Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2505 del 27/01/2022
Cassazione civile sez. VI, 27/01/2022, (ud. 14/01/2022, dep. 27/01/2022), n.2505
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –
Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 32183-2019 proposto da:
A.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA F.
CONFALONIERI 5, presso lo studio dell’avvocato ANDREA MANZI,
rappresentata e difesa dall’avvocato GIUSEPPE MAZZARELLA giusta
procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
A.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE LIEGI 58,
presso lo studio dell’avvocato SANTI GIOACCHINO GERACI, che lo
rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 666/2019 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,
depositata il 26/03/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del
14/01/2022 dal Consigliere Dott. CRISCUOLO MAURO.
Fatto
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE
Con citazione dell’8 giugno 2012 A.G. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Palermo la sorella A.M. chiedendo accertarsi la simulazione di una serie di atti posti in essere tra quest’ultima e la de cuius, D.G.G., in quanto dissimulanti delle donazioni, da prendere in considerazione ai fini successori.
Esponeva che in data 31 ottobre 2011 era deceduta la madre che era in vita titolare di una farmacia, e che in data 7 dicembre 1982 era intervenuto tra la defunta e la figlia M. un contratto di associazione in partecipazione che prevedeva in favore dell’associata la partecipazione agli utili in misura pari al 50% dietro l’apporto di forza lavoro. Il 28 dicembre 1989, sciolto il contratto di associazione in partecipazione, veniva costituita un’impresa familiare ai sensi dell’art. 230 c.c. in virtù della quale era determinata in favore della convenuta una quota di partecipazione agli utili pari al 49%. Il 29 settembre 1993 era stato stipulato poi un atto costitutivo di società con contestuale conferimento dell’azienda, il cui capitale sociale era distribuito per il 49% alla convenuta e per il 51% alla de cuius.
Infine, il 30 giugno 2004 era stato stipulato un atto di cessione di quote con il quale la D.G. aveva ceduto la propria quota societaria alla figlia M. per un corrispettivo di Euro 890.313,12.
Nella resistenza della convenuta, il Tribunale con la sentenza n. 4151 del 10 luglio 2015 rigettava tutte le domande, compensando le spese di lite.
Avverso tale decisione proponeva appello l’attore e la Corte d’appello di Palermo con la sentenza n. 666 del 26 marzo 2019, in parziale accoglimento del gravame, dichiarava la simulazione parziale dell’atto di cessione di quote societarie del 30 giugno 2004, limitatamente alla differenza di valore non corrisposta pari ad Euro 1.010.888,88, da intendersi quale atto di liberalità compiuto dalla defunta in favore della convenuta.
Secondo i giudici di appello, doveva essere confermata la conclusione del giudice di primo grado secondo cui risultava prescritta l’azione di simulazione in relazione a tutti gli atti impugnati la cui data risaliva ad oltre 10 anni prima dell’atto di citazione, atteso che risultava esperita un’azione di simulazione relativa, da parte di un soggetto che non aveva inteso esercitare anche l’azione di riduzione.
Per quanto concerneva invece l’atto di cessione di quote del 30 giugno 2004, per il quale non poteva operare la prescrizione, i giudici di appello ritenevano fondate le censure dell’appellante quanto alla stima dell’azienda rientrante nel patrimonio della società. Infatti, il Tribunale di Palermo si era discostato dalle conclusioni della consulenza tecnica d’ufficio in maniera non condivisibile. A tal fine rilevava che l’ausiliare ufficio era addivenuto all’individuazione del valore della farmacia sulla base della media delle stime derivanti da tre distinti metodi (metodo reddituale, metodo misto patrimoniale reddituale, metodo empirico), ma tale conclusione era stata disattesa dal giudice di primo grado il quale aveva ritenuto inattendibile la previsione dell’orizzonte temporale dell’attività futura della farmacia, sostenendo che l’individuazione in 46 anni della prevedibile durata dell’avviamento fosse eccessiva, dovendo invece essere contenuta in 20 anni. Secondo i giudici di appello, si trattava di una conclusione non adeguatamente motivata e che non teneva conto della rilevanza del metodo empirico di stima che si avvale del prezzo ispirato dal mercato in relazione alle peculiarità dell’azienda da stimare; inoltre occorreva considerare che l’azienda – farmacia esprime, indipendentemente dalla sua situazione patrimoniale reddituale, un valore proprio costituito da un titolo equiparabile ad una concessione, licenza o autorizzazione che, secondo la prassi professionale, è suscettibile di una trasmissione all’interno del nucleo familiare e per un considerevole numero di anni.
