Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25054 del 07/12/2016


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Cassazione civile sez. un., 07/12/2016, (ud. 08/11/2016, dep. 07/12/2016), n.25054

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente aggiunto –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Presidente di sez. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di sez. –

Dott. PETITTI Stefano – Presidente di sez. –

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – rel. Consigliere –

Dott. MANNA Felice – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 23115-2015 proposto da:

S.G., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA

CAPRANICA 95, presso lo studio dell’avvocato MARCELLA ZAPPIA,

rappresentato e difeso dall’avvocato ALESSANDRO MARIO TRAVIA, per

delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CONSIGLIO DELL’ORDINE DEGLI AVVOCATI DI UDINE, in persona del

Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, presso la

CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato MARINO FERRO, per delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 128/2015 del CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE,

depositata il 23/07/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza

dell’8/11/2016 dal Consigliere Dott. DOMENICO CHINDEMI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SALVATO Luigi, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

L’avvocato S.G. è stato ritenuto colpevole dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Udine degli illeciti disciplinari contestatigli (condotta truffaldine ai danni di una propria cliente incapace di intendere e di volere, pur se non interdetta, accertati in sede penale con sentenza irrevocabile di condanna). Per tali illeciti gli è stata comminata la sanzione della radiazione.

L’interessato ha proposto ricorso al Consiglio nazionale forense che con sentenza n. 128/2015 lo ha rigettato ritenendo non operante la L. n. 247 del 2012, quanto alla prescrizione, individuando la corrispondenza degli illeciti contestati nelle disposizioni del nuovo codice deontologico e rilevando che i fatti, nella loro materialità, erano state accertate in sede penale e che, comunque la sanzione applicata scaturiva da un’autonoma, condivisa, valutazione della rilevanza disciplinare delle condotte contestate, congrua rispetto alla gravità delle condotte stesse.

Il S. propone ricorso per cassazione affidato a due motivi.

Il Consiglio dell’ordine degli avvocati di Udine si è costituito con controricorso. L’istanza di sospensione della sanzione veniva respinta con ordinanza n. 13374/16. Il ricorrente presentava memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo di ricorso parte ricorrente deduce la violazione della L. 31 dicembre 2012, n. 247, artt. 54, 56 e 65 (Nuova disciplina dell’ordinamento delle professioni forensi) lamentando l’erroneità della mancata applicazione della L. n. 247 del 2012, art. 56, comma 1 che prevede che “l’azione disciplinare si prescrive nel termine di sei anni dal fatto” e del comma 3 cit. articolo che sancisce che “in nessun caso il termine stabilito nel comma 1 può essere prolungato di oltre 1/4”, con conseguente durata massima del procedimento in anni 7, mesi 6, ampiamente decorso nella fattispecie in esame.

Il Consiglio Nazionale Forense ha escluso l’applicabilità della nuova disciplina della prescrizione, emergente dalla L. n. 247 del 2012, art. 56 sia sulla base dell’applicazione del principio del c.d. favor rei, sia sulla base della irretroattività della norma di cui alla L. n. 247 del 2012, art. 65, comma 5.

In disparte la valutazione sul “favor rei”, della nuova disciplina della prescrizione rispetto alla precedente, appare assorbente di ogni altra valutazione il consolidato orientamento di questa Corte” a cui si intende dare continuità, secondo cui “In terna di azione disciplinare nei confronti degli avvocati, il nuovo e più mite regime della prescrizione di cui alla L. n. 247 del 2012 non si applica ai procedimenti in corso, giacchè il principio di retroattività della lex mitior non riguarda il termine di prescrizione, ma solo la fattispecie incriminatrice e la pena” (Cass. Sez. U, Sentenza n. 14905 del 16/07/2015, cfr anche Cass.Sez. U. nn. 23364 e 23836 del 2015).

La stessa Consulta ha affermato, al riguardo, che il principio di retroattività della lex mitior riconosciuto dalla Corte di Strasburgo riguarda esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all’ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità; sicchè, il principio di retroattività non può riguardare le norme sopravvenute che modificano, in senso favorevole al reo, la disciplina della prescrizione, con la riduzione del tempo occorrente perchè si produca l’effetto estintivo del reato (Corte cost. n. 236 del 2011).

