dette circostanze assumono rilievo, sul piano astratto, a mente dell’art. 22 c.p.i.: norma, che, come è noto, estende la disciplina dell’art. 20 c.p.i. ai casi in cui l’interferenza col marchio preesistente si delinei in forza dell’uso di un segno distintivo, identico o simile, diverso dal marchio, come, appunto, il nome a dominio. Infatti, l’art. 22, comma 1, c.p.i. vieta di adottare come domain name di un sito usato nell’attività economica, un segno eguale o simile all’altrui marchio se, a causa dell’identità o dell’affinità tra l’attività di impresa dei titolari di quei segni e i prodotti o servizi per i quali il marchio adottato, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico che può consistere anche in un rischio di associazione tra i segni. Il comma 2 del citato articolo precisa, poi, che tale divieto si estende all’adozione di un nome a dominio uguale o simile a un marchio registrato per i prodotti o servizi anche non affini, che goda nello Stato di rinomanza, se l’uso del segno senza giusto motivo consente di trarre indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla rinomanza del marchio, o reca pregiudizio agli stessi. L’indebito vantaggio consiste, di regola, nello sfruttamento della notorietà del marchio imitato (discendente dalla cosiddetta presale o initial confusion, nella quale cade l’utente che si collega al sito recante il dominio in contraffazione, in quanto attratto dal nome di dominio dello stesso) e, a cascata, nella raccolta pubblicitaria, il cui ammontare dipenda dal numero di accesi al sito di cui trattasi. Il pregiudizio arrecato al carattere distintivo e alla notorietà del marchio imitato può consistere, invece, nella presenza, all’interno del sito, di messaggi distorsivi, comunque non coerenti con l’immagine associata al marchio contraffatto.

La Corte di merito, come si è visto, ha ritenuto che i profili di identità tra il marchio registrato da R.T.I. e il nome a dominio (OMISSIS) non assumessero rilievo a fronte dell’impedimento alla brevettabilità del marchio dell’odierna ricorrente, reputando che il segno di RTI rientrasse in quelli consistenti “esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio” (art. 13, comma 1, lett. a) c.p.i.).

La Corte di appello si è tuttavia arrestata alla considerazione del valore descrittivo che presentavano, separatamente considerate, le tre parole di cui si compone il marchio oggetto di registrazione (“non”, “solo”, moda”), senza apprezzare la possibile valenza individualizzante del termine nascente dalla combinazione di detti elementi verbali. Così facendo, il giudice distrettuale ha trascurato di verificare se il marchio (OMISSIS) potesse costituire un marchio d’insieme. Come è noto, mentre il marchio complesso è costituito da una composizione di più elementi, ciascuno dotato di capacità caratterizzante, il cui esame da parte del giudice deve effettuarsi in modo parcellizzato per ciascuno di essi, pur essendone la forza distintiva affidata all’elemento costituente il c.d. cuore del marchio, il marchio d’insieme è qualificato dall’assenza di un elemento caratterizzante, dal momento che tutti i vari elementi di esso sono singolarmente privi di distintività, derivando il valore distintivo, più o meno accentuato, soltanto dalla loro combinazione o, appunto, dal loro “insieme” (così Cass. 3 dicembre 2010, n. 24620; cfr. pure: Cass. 18 maggio 2018, n. 12368; Cass. 18 gennaio 2013, n. 1249; Cass. 20 aprile 2004, n. 7488).

Sotto altro riflesso, il giudice del gravame ha escluso che l’espressione “(OMISSIS)” avesse assunto carattere distintivo per effetto della messa in onda, su Canale 5, del programma televisivo che replicherebbe, nel titolo, detta locuzione.

In tal modo, la Corte di appello ha escluso che il marchio della ricorrente potesse ricevere protezione per effetto del secondary meaning. E’ appena il caso di ricordare che a norma dell’art. 13, comma 2, c.p.i., possono costituire oggetto di registrazione come marchio di impresa i segni che prima della domanda di registrazione, a seguito dell’uso che ne sia stato fatto, abbiano acquistato carattere distintivo (con riferimento all’analoga disciplina contenuta nel R.D. n. 929 del 1942, art. 19: Cass. 2 settembre 2004, n. 17670; Cass. 14 marzo 2001, n. 3666).