Per l’effetto doveva ritenersi che le risultanze della consulenza tecnica d’ufficio fossero pienamente attendibili, così che emergeva una rilevante sproporzione tra il prezzo pattuito con l’atto di cessione delle quote societarie e quello effettivamente corrispondente al valore, con la conseguenza che per tale differenza la sproporzione si configurava come una liberalità riconducibile alla figura del negozio mixtum cum donatione, essendo frutto di una consapevolezza da parte dell’alienante e di una sua volontaria accettazione, al fine di favorire l’arricchimento dell’acquirente
Confortava tale convincimento anche il contenuto del testamento olografo della de cuius nel quale la stessa riferiva, avendo proceduto alla nomina dei figli G. e G. come eredi universali, di avere precedentemente anticipato l’eredità alla figlia M., unica laureata in farmacia, e cioè la metà della farmacia di sua proprietà a titolo assolutamente gratuito ed avendo, dietro insistenza, venduto l’altra metà ad un prezzo simbolico.
Tali affermazioni costituivano un rilevante indizio della volontà della defunta di cedere alla figlia la propria quota societaria ad un prezzo non corrispondente al suo esatto valore e per l’effetto doveva essere dichiarata la simulazione parziale per intento di liberalità dell’atto di cessione delle quote societarie, quanto alla differenza tra il prezzo dichiarato ed il valore effettivo delle quote cedute.
Per la cassazione di tale sentenza A.M. ha proposto ricorso, articolato su cinque motivi.
Resiste con controricorso A.G..
Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2469,2470,2556,2557,2558,2559,2560 c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
Si rileva che l’oggetto dell’incarico affidato al CTU era la determinazione del valore delle quote sociali oggetto di cessione, e non anche il valore dell’azienda, mentre l’ausiliario ha stimato quest’ultima.
Il Tribunale aveva rilevato tale errore ma la Corte d’Appello ha omesso di considerare tale differenza, ed ha indebitamente sovrapposto i due negozi, identificando la cessione d’azienda in una cessione di quote societarie.
Il motivo è infondato.
Effettivamente vi è differenza tra l’ipotesi di cessione d’azienda e quella di cessione di quote, atteso il diverso oggetto del bene alienato, differenza che, secondo la giurisprudenza di questa Corte si riverbera essenzialmente sul regime della collazione (di cui però non si controverte ancora nel presente giudizio, avendo la Corte d’Appello limitato il proprio giudizio al solo accertamento dell’esistenza di una donazione in favore della convenuta sub specie di negotium mixtum cum donatione, ed impregiudicata poi la decisione da adottare nel diverso giudizio di divisione ovvero ai fini dell’esercizio dell’azione di riduzione).
Infatti, è stato anche di recente precisato che (Cass. n. 10756/2019) la quota di società è soggetta a collazione per imputazione, prevista dall’art. 750 c.c. per i beni mobili, poiché non conferendo ai soci un diritto reale sul patrimonio societario riferibile alla società, che è soggetto distinto dalle persone dei soci – attribuisce un diritto personale di partecipazione alla vita societaria. La collazione della quota di azienda, che rappresenta la misura della contitolarità del diritto reale sulla “universitas rerum” dei beni di cui si compone, va compiuta, invece, secondo le modalità indicate dall’art. 746 c.c. per gli immobili, sicché – ove si proceda per imputazione – deve aversi riguardo al valore non delle singole cose, ma a quello assunto dalla detta azienda, quale complesso organizzato, al tempo dell’apertura della successione (conf. Cass. n. 502/2003).
Tuttavia, la consapevolezza che il contratto di cui si intendeva accertare il reale contenuto fosse una cessione di quote societarie emerge dalla stessa sentenza laddove a pag. 7 si precisa che la consulenza tecnica era necessaria al fine della determinazione del valore della partecipazione societaria della farmacia.
