Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25052 del 08/10/2019

Cassazione civile sez. trib., 08/10/2019, (ud. 26/03/2019, dep. 08/10/2019), n.25052

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI N. M.G. – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 14307 del ruolo generale dell’anno 2015

proposto da:

L.P. di P.N. & C s.a.s., in liquidazione, in

persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e

difesa, per procura speciale in calce al ricorso, dagli Avv.ti

Enrico Allegro e Paolo Mereu, elettivamente domiciliata in Roma, via

G.G. Belli, n. 27, presso lo studio di quest’ultimo difensore;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello

Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è

domiciliata;

– controricorrente

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Lombardia, n. 6483/2014, depositata in data 10

dicembre 2014;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 26 marzo 2019

dal Consigliere Giancarlo Triscari;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore

generale Dott.ssa Zeno Immacolata, che ha concluso chiedendo

l’inammissibilità dei motivi illustrati da pag. 116 a 137 del

ricorso ed il rigetto dei restanti motivi;

udito per l’Agenzia delle dogane l’Avv. dello Stato Anna

Collabolletta.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle dogane ha emesso nei confronti di L.P. di P.N. & C., s.a.s, un avviso di rettifica dell’accertamento relativo al valore delle merci dichiarato in tre bollette, emesse nell’anno 1988, per l’importazione di formaggi di origine svizzera; in particolare, era stato accertato che, pur avendo la contribuente beneficiato del pagamento del prelievo agricolo preferenziale, fatto valere mediante la presentazione della certificazione MOD.IMA1, la stessa, tuttavia, aveva ricevuto sconti, bonifici ed altro che avevano portato il prezzo effettivo delle merci importate al di sotto della soglia prevista dalla normativa comunitaria per potere accedere al suddetto beneficio; avverso la suddetta pretesa impositiva la contribuente aveva proposto ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Como che lo aveva accolto; l’Agenzia delle dogane aveva proposto appello e la Commissione tributaria regionale della Lombardia lo aveva rigettato; avverso la suddetta pronuncia l’Agenzia delle dogane aveva proposto ricorso per cassazione; la Corte di cassazione aveva accolto il ricorso avendo rilevato che non correttamente il giudice del gravame aveva annullato la pretesa impositiva sulla base di un motivo non proposto dalla contribuente, relativo, in particolare, alla invalidità della clausola contenuta nel certificato IMA1, ed aveva, quindi, cassato con rinvio la pronuncia impugnata; la società contribuente aveva, quindi, riassunto il giudizio.

La Commissione tributaria regionale della Lombardia ha rigettato il ricorso in riassunzione, dichiarando la legittimità della pretesa impositiva.

Avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso L.P. di P.N. & C., s.a.s, affidato a otto motivi di censura, cui ha resistito l’Agenzia delle dogane depositando controricorso, illustrato con successiva memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Prima di esaminare specificamente i profili di doglianza contenuti nel ricorso, va osservato, in termini generali, che lo stesso è strutturato mediante una allegazione iniziale della documentazione relativa alle fasi del giudizio di merito, ed una successiva indicazione di ragioni di doglianza, senza che, in quest’ultimo caso, sia indicato in rubrica sotto quale profilo, tra le diverse possibili ragioni di contestazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, è prospettata la censura.

Anche la parte di cui a pag. 116, rubricata “In diritto”, in cui la ricorrente censura la sentenza del giudice del gravame per non avere valutato analiticamente, ma solo in modo generico, i motivi di doglianza proposti in primo grado, risulta del tutto generica.

Va precisato che, secondo questa Corte, (Cass. Sez. U, Sentenza n. 5698 del 11/04/2012; Sez. U, Ordinanza n. 19255 del 09/09/2010; Sez. U, Sentenza n. 16628 del 17/07/2009) ai fini del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è, per un verso, del tutto superflua, non essendo affatto richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; per altro verso, è inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto (anche quello di cui non occorre sia informata), la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso. Perciò la prescrizione normativa non può ritenersi osservata quando il ricorrente non riproduca alcuna narrativa della vicenda processuale, nè accenni all’oggetto della pretesa, limitandosi a riprodurre l’intero ricorso di primo grado ed il testo integrale di tutti gli atti successivi, rendendo così particolarmente indaginosa l’individuazione della materia del contendere e contravvenendo allo scopo della disposizione, preordinata ad agevolare la comprensione dell’oggetto della pretesa e del tenore della sentenza impugnata in immediato coordinamento con i motivi di censura.

