Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25057 del 23/10/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 23/10/2017, (ud. 06/07/2017, dep.23/10/2017),  n. 25057

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – rel. Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18142-2013 proposto da:

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE UNIVERSITA’ E RICERCA, (OMISSIS), in

persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che

lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

R.R., L.S.A.M., D.F.R.,

O.A., elettivamente domiciliate in ROMA, VIA DI PIETRALATA 320,

presso lo studio dell’avvocato GIGLIOLA MAZZA RICCI, che le

rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANCESCO ORECCHIONI;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 642/2012 del TRIBUNALE di LANCIANO, depositata

il 10/11/2012, e l’ordinanza della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA n.

3/2013, depositata il 24/05/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 06/07/2017 dal Consigliere Dott. LUCIA ESPOSITO.

Fatto

RILEVATO

che la Corte di appello di L’Aquila ha dichiarato inammissibile ai sensi dell’art. 348 bis c.p.c., per mancanza di ragionevole probabilità di essere accolto, l’appello proposto dal MIUR avverso la sentenza del giudice di primo grado che aveva accolto la domanda proposta da R.R., O.A., L.S.A.M. e D.F.R., docenti non di ruolo, incaricati di supplenze in forza di consecutivi contratti a tempo determinato, alla progressione stipendiale in relazione al servizio prestato in forza di tali contratti;

che la Corte territoriale fondava la decisione sul principio di non discriminazione sancito dalla clausola 4 dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato, trasfuse, nella Direttiva 99/70/CE del 28 giugno 1999 che impone la disapplicazione del diritto interno;

che per la cassazione della sentenza del Tribunale e dell’ordinanza della Corte d’appello ha proposto ricorso il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca sulla base di un motivo;

che i convenuti hanno resistito con controricorso;

che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio non partecipata;

che il collegio ha autorizzato, come da decreto del Primo Presidente in data 14 settembre 2016, la redazione della motivazione in forma semplificata.

Diritto

CONSIDERATO

che con l’unico articolato motivo il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 6, del D.L. 13 maggio 2011, n. 70, art. 9, comma 18, come convertito con modificazioni dalla L. 12 luglio 2011, n. 106, art. 1, comma 2, della L. 11 luglio 1980, n. 312, art. 53, della L. 3 maggio 1999, n. 124, art. 4, del D.Lgs. 16 aprile 1994, n. 297, art. 526 e della direttiva 99/70/CE (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). Assume che: – i rapporti di lavoro a tempo determinato del settore scolastico sono assoggettati ad una normativa speciale di settore, sicchè agli stessi non si applica la disciplina generale dettata dal D.Lgs. n. 368 del 2001; – il principio di non discriminazione è correlato all’abuso del contratto a termine, che nella specie deve essere escluso in quanto il ricorso alla supplenza e alla stipula di contratti a termine del personale scolastico trova giustificazione in ragioni oggettive e non è maliziosamente finalizzato a corcentire al datore di lavoro un risparmio di spesa; – non è ravvisabile l’insussistenza di ragioni oggettive atte a giustificare il diverso trattamento economico, poichè il ricorso a supplenze non deriva da una scelta discrezionale dell’amministrazione ma da esigenze obiettive di gestione del rapporto di lavoro nel particolare settore;

che il motivo, con riferimento all’ordinanza della Corte d’appello, è inammissibile, essendo la ricorribilità dell’ordinanza limitata ai vizi processuali propri e riservata l’impugnabilità per vizi di merito nei confronti della sola sentenza di primo grado (Cass. Sez. U., Sentenza n. 1914 del 02/02/2016);

che lo stesso motivo, con riferimento alla sentenza del Tribunale, non è fondato, osservandosi, in conformità con Cass. n. 22558/2016; Cass. n. 27387/2016; Cass. n. 165/2017; Cass. n. 290/2017, alle cui motivazioni ci si riporta integralmente in quanto del tutto condivise), che il Ministero ricorrente sovrappone e confonde il principio di non discriminazione, previsto dalla clausola 4 dell’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato (concluso il 18 marzo 1999 fra le organizzazioni intercategoriali a carattere generale – CES, CEEP e UNICE – e recepito dalla Direttiva 99/70/CE), con il divieto di abusare della reiterazione del contratto a termine, oggetto della disciplina dettata dalla clausola 5 dello stesso Accordo, laddove i due piani debbono, invece, essere tenuti distinti, essendo il primo principio teso a “migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione” e il divieto a “creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato”;