Come dedotto dalla ricorrente col terzo motivo di censura, la motivazione posta a fondamento della richiamata affermazione della Corte distrettuale risulta essere radicalmente viziata. Il giudice di appello infatti, non spiega per quale ragione l’espressione “(OMISSIS)” non avrebbe acquisito un significato diverso da quello primario, descrittivo, in ragione della messa in onda, per anni, del programma televisivo omonimo; a tal fine non appare infatti idoneo il richiamo, contenuto nella sentenza impugnata, alla circostanza per cui la trasmissione televisiva di cui trattasi era in realtà denominata “(OMISSIS). E’… contemporaneamente”. Anche a voler prescindere dai rilievi svolti dalla ricorrente – incentrati sul fatto che il titolo della trasmissione televisiva era stato, dal 1983 al 2001 e dal 2005 in poi, “(OMISSIS)” – la Corte di merito avrebbe dovuto spiegare per quale ragione la circostanza da essa indicata avrebbe impedito alla locuzione che qui interessa, comunque presente nel titolo di un programma messo in onda da Canale 5 per anni, di acquisire un valore semantico ulteriore rispetto a quello meramente descrittivo da essa indicato: un valore collegato alla trasmissione di cui trattasi e percepito dal pubblico in questa diversa funzione distintiva. In tal senso, la motivazione della Corte di appello risulta essere apparente, per tale dovendosi intendere la motivazione che, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. Sez. U. 3 novembre 2016, n. 22232; Cass. 23 maggio 2019, n. 13977).

3. – Il quinto motivo è fondato.

La domanda vertente sull’illecito ex art. 2598 c.c., era stata proposta in primo grado e il Tribunale aveva espressamente ritenuto che l’utilizzo del dominio (OMISSIS) costituisse anche atto di concorrenza sleale; la questione era stata poi riproposta in appello da parte dell’attrice vittoriosa (cfr. ricorso, pag. 27). La Corte di merito avrebbe dovuto pronunciarsi su detta domanda, la quale ben poteva essere spiegata in uno con quella di contraffazione del marchio. Infatti, l’attività illecita, consistente nell’appropriazione o nella contraffazione di un marchio, mediante l’uso di segni distintivi identici o simili a quelli legittimamente usati dall’imprenditore concorrente, può essere da quest’ultimo dedotta a fondamento non soltanto di un’azione reale, a tutela dei propri diritti di esclusiva sul marchio, ma anche, e congiuntamente, di un’azione personale per concorrenza sleale, ove quel comportamento abbia creato confondibilità fra i rispettivi prodotti (Cass. 29 gennaio 2019, n. 2473; Cass. 19 giugno 2008, n. 16647).

4. – Il sesto mezzo è anch’esso fondato.

Come in precedenza ricordato, la Corte distrettuale, dopo aver escluso la validità del marchio (OMISSIS), registrato da R.T.I., ha aggiunto che, comunque, la domanda risarcitoria risultava essere priva di supporto probatorio. La stessa Corte ha reputato, in particolare, non concludente la produzione di un documento indicante le somme richieste per la concessione a terzi dell’utilizzo di termini, non di uso comune, dotati di specifica capacità distintiva, ma riguardanti “prodotti commerciali della R.T.I. in nulla assimilabili all’espressione italiana di uso comune di cui si discute”.

Mette conto di premettere che la statuizione in punto di danno, qui esaminata, è sicuramente impugnabile. Infatti, il giudice, decidendo su una questione che, benché logicamente pregiudiziale sulle altre, attiene al merito della causa, a differenza di quanto avviene qualora dichiari l’inammissibilità della domanda o il suo difetto di giurisdizione, o competenza, non si priva della potestas iudicandi in relazione alle ulteriori questioni di merito, sicché, ove si pronunci anche su di esse, le relative decisioni non configurano obiter dicta, ma ulteriori rationes decidendi, che la parte ha l’interesse e l’onere d’impugnare, in quanto da sole idonee a sostenere il decisum (Cass. 11 marzo 2019, n. 6985; Cass. 17 aprile 2015, n. 7838).