Nel caso di specie, la ricorrente ha utilizzato la tecnica dell’assemblaggio per riprodurre in 115 pagine tutti gli atti processuali senza indicare il momento di sintesi funzionale all’illustrazione dei motivi (sviluppata da pag. 116 a pag. 144); ciò non consente di cogliere i fatti rilevanti in funzione della comprensione dei motivi stessi.

2. Anche relativamente ai singoli motivi va osservato che il ricorso per cassazione, avendo a oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi (Cass., sez. U, 24 luglio 2013, n. 17931).

Posto dunque che il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato dai motivi di ricorso che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito, il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità, nonchè esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie previste, sicchè sono inammissibili critiche generiche della sentenza impugnata.

Con riferimento al ricorso in esame, va osservato che i motivi di censura si limitano a prospettare ragioni di doglianza che attengono alla illegittimità dell’atto impositivo, senza alcuna indicazione delle diverse ipotesi tassative di censura, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, che consenta di identificare chiaramente lo specifico vizio della sentenza impugnata di cui è chiesta la cassazione.

Il ricorso è dunque inammissibile.

3. In ogni caso, anche i singoli motivi di ricorso sono da considerarsi inammissibili.

3.1. Con il primo motivo si censura la sentenza per “nullità dell’atto opposto per difetto di prova e illegittima utilizzazione a fini fiscali e tributari di documentazione acquisita dagli organi di polizia giudiziaria”; in particolare si evidenzia che la sentenza impugnata non consentirebbe di comprendere con chiarezza sulla base di quali elementi è stato ritenuto che, nella fattispecie, era stata concessa l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria procedente ad utilizzare i dati e gli elementi raccolti dalla polizia giudiziaria ai fini dell’accertamento.

Il motivo è inammissibile.

Lo stesso sembra censurare la pronuncia per insufficiente motivazione e, anche sotto tale profilo, oltre che per le ragioni di cui in premessa, è inammissibile, non essendo riconducibile alla previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel testo in vigore dopo le modifiche apportate dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83.

In ogni caso, la pronuncia, nell’esaminare la questione in esame, ha motivato facendo rinvio a quanto prima esposto in ordine alla esistenza dell’autorizzazione dell’autorità giudiziaria.

In particolare, la stessa aveva in precedenza fatto riferimento (vd. pag. 7 della sentenza) al fatto che la A.G. autorizzava la Dogana ex art. 258 c.p.p. ad estrarre copia di documenti dal fascicolo penale concernente la ditta importatrice (atto 12.2.04).

Non sussiste, dunque, il difetto di motivazione sul punto in esame. 3.2. Con il secondo motivo si censura la sentenza per “nullità dell’avviso per difetto di motivazione in particolare si evidenzia che l’affermazione ivi contenuta, cioè che l’annullamento in autotutela riguardava solo vizi formali del provvedimento annullato, sarebbe carente dal punto di vista consequenziale e logico, dal momento che non argomenta in ordine alla tesi difensiva secondo cui il rinvio acritico ad un atto istruttorio nullo rende conseguentemente nullo anche l’avviso impugnato.

Il motivo è inammissibile.

Anche in questo caso, va detto che la censura in esame non è riconducibile alla previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel testo in vigore dopo le modifiche apportate dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83.

In ogni caso, va osservato che, sulla questione prospettata, il giudice del gravame ha ritenuto non fondata la doglianza di parte ricorrente relativa al difetto di motivazione dell’atto successivo in quanto basato su di un precedente atto poi annullato in autotutela, avendo ritenuto, correttamente, che il precedente atto era stato annullato solo per vizi di forma, il che non ha influito sulla validità sostanziale del contenuto di quell’atto, ripreso a fondamento motivazionale dell’atto successivo.

3.3. Con il terzo motivo si censura la sentenza per “nullità dell’avviso di rettifica per violazione del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11”, in ordine alla questione della prescrizione della pretesa impositiva.

Il motivo è inammissibile.

Lo stesso non contiene alcun riferimento specifico alla parte della pronuncia del giudice del gravame che ha definito la suddetta questione, ma solo indicazioni fattuali relative alla vicenda e prospetta, inoltre, una diversa questione che attiene alla ritenuta violazione dell’art. 6 CEDU e dell’art. 4 Protocollo n. 7 della Convenzione in materia di ne bis in idem.