L’errore che si imputa al giudice di appello è però ravvisato nell’avere fatto riferimento, analogamente a quanto stabilito dal CTU, al valore dell’azienda rientrante nel patrimonio della società, onde risalire al valore delle quote. Trattasi però di errore che non sussiste, essendo evidente che al fine di individuare il corretto valore di mercato delle quote societarie (non potendosi limitare a far riferimento al loro valore nominale) occorre stimare le varie componenti del patrimonio societario, e tra queste riveste carattere essenziale proprio l’azienda di farmacia, al cui esercizio era stata appunto finalizzata la costituzione della società.
A tal fine valga il richiamo alla costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui (cfr. Cass. n. 24769/2018) in tema di valutazione della quota sociale ex art. 2289 c.c., occorre tener conto anche del valore dell’avviamento e, secondo una stima di ragionevole prudenza, della futura redditività dell’azienda, considerato che la norma, facendo riferimento allo scioglimento del rapporto nei confronti di un solo socio, presuppone la continuazione dell’attività sociale che non può riferirsi solo ad un compendio statico e disaggregato di beni, ma deve essere valutata anche avuto riguardo alla sua fisiologica e naturale propensione verso il futuro (conf. Cass. n. 5449/2015; Cass. n. 7595/1993; Cass. n. 4210/1992).
Va peraltro ricordato che, anche secondo la giurisprudenza tributaria (Cass. n. 25262/2017), se la cessione di quote di partecipazioni sociali – nella specie effettuata nella misura del 90 per cento – non consente all’Amministrazione di prendere in considerazione l’avviamento, poiché, consistendo questo nell’attitudine di un complesso aziendale a conseguire risultati economici diversi di quelli raggiungibili attraverso l’utilizzazione isolata dei singoli elementi che lo compongono, tuttavia deve invece essere preso in esame nel caso di sostituzione nell’impresa di un soggetto diverso attraverso il trasferimento dell’intera azienda, o di un suo ramo, ad altra società o ad altro imprenditore individuale, ovvero mediante concentrazione dell’intero capitale nella persona di un unico socio, ipotesi questa verificatasi nella specie, essendo divenuta A.M. unica titolare delle quote societarie per effetto della cessione.
Ed è a tali indicazioni che si è argomentatamene attenuta la sentenza impugnata, che a fronte della determinazione del Tribunale di limitare nel tempo le prospettive di esercizio dell’azienda, ritenendo eccessiva la proiezione cronologica in 46 anni suggerita dall’ausiliario d’ufficio, ha invece reputato corretta la stima del CTU, in considerazione delle peculiari connotazioni dell’attività di farmacista, che viene svolta sulla base di un provvedimento emesso dalla PA, ma suscettibile di trasmissione anche in caso di morte dell’originario titolare.
La differenza di apprezzamento tra Tribunale e Corte d’Appello risiede appunto nella diversa incidenza sulla stima dell’azienda, e di riflesso sulle quote societarie, dell’orizzonte temporale dell’avviamento, di cui viene a fruire la società, ma senza che però possa reputarsi, come invece dedotto nel mezzo di impugnazione che ciò sia frutto di un’erronea individuazione della natura giuridica dell’atto oggetto della richiesta di accertamento da parte dell’attore.
Il secondo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 448 del 2001, art. 5 e dell’art. 769 c.c., con omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
In primo luogo, si deduce che nell’atto di cessione, la venditrice aveva dichiarato che intendeva avvalersi del trattamento fiscale agevolato di cui alla L. n. 448 del 2001, art. 5, che le aveva permesso di azzerare ogni plusvalenza tassabile.
La scelta di ricorrere ad una cessione di quote si giustificava proprio al fine di assicurare tale risparmio fiscale, che invece non vi sarebbe stato ove le parti avessero optato per una cessione di azienda.
Il motivo è inammissibile.
In primis va rilevato che la questione si profila come nuova, non essendo stata oggetto della disamina da parte del giudice di appello, né avendo la parte puntualmente indicato in quale scritto difensivo la stessa fosse stata proposta.