che l’obbligo posto a carico degli Stati membri di assicurare al lavoratore a tempo determinato condizioni di impiego che non siano meno favorevoli rispetto a quelle riservate all’assunto a tempo indeterminato comparabile, sussiste, quindi, a prescindere dalla legittimità del termine apposto al contratto, giacchè detto obbligo è attuazione, nell’ambito della disciplina del rapporto a termine, del principio della parità di trattamento e del divieto di discriminazione che costituiscono “norme di diritto sociale dell’Unione di particolare importanza, di cui ogni lavoratore deve usufruire in quanto prescrizioni minime di tutela” (Corte di Giustizia 9.7.2015, causa C177/14, Regojo Dans, punto 32);

che la clausola 4 dell’Accordo quadro è stata più volte oggetto di esame da parte della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, che ha affrontato tutte le questioni rilevanti nel presente giudizio rilevandone il carattere incondizionato idoneo alla disapplicazione di qualsiasi contraria disposizione del diritto interno (Corte di Giustizia 15.4.2008, causa C- 268/06, Impact; 13.9.2007, causa C- 307/05, Del Cerro Alonso; 8.9.2011, causa C-177/10 Rosado Santana) ed affermando la esclusione di ogni interpretazione restrittiva, non potendo la riserva in materia di retribuzioni contenuta nell’art. 137 n. 5 del Trattato (oggi 153 n. 5), “impedire ad un lavoratore a tempo determinato di richiedere, in base al divieto di discriminazione, il beneficio di una condizione di impiego riservata ai soli lavoratori a tempo indeterminato, allorchè proprio l’applicazione di tale principio comporta il pagamento di una differenza di retribuzione” (Del Cerro Alonso, cit., punto 42);

che la CGUE ha evidenziato che le maggiorazioni retributive che derivano dalla anzianità di servizio del lavoratore costituiscono condizioni di impiego ai sensi della clausola 4, con la conseguenza che le stesse possono essere legittimamente negate agli assunti a tempo determinato solo in presenza di una giustificazione oggettiva (Corte di Giustizia 9.7.2015, in causa C177/14, Regojo Dans, punto 44, e giurisprudenza ivi richiamata) e che a tal fine non è sufficiente che la diversità di trattamento sia prevista da una norma generale ed astratta, di legge o di contratto, nè rilevando la natura pubblica del datore di lavoro e la distinzione fra impiego di ruolo e non di ruolo, perchè la diversità di trattamento può essere giustificata solo da elementi precisi e concreti di differenziazione che contraddistinguano le modalità di lavoro e che attengano alla natura ed alle caratteristiche delle mansioni espletate (Regojo Dans, cit., punto 55 e con riferimento ai rapporti non di ruolo degli enti pubblici italiani Corte di Giustizia 18.10.2012, cause C302/11 e C305/11, Valenza; 7.3.2013, causa C393/11, Bertazzi);

che l’interpretazione delle norme eurounitarie è riservata alla Corte di Giustizia, le cui pronunce hanno carattere vincolante per il giudice nazionale – che può e deve applicarle anche ai rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza interpretativa – e valore di ulteriore fonte del diritto della Unione Europea, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell’ambito dell’Unione (fra le più recenti in tal senso Cass. 8 febbraio 2016, n. 2468);

che correttamente, pertanto, la sentenza impugnata ha richiamato le statuizioni della Corte di Lussemburgo per escludere la conformità al diritto eurounitario delle clausole dei contratti collettivi nazionali per il comparto scuola, succedutisi nel tempo, in forza delle quali per il personale docente ed educativo non di ruolo era escluso il riconoscimento della anzianità di servizio, previsto per gli assunti a tempo indeterminato in base ad un sistema di progressione stipendiale secondo fasce di anzianità;

che anche in questa sede il Ministero, pur affermando l’esistenza di condizioni oggettive a suo dire idonee a giustificare la diversità di trattamento, ha fatto leva su circostanze che prescindono dalle caratteristiche intrinseche delle mansioni e delle funzioni esercitate, le quali sole potrebbero legittimare la disparità, insistendo, infatti, sulla natura non di ruolo del rapporto di impiego e sulla novità di ogni singolo contratto rispetto precedente, ossia su ragioni oggettive che legittimano il ricorso al contratto a tempo determinato e che rilevano ai sensi della clausola 5 dell’Accordo Quadro, da non confondere, per quanto sopra si è già detto, con le ragioni richiamate nella clausola 4, che attengono, invece, alle condizioni di lavoro che contraddistinguono i due tipi di rapporto in comparazione, in ordine alle quali nulla ha dedotto il ricorrente;

che, pertanto, essendo da condividere la proposta del relatore, il ricorso va complessivamente rigettato;

che la novità e la complessità della questione, diversamente risolta dalle Corti territoriali, giustificano la compensazione delle spese del giudizio di legittimità;

che non può trovare applicazione nei confronti delle amministrazioni dello Stato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, atteso che le stesse, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (cfr. Cass. n. 1778/2016).

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Spese compensate.

Così deciso in Roma, il 6 luglio 2017.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2017

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