Il motivo, dunque, è orientato unicamente a far valere ragioni di doglianza relative alla pretesa impositiva, senza tenere conto del contenuto della sentenza che ha ritenuto non sussistente alcuna prescrizione per la pretesa fatta valere dall’amministrazione doganale, atteso che il termine era stato interrotto dalla notitia criminis e fino agli esiti della pronuncia penale.

Questo specifico passaggio motivazionale (vd. Pag. 9 della sentenza) non è stato fatto oggetto di specifica censura con il motivo in esame.

Nè può avere rilevanza la diversa questione della violazione del ne bis in idem, essendo assolutamente inconferente al caso in esame, non essendo stata applicata alcuna sanzione, come si evince dal contenuto dell’avviso di rettifica riprodotto dalla ricorrente, ove, a pag. 3, risulta evidenziato che, per quanto concerneva la sanzione, si sarebbe proceduto con atto separato.

3.4. Con il quarto motivo sì censura la sentenza per “insussistenza del debito per i diritti doganali relativi al 1988”; in particolare viene evidenziata l’insussistenza del preventivo e preordinato accordo tra il legale rappresentante della società contribuente e la società esportatrice, la mancanza di elementi presuntivi dotati di gravità, precisione e concordanza per l’accertamento dell’indebito beneficio acquisito, e si evidenzia che le considerazioni espresse dalla sentenza impugnata sul punto non sarebbero conferenti.

Il motivo è inammissibile.

Dall’esame del contenuto del presente motivo di ricorso non è chiaro se con lo stesso si intenda prospettare un vizio di violazione di legge, per non corretta applicazione della disciplina in materia di presunzioni (come condurrebbe a ritenere il riferimento espresso all’art. 2729, c.c.) ovvero di omessa pronuncia della sentenza sulla questione in esame (come potrebbe ricavarsi dalla considerazione finale, secondo cui la motivazione della sentenza in esame non sarebbe conferente con la questione prospettata).

Si tratta, tuttavia, di profili di censura diversi e che avrebbero dovuto essere prospettati secondo un’argomentazione autonoma e distinta, in quanto nel primo caso viene censurata la pronuncia per violazione di legge, nel secondo per vizio di motivazione: la contestuale e non chiara delineazione delle ragioni prospettate, orientate a censurare l’atto impositivo, più che il contenuto della sentenza, non consente di potere apprezzare e valutare la censura. A ciò va aggiunto che, sul punto in esame, relativo cioè alla legittimità della pretesa per avere la parte beneficiato del prelievo agricolo preferenziale senza che ne sussistessero i presupposti, la sentenza impugnata ha precisato che la documentazione prodotta dall’ufficio ha accertato un indebito godimento di sconti, premi o riduzioni produttive degli effetti appena precisati determinando la non corrispondenza del certificato alle istruzioni enunciate nel Regolamento Cee 1761/1982 e, di conseguenza, la perdita del trattamento preferenziale.

Sicchè, la ragione di fondo della pronuncia, in ordine alla questione in esame, ha riguardato la sussistenza di vantaggi economici ricevuti dalla contribuente successivamente all’importazione, profilo che ha indotto il giudice del gravame a ritenere non sussistenti i presupposti per il beneficio del prelievo agricolo preferenziale.

Questo specifico passaggio motivazionale non è stato oggetto di censura da parte della ricorrente, che si è limitata a dolersi genericamente della inconferenza della sentenza, senza tenere conto della suddetta ratio decidendi e senza fornire, in violazione del principio di specificità, elementi da cui evincere la mancata considerazione di fatti decisivi per il giudizio.

3.5. Con il quinto motivo si censura la sentenza per insussistenza del debito per Iva, per avere ritenuto che l’iva all’importazione non è condonabile, senza, tuttavia, avere tenuto conto del fatto che già nel 1988 la contribuente aveva presentato istanza di definizione agevolata ed effettuato un versamento a titolo di imposta per ciascuna annualità dal 1986 al 1990, pari a Lire 1.000.000.

Il motivo è inammissibile.