A tal fine va ricordato che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 32804/2019) qualora una questione giuridica – implicante un accertamento di fatto quale nella specie il riscontro dell’effettivo risparmio fiscale) – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che la proponga in sede di legittimità, onde non incorrere nell’inammissibilità per novità della censura, ha l’onere non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, per consentire alla Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la censura stessa (conf. ex multis Cass. n. 2038/2019; Cass. n. 15430/2018; Cass. n. 20694/2018).
Inoltre, una volta sconfessata la fondatezza della censura mossa alla pretesa confusione che sarebbe stata fatta tra la cessione di quote e la diversa figura della cessione di azienda, anche a voler reputare che il ricorso alla cessione di quote risieda nell’esigenza di carattere fiscale (dovendosi peraltro sottolineare come essendo stata l’azienda conferita nella società, il trasferimento della stessa non poteva che avvenire mediante una cessione di quote da parte della madre in favore della figlia), il motivo non si confronta con il fondamento della decisione che ha ravvisato la liberalità proprio nella sproporzione voluta e notevole tra prezzo dichiarato e valore effettivo delle quote alienate.
Se è tale l’elemento che ha indotto a ravvisare la donazione quanto alla differenza di valore, e ciò alla luce dell’elemento probatorio, del pari reputato rilevante, rappresentato dalle dichiarazioni ricognitive dell’avvenuta donazione contenute nel testamento della de cuius, in realtà il vantaggio fiscale vi sarebbe stato per la venditrice anche ove fosse stato dichiarato l’effettivo valore delle quote, sicché l’opportunità di trarre la massima convenienza ai fini fiscali avvalendosi dal regime di cui alla L. n. 448 del 2001, non elide il rilievo che il prezzo dichiarato e formalmente incassato era notevolmente inferiore a quello corrispondente al valore delle quote.
Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 101,112,115 e 184 bis c.p.c. con omesso esame circa un punto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
Si deduce che a dimostrazione dell’erroneità della CTU era stata versata in atti una diversa consulenza redatta in altro giudizio e relativa alla determinazione del valore di una farmacia in Palermo, dalla quale emergeva un valore notevolmente inferiore a quello indicato dall’ausiliario d’ufficio.
Il tribunale aveva valorizzato tale elaborato peritale mentre invece la Corte d’Appello sul punto non ha speso una parola.
Il motivo è inammissibile.
In primo luogo, la Corte d’Appello, nel riferire le critiche mosse dall’appellante, ha ricordato come si fosse fatto riferimento anche alla irrilevanza ai fini della decisione della diversa consulenza, il che esclude che si tratti di un fatto di cui sia stato omesso l’esame, emergendo dalla motivazione che effettivamente sia stata reputata maggiormente attendibile la conclusione dell’ausiliario d’ufficio.
Ancora va ricordato che, se in passato la giurisprudenza della Corte riteneva (Cass. n. 30364/2019) che le consulenze tecniche di parte non costituiscono mezzi di prova ma allegazioni difensive di contenuto tecnico che, se non confutate esplicitamente, devono ritenersi implicitamente disattese, con la precisazione che, quando i rilievi contenuti nella consulenza di parte siano precisi e circostanziati, tali da portare a conclusioni diverse da quelle contenute nella consulenza tecnica d’ufficio ed adottate in sentenza, ove il giudice trascuri di esaminarli analiticamente, ricorre il vizio di insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, a seguito della riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 ad opera della novella del 2012, ed applicabile alla fattispecie in esame, attesa la data di pubblicazione della sentenza impugnata, è stato affermato che (Cass. n. 26305/2018) l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, nel cui paradigma non è inquadrabile la censura concernente la omessa valutazione di deduzioni difensive (in applicazione del predetto principio, la S.C. ha rigettato il motivo di ricorso con il quale il ricorrente si doleva che il giudice d’appello non avesse tenuto conto delle risultanze della consulenza tecnica di parte, sottolineando come, nonostante il suo contenuto tecnico e a differenza della consulenza tecnica d’ufficio, la c.t.p. costituisca una semplice allegazione difensiva, priva di autonomo valore probatorio).