2. Con il secondo motivo si deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 nuovo testo, “l’omesso esame di fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti”, lamentando la mancata valutazione dell’attività professionale svolta, di un non meglio individuato ravvedimento, della mancata comminazione in sede penale di sanzioni accessorie e interdittive e della “specchiata condotta” dell’incolpato “prima e dopo i fatti contestati”, assumendo che la loro valutazione avrebbe almeno potuto incidere sull’individuazione della sanzione e sulla sua entità; in realtà viene dedotta l’omessa valutazione di una pluralità di fatti.

Il motivo è inammissibile sotto un duplice aspetto.

Va premesso che il vizio così denunciato deve trovare inquadramento nella nuova disciplina dell’art. 360 c.p.c., comma 1^, n. 5; come introdotta dal D.L. n. 83 del 2012 convertito con modificazioni nella L. n. 134 del 2012 (sentenza di appello pubblicata dopo l’11 settembre 2012); disciplina in base alla quale la sentenza può essere impugnata, in sede di legittimità, non più per “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia” (previgente formulazione dell’art. 360, n. 5 in esame), bensì nei ben più ristretti limiti dell'”omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

In ordine a tale nuova formulazione si è affermato (Cass. Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014) che: “la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione” (cfr Cass. n. 12928/14; Cass., ord. n. 21257/14; Cass. 2498/15).

Va detto che anche sotto la vigenza del “vecchio” art. 360, n. 5) il vizio di motivazione veniva ancorato a ristretti limiti applicativi, volti ad evitare che, attraverso la censura motivazionale, la corte di legittimità venisse investita di una nuova valutazione del fatto (di terzo grado). Sicchè era orientamento costante che la legge non attribuisse alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare – sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica – l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento.

Con la nuova formulazione così come interpretata dall’indicate sentenze delle SSUU – il legislatore è intervenuto, anche in funzione deflattiva, per ridurre ulteriormente, e drasticamente, l’ambii:ci di rilevanza del vizio di motivazione.

E ciò è stato fatto secondo le seguenti direttrici: – riconduzione di tale vizio, ex art. 12 preleggi, al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, nel senso che è rilevante solo quel vizio che si concreti nella violazione dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti giurisdizionali ex art. 111 Cost., come attuato in via ordinaria dall’art. 132 c.p.c., n. 4); conseguente riferibilità del vizio non più alle ipotesi di insufficienza della motivazione, ma soltanto a quelle di inesistenza della medesima, in quanto appunto rivelatrice dell'”omesso esame” circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti; in maniera tale che, nella nuova formulazione, il vizio motivazionale si restringe in quello di violazione di legge, quest’ultima individuata proprio nel suddetto art. 132 c.p.c., che impone al giudice di redigere la sentenza indicando “la concisa esposizione c’elle ragioni di fatto e di diritto della decisione”; individuazione delle ipotesi di inesistenza della motivazione, considerate a tal punto radicali da determinare la nullità della sentenza, non soltanto in senso fisico o documentale (“mancanza assoluta dì motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”), ma anche logico-funzionale; nel senso di doversi reputare inesistente, ai fini in oggetto, anche la motivazione materialmente esistente, e però connotata da “mera apparenza”, dal “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, da un ragionamento “perplesso ed obiettivamente incomprensibile”; poichè in tutte queste ipotesi la motivazione offerta viene svolta in modo talmente carente o incoerente da non poterla individuare come giustificazione o ragione del decisum e, per ciò soltanto, da risolversi in una non-motivazione su una quaestio facti decisiva, il cui esame viene pertanto omesso; – l’imputazione dell’omissione ad un fatto storico (principale o secondario) la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia); non può invece rilevare l’omesso esame di elementi istruttori, allorquando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè questi non abbia poi dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti.

I fatti asseritamente non valutati non rientrano nel paradigma di quelli riconducibili alla dedotta violazione esulando del tutto dai limiti per il quale è previsto il controllo di legittimità in base al novellato art. 360 c.p.c., n. 5, richiedendosi di fatto alla Corte di cassazione il riesame degli elementi probatori emersi agli atti ed un nuovo e favorevole giudizio sul merito della controversia; senza, peraltro, soddisfare gli oneri di specificità e di autosufficienza (in particolare, il ricorrente non ha indicato, ai fini del rispetto dell’art. 366 c.p.c., n. 6, se e dove i suddetti fatti fossero stati introdotti in funzione dell’esame del giudice disciplinare nel relativo giudizio).

Va, conseguentemente, rigettato il ricorso con condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso, condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4000 per compensi professionali, oltre Euro 200 per esborsi, oltre spese forfettarie e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 8 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 7 dicembre 2016

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