Anche in questo caso, non risulta chiaramente precisato sulla base di quale ragione di censura, fra quelli indicati nell’art. 360 c.p.c., comma 1, viene proposto il presente motivo di ricorso. Dal passaggio finale del motivo in esame sembra potersi ricondurre la ragione di censura in esame nell’ambito della mancata considerazione di un fatto decisivo per il giudizio, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), consistente nella circostanza dell’avvenuto versamento dell’iva in sede di procedimento di definizione agevolata ai sensi della L. n. 413 del 1991, art. 50.

In questo quadro, anche ove si volesse orientare l’attenzione sotto il profilo indicato, due considerazioni, tuttavia, devono essere compiute.

In primo luogo, va evidenziato che il motivo in esame difetta di specificità, non risultando in alcun modo riprodotto l’atto da cui evincere l’effettivo versamento dell’importo sopra indicato, limitandosi parte ricorrente ad un generico riferimento a tale circostanza.

In secondo luogo, la pronuncia del giudice del gravame ha implicitamente tenuto conto delle considerazioni espresse dalla società contribuente, in particolare dei limiti del potere di accertamento come previsti nella L. n. 413 del 1991, art. 50, comma 3, escludendo tout court l’applicabilità della previsione in esame al caso di specie, trattandosi di pretesa che attiene alla materia doganale, in quanto tale sottratta alla disciplina sopra indicata.

Questo passaggio motivazionale non è stato oggetto di specifica censura da parte della ricorrente, che, invece, si è limitata a riproporre la questione della valenza del versamento compiuto in sede di procedimento di definizione agevolata, senza ulteriori ragioni di contestazione alla ratio decidendi della pronuncia in esame.

3.6. Con il sesto motivo si censura la sentenza per “illegittimità della richiesta di interessi”, in quanto nella fattispecie mancherebbe un atto di accertamento e di contestazione della violazione dei diritti doganali e, inoltre, la pronuncia censurata non si sarebbe pronunciata sulla sproporzione degli interessi applicati rispetto alla quota capitale, in considerazione dell’irragionevolezza evidenziata sin dal primo grado.

Il motivo è inammissibile.

Il primo profilo, relativo alla mancanza di un atto di accertamento risulta del tutto avulso dal contesto, avendo valenza l’avviso di rettifica dell’accertamento, riprodotta dalla contribuente in sede di ricorso.

Il secondo profilo, relativo al calcolo degli interessi, non tiene conto del fatto che la pronuncia impugnata ha precisato che lo stesso è stato compiuto ai sensi dell’art. 86 T.U. L. Doganale vigente, ratione temporis, dal 1991 al 1997, nella misura del 18 per cento annuo: questo passaggio motivazionale, relativo ai criteri di calcolo applicati, non è stato oggetto di specifica censura, limitandosi la ricorrente a dedurre, genericamente, l’irragionevolezza della misura, senza alcuna altra precisazione.

3.7. Con il settimo motivo si censura la sentenza per “erronea e falsa interpretazione di legge quanto all’art. 220 Reg. Cee n. 2913/1992 e conseguente nullità dell’atto opposto”, per essersi ‘imitata a ripercorrere la narrativa delle doglianze e delle argomentazioni giurisprudenziali, senza tuttavia argomentare sulle implicazione conseguenti secondo un iter logico deduttivo.

Va osservato, in primo luogo, che la rubrica del motivo di ricorso in esame sembra orientare la ragione di doglianza nel senso della violazione di legge, avendo parte ricorrente segnalata, in astratto, quale sia la corretta interpretazione della previsione di cui all’art. 220 Reg. Cee n. 2913/1992.

Tuttavia, la parte conclusiva del motivo sembra, piuttosto, ricondurre la censura nell’ambito della insufficiente pronuncia, essendo stata lamentata, di fatto, l’omessa esposizione dell’iter logico attraverso cui la sentenza è pervenuta a ritenere insussistenti le condizioni per l’esclusione di responsabilità della ricorrente.

In realtà, la pronuncia in esame ha ritenuto che, nella fattispecie, non poteva trovare applicazione l’esimente della buona fede della contribuente, dovendosi accertare tutti i presupposti previsti dall’art. 220 Reg. Cee n. 2913/1992, cioè l’errore attivo dell’autorità doganale, non riscontrabile nelle sole dichiarazioni inesatte del debitore, e la buona fede della contribuente, e, sotto tale profilo, la necessità del rispetto delle disposizioni vigenti in materia doganale e l’osservanza degli obblighi di diligenza dalla stessa esigibili in relazione alla esperienza professionale assunta, ponendosi su di essa l’onere di prova la sussistenza di tutte le suddette condizioni.