Ciò posto, nella liquidazione del danno in materia di proprietà industriale deve darsi rilievo alla specifica disciplina dettata dell’art. 125 c.p.i., comma 2, in base al quale il giudice può liquidare il danno in una “somma globale stabilita in base agli atti di causa ed alle presunzioni che ne derivano”, avendo riguardo, quindi, anche solo agli elementi indiziari offerti dal danneggiato e, nel caso il titolare non sia riuscito a dimostrare il mancato guadagno, il lucro cessante potrà essere liquidato con il ricorso al metodo alternativo della giusta royalty o royalty virtuale, senza l’onere per il titolare della privativa di dimostrare quale sarebbe stata la certa royalty pretesa in caso di ipotetica richiesta di una licenza da parte dell’autore della violazione, non rappresentando detto criterio il danno effettivamente subito ma un “minimo obbligatorio” (così, in motivazione, Cass. 2 marzo 2021, n. 5666). In altri termini, il danno da lucro cessante liquidato in via equitativa non può essere inferiore, in base alla previsione di legge – che significativamente adotta l’espressione “quanto meno” – alla royalty che l’autore della violazione avrebbe dovuto corrispondere per fare uso del diritto violato sulla base di un contratto di licenza. Il criterio della giusta royalty o royalty virtuale, come è stato precisato in dottrina, opera, poi, indipendentemente dall’effettiva disponibilità del titolare dei diritti di proprietà intellettuale violati a concederli in licenza, quando non sono utilizzabili altri metodi per la liquidazione del danno e, in assenza di contratti di licenza conclusi dal titolare con riguardo a tali diritti, il giudice stesso, avvalendosi, se del caso, di un consulente tecnico, dovrà far riferimento alla royalty che possa dirsi praticata per i prodotti o servizi e per i diritti di proprietà intellettuale omogenei a quelli della cui violazione si tratta.

La Corte distrettuale, in presenza di precise allegazioni quanto a corrispettivi pretesi per “l’utilizzo di termini” (evidentemente riflettenti titoli di privativa, giacché la stessa Corte riferisce che gli elementi verbali in questione presentavano capacità distintiva e riguardavano “prodotti commerciali della R.T.I.”), avrebbe dovuto allora verificare, con l’eventuale ausilio di un consulente, quale fosse la royalty virtuale da applicare per l’utilizzo del marchio (OMISSIS): royalty costituente, secondo quanto si è detto, il parametro di riferimento da prendere in considerazione per la liquidazione di un risarcimento minimale del danno occorso.

5. – E’ da accogliere, infine, il settimo motivo.

L’affermazione della Corte di appello, secondo cui il prestatore del servizio internet non è assoggetto a un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette e memorizza, né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti e circostanze che indichino la presenza di attività illecite è senz’altro corretta, in quanto conforme al disposto del D.Lgs. n. 70 del 2003, art. 17, comma 1. Essa, tuttavia, non esaurisce il tema di indagine, dal momento che deve tenersi conto della specifica disciplina che riguarda l’operato dell’hosting provider (tale essendo, in base alla sentenza impugnata, sul punto non censurata, la veste assunta dalla società Computer Line quale internet service provider). La Corte di giustizia, nell’interpretare la norma comunitaria specificamente dedicata alla prestazione del servizio di hosting, e cioè l’art. 14 della dir. 2000/31/CE (di cui costituisce recepimento il D.Lgs. n. 70 del 2003 cit.), ha avuto modo di evidenziare che il prestatore di un tale servizio non può essere ritenuto responsabile per i dati che ha memorizzato su richiesta di un destinatario del servizio in parola, salvo che tale prestatore, dopo aver preso conoscenza, mediante un’informazione fornita dalla persona lesa o in altro modo, della natura illecita di tali dati o di attività di detto destinatario, abbia omesso di prontamente rimuovere tali dati o disabilitare l’accesso agli stessi (Corte giust. UE, Grande sezione, 23 marzo 2010, C-236/08, C-237/07 e C-238/08, Google France, 109). Occupandosi della disciplina nazionale sul commercio elettronico, questa Corte regolatrice ha parallelamente rilevato che nell’ambito dei servizi della società dell’informazione, la responsabilità dell’hosting provider, prevista dal D.Lgs. n. 70 del 2003, art. 16, sussiste in capo al prestatore dei servizi che non abbia provveduto alla immediata rimozione dei contenuti illeciti, oppure abbia continuato a pubblicarli, quando ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: sia a conoscenza legale dell’illecito perpetrato dal destinatario del servizio, per averne avuto notizia dal titolare del diritto leso oppure aliunde; sia ragionevolmente constatabile l’illiceità dell’altrui condotta, onde l’hosting provider sia in colpa grave per non averla positivamente riscontrata, alla stregua del grado di diligenza che è ragionevole attendersi da un operatore professionale della rete in un determinato momento storico; abbia la possibilità di attivarsi utilmente, in quanto reso edotto in modo sufficientemente specifico dei contenuti illecitamente immessi da rimuovere (Cass. 19 marzo 2019, n. 7708).