Giova altresì ricordare che le Sezioni Unite (Cass. 8054/2014) hanno sottolineato che “l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie”.
Ne deriva che non è censurabile la valutazione del giudice di appello che, con adeguata motivazione, ha inteso accordare preferenza alle valutazioni espresse dal CTU, e ciò ancorché non si sia peritato di confutare espressamente i diversi elementi emergenti dall’elaborato tecnico invocato dalla ricorrente.
Infine, va anche qui ricordato come l’apprezzamento circa l’esistenza di una donazione quale conseguenza della notevole sproporzione tra il valore delle quote ed il prezzo dichiarato sia stato confortato dalle stesse dichiarazioni rese dalla donante nel proprio testamento, dichiarazioni che sono destinate a vincolare anche la ricorrente in quanto erede della dichiarante.
Il quarto motivo di ricorso deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 747 e 750 c.c., con omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.
Si rileva che la sentenza si sarebbe fermata alla determinazione del valore delle quote all’atto della cessione, trascurando che ai fini della collazione occorre stabilire il valore della donazione alla data di apertura della successione.
La ricorrente aveva sempre chiesto procedersi alla stima alla data della morte della genitrice, e ciò anche alla luce della necessità di dover procedere diversamente per l’ipotesi di collazione della donazione di quote rispetto a quella di collazione d’azienda.
Il motivo è inammissibile, in quanto non si confronta con il reale contenuto della decisione impugnata.
Quest’ultima, nel riscontrare la detta sproporzione tra prezzo dichiarato e valore effettivo delle quote, ha ritenuto di individuare la donazione nella differenza su indicata, e ciò in conformità della giurisprudenza di questa Corte che ha chiarito che (Cass. n. 10759/2019) si ha donazione indiretta di un bene anche quando il donante paghi soltanto una parte del prezzo della relativa compravendita dovuto dal donatario (ovvero incassi solo parte dell’effettivo valore della res alienata), laddove sia dimostrato lo specifico collegamento tra dazione e successivo impiego delle somme, dovendo, in tal caso, individuarsi l’oggetto della liberalità, analogamente a quanto affermato in tema di vendita mista a donazione, nella percentuale di proprietà del bene acquistato pari alla quota di prezzo corrisposta con la provvista fornita dal donante.
Ciò chiarito, va altresì rilevato che, ferma restando la diversa modalità di collazione che va seguita a seconda che si abbia donazione di azienda ovvero di quote societarie (ed in disparte il rilievo per cui, vertendosi in tema di collazione di una donazione indiretta, l’unica forma di collazione è quella per imputazione, cfr. Cass. n. 11496/2010), nella vicenda non rileva la determinazione del valore del bene alla data di apertura della successione, in vista della collazione della donazione, atteso che nel presente giudizio non risulta anche avanzata la domanda di divisione, cui la collazione è funzionale, ma la sola domanda di accertamento della natura parzialmente simulata della vendita di quote, il che impone unicamente di verificare se alla data della vendita vi fosse la dedotta sproporzione.
Stabilire alla luce dell’individuata natura liberale, corrispondente alla differenza, quanto alla cessione del 51 % delle quote, tra il valore della partecipazione (Euro 1.901.202,00) e la parte di esso non ricevuta dall’acquirente (pari ad Euro 1.010.888,88), quale sia il valore da considerare ai fini dell’imputazione, e ciò in relazione questa volta al valore delle quote alla data di apertura della successione, è problema che non rileva ai fini del presente giudizio e che si porrà nella diversa sede in cui la collazione sarà chiamata ad operare.
Il quinto motivo denuncia la violazione dell’art. 91 c.p.c., sul presupposto della fondatezza dei precedenti motivi, che avrebbe imposto una diversa regolamentazione delle spese di lite.
Il rigetto e l’inammissibilità delle censure mosse dalla ricorrente, rendono evidente anche l’infondatezza di quella in esame.
Il ricorso deve pertanto essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
Poiché il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
PQM
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente, al rimborso delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 10.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori di legge;
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dello stesso art. 13, art. 1 bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 14 gennaio 2022.
Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2022