In sostanza, dalle considerazioni espresse il giudice del gravame ha ritenuto che non sussistevano le condizioni previste dal citato art. 220.

Parte ricorrente si è limitata a censurare la pronuncia per omessa esposizione delle ragioni sulla cui base è pervenuta alla considerazione sopra espressa, senza tuttavia in alcun modo prospettare, in difetto di specificità, sotto quale profilo doveva, invece, ritenersi che, nella fattispecie in esame, sussisteva un errore attivo dell’autorità doganale nonchè la propria buona fede, cioè, sotto tale profilo, di avere agito con la dovuta diligenza.

3.8. Con l’ottavo motivo si censura la sentenza per erronea e falsa interpretazione di legge quanto all’art. 239 Reg. Cee n. 2913/1992 e conseguente nullità dell’atto opposto, non essendosi la stessa pronunciata sui diversi profili prospettati, in particolare sulla sussistenza della buona fede dell’importatore.

Il motivo è inammissibile.

La disciplina di cui all’art. 236 del Reg. Cee n. 2913/1992, prevede la possibilità di procedere al rimborso di un dazio doganale non dovuto ovvero lo sgravio dei dazi all’importazione o dei dazi all’esportazione quando si constati che al momento della contabilizzazione il loro importo non era legalmente dovuto o che l’importo è stato contabilizzato contrariamente all’art. 220, par. 2.

L’art. 239 medesimo Regolamento, inoltre, prevede che 1. Si può procedere al rimborso o allo sgravio dei dazi all’importazione o dei dazi all’esportazione in situazioni diverse da quelle di cui agli artt. 236, 237 e 238: – da determinarsi secondo la procedura del comitato; – dovute a circostanze che non implicano frode o manifesta negligenza da parte dell’interessato. (…). 2. Il rimborso o lo sgravio dei dazi per i motivi di cui al paragrafo 1 è concesso su richiesta presentata all’ufficio doganale interessato entro dodici mesi dalla data della comunicazione al debitore dei predetti dazi.

Parte ricorrente si limita a fare riferimento a quest’ultima previsione normativa, senza tuttavia precisare su quale presupposto la stessa è riconducibile alla fattispecie in esame, tenuto conto del fatto che, come detto, la previsione sopra citata prevede una espressa richiesta del debitore.

Il motivo di ricorso in esame è, per la verità, incentrato sul requisito della buona fede del contribuente e della frode e negligenza manifesta, e nello stesso viene precisato che i criteri da utilizzare per potere determinare se un operatore abbia agito o meno in modo manifestamente negligente sono identici a quelli che consentono di determinare se un errore dell’autorità doganale, ai sensi dell’art. 220, par. 2, lett. b), Reg., possa essere ragionevolmente scoperto dall’operatore.

E’ per tale ragione che il giudice del gravame, nell’esaminare la questione in esame (indicata come Eccezione n. 8 a pag. 11 della sentenza), ha ritenuto di dovere fare rinvio alle considerazioni già espresse in sede di esame della eccezione n. 7, relativa, appunto, alla necessaria verifica dei presupposti indicati dall’art. 220 ai fini del riconoscimento dell’esimente in favore del debitore.

Implicitamente, quindi, il giudice del gravame ha ritenuto che il profilo della buona fede, comunque non provata dalla contribuente, era condizionato alla sussistenza dell’errore attivo dell’autorità doganale.

Non può, quindi, ragionarsi in termini di omessa pronuncia, come invece postulato dalla ricorrente, in quanto, seppure mediante rinvio al motivo in precedenza esaminato, il giudice del gravame si è pronunciato sulla questione.

Anche in questo caso, peraltro, va osservato che il motivo risulta viziato da difetto di specificità, non avendo indicato sotto quale profilo doveva ritenersi che, nella fattispecie in esame, sussisteva la propria buona fede, cioè, sotto tale profilo, di avere agito con la dovuta diligenza.

In conclusione, i motivi sono inammissibili, con conseguente rigetto del ricorso e condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio.

Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

La Corte:

dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese di lite del presente giudizio che si liquidano in complessive Euro 3.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 26 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2019

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