La Corte di merito avrebbe dovuto quindi operare tale complessa verifica. A tal fine, diversamente da quanto asserito nella sentenza impugnata, non assumevano rilievo gli “impegni contrattuali assunti” da Computer Line nei confronti del proprio cliente. Ne’ può ritenersi appagante l’accertamento giudiziale circa la mancata indicazione, nelle comunicazioni di diffida di R.T.I., della data di registrazione del marchio di quest’ultima: era, questa, un’evenienza certamente meritevole di essere apprezzata, ma nel quadro di un complessivo giudizio inteso ad appurare se le richiamate condizioni fondanti la responsabilità del provider potessero, nella concreta fattispecie, dirsi ricorrenti.

6. – In conclusione, il ricorso va accolto; la sentenza è cassata in relazione a tutti motivi di ricorso, fatta eccezione per il quarto, che è assorbito, e la causa è rinviata ad altra Corte di appello, che viene individuata in quella di Roma, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Il giudice del rinvio dovrà fare applicazione dei seguenti principi di diritto:

mentre il marchio complesso è costituito da una composizione di più elementi, ciascuno dotato di capacità caratterizzante, il cui esame da parte del giudice deve effettuarsi in modo parcellizzato per ciascuno di essi, pur essendone la forza distintiva affidata all’elemento costituente il c.d. cuore del marchio, il marchio d’insieme è qualificato dall’assenza di un elemento caratterizzante, dal momento che tutti i vari elementi di esso sono singolarmente privi di distintività, derivando il valore distintivo, più o meno accentuato, soltanto dalla loro combinazione o, appunto, dal loro “insieme”, onde la confluenza nell’elemento lessicale (OMISSIS) di termini di uso comune non esclude l’obbligo, da parte del giudice del merito, di accertare se tale espressione verbale assuma, in ragione della combinazione dei detti termini, valenza distintiva;

in base dell’art. 125 c.p.i., comma 2, il giudice può liquidare il danno in una “somma globale stabilita in base agli atti di causa ed alle presunzioni che ne derivano”, avendo riguardo, quindi, anche solo ad elementi indiziari offerti dal danneggiato e, nel caso il titolare non sia riuscito a dimostrare il mancato guadagno, il lucro cessante può essere liquidato con il ricorso al metodo alternativo della giusta royalty o royalty virtuale, senza onere, per il titolare della privativa, di dimostrare che con riferimento al diritto di proprietà industriale oggetto della violazione egli avrebbe concluso un contratto di licenza del diritto stesso: in particolare, in assenza di contratti di licenza conclusi dal titolare con riguardo a tale diritto, il giudice, avvalendosi, se del caso, di un consulente tecnico, deve prendere in considerazione la royalty praticata per prodotti, servizi e diritti di proprietà intellettuale che presentino elementi di omogeneità con quelli colpiti dalla denunciata violazione;

la responsabilità dell’hosting provider, prevista dal D.Lgs. n. 70 del 2003, art. 16, sussiste in capo al prestatore dei servizi che non abbia provveduto alla immediata rimozione dei contenuti illeciti, oppure abbia continuato a pubblicarli, quando ricorrano congiuntamente le seguenti condizioni: sia a conoscenza legale dell’illecito perpetrato dal destinatario del servizio, per averne avuto notizia dal titolare del diritto leso oppure aliunde; sia ragionevolmente constatabile l’illiceità dell’altrui condotta, onde l’hosting provider sia in colpa grave per non averla positivamente riscontrata, alla stregua del grado di diligenza che è ragionevole attendersi da un operatore professionale della rete in un determinato momento storico; abbia la possibilità di attivarsi utilmente, in quanto reso edotto in modo sufficientemente specifico dei contenuti illecitamente immessi da rimuovere.

PQM

La Corte;

accoglie i sette motivi di ricorso, ad eccezione del quarto, che dichiara assorbito; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Roma, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 19 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2021

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