Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25044 del 09/11/2020

Cassazione civile sez. lav., 09/11/2020, (ud. 04/03/2020, dep. 09/11/2020), n.25044

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25307-2016 proposto da:

R.P., P.S., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA LUDOVISI 35, presso lo studio dell’avvocato MARIO GIUSEPPE

RIDOLA, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato CLAUDIO

PERRUCCI;

– ricorrenti –

contro

M. ELETTROFORNITURE S.P.A., in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO

VISCONTI 61, presso lo studio dell’avvocato ARMANDO VENETO, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato CLARA VENETO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1061/2015 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 05/11/2015 n. 873/2011.

 

Fatto

RILEVATO

CHE:

Il defunto Sig. P.R., già amministratore della FEP R. s.p.a. (poi M. Elettroforniture s.p.a.) chiedeva ed otteneva dal Tribunale di Reggio Emilia provvedimento monitorio per il pagamento di Euro 213.777,4 nei confronti della società FEP per compensi maturati come amministratore della stessa (trattamento di fine mandato, TFM, e compensi relativi al primo trimestre 2008).

Il Tribunale, in sede di opposizione, riduceva l’importo ad Euro 87.166,66, compensando per 1/3 le spese di lite, ponendo il residuo a carico della società.

Avverso tale sentenza proponevano appello gli eredi del P., indicati in epigrafe; resisteva la M. Elettroforniture s.p.a., proponendo appello incidentale quanto alla statuizione sulle spese.

Con sentenza depositata il 5.11.15, la Corte d’appello di Bologna respingeva entrambi i gravami.

Per la cassazione di tale sentenza propongono ricorso gli eredi P., affidato a cinque motivi, cui resiste la società con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 437 c.p.c. per avere la Corte d’appello ritenuto inammissibili i documenti prodotti in secondo grado, benchè indispensabili ai fini del decidere.

Il motivo è infondato.

Il ragionamento della sentenza impugnata risulta infatti perfettamente in linea col divieto di cui all’art. 437 c.p.c., mentre il giudizio di indispensabilità della prova nuova in appello implica la valutazione sull’attitudine della stessa a dissipare un perdurante stato di incertezza sui fatti controversi riservata al giudice di merito, a cui non può sostituirsi la Corte di cassazione (Cass. 13 marzo 2009 n. 6188; Cass. 20 giugno 2006 n. 14133).

Quanto al mancato esercizio dei poteri ufficiosi, invocati dai ricorrenti, occorre osservare che essi, nell’ambito del contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della verità (Cass. 25 maggio 2010 n. 12717), non possono sopperire alle carenze probatorie delle parti, così da porre il giudice in funzione sostitutiva degli oneri delle parti medesime e da tradurre i poteri officiosi anzidetti – il cui esercizio è del tutto discrezionale e come tale sottratto al sindacato di legittimità – in poteri d’indagine e di acquisizione del tipo di quelli propri del procedimento penale (Cass. 22 luglio 2009 n. 17102; Cass. 21 maggio 2009 n. 11847).

Deve inoltre rilevarsi che l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio in grado d’appello presuppone la ricorrenza delle seguenti fondamentali circostanze: l’insussistenza di colpevole inerzia della parte interessata; l’opportunità di integrare un quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti (Cass. 2 febbraio 2009 n. 2577; Cass. 5 maggio 2007 n. 15228); l’indispensabilità dell’iniziativa, volta non a superare gli effetti inerenti ad una tardiva richiesta istruttoria o a supplire ad una carenza probatoria sui fatti costitutivi della domanda, ma solo a colmare eventuali lacune delle risultanze di causa (Cass. 10 gennaio 2006 n. 154; Cass. 1 settembre 2004 n. 17572, Cass. 1999 n. 14342). Deve in definitiva concludersi che l’esercizio dei poteri ufficiosi, è possibile e doveroso allorquando si sia in presenza di un quadro probatorio ritualmente proposto dalle, parti e che, nonostante il suo svolgimento, presenti incertezze circa i fatti costitutivi o impeditivi dei diritti azionati.

La sentenza impugnata si è attenuta a tali principi e quindi si sottrae alla censura mossale.

2.- Col secondo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 115,116,416,421 e 437 c.p.c.; art. 2967 c.c., laddove la Corte di appello aveva rigettato per mancanza di prova la domanda dei ricorrenti in ordine al pagamento del TFM per gli anni 2001-2003 sebbene la fonte dell’obbligazione dedotta in giudizio e la sua entità non fossero mai state oggetto di precisa ed efficace contestazione da parte della società resistente.

Anche tale motivo è infondato, posto che la delibera assembleare del 2001 posta a base della censura, non venne prodotta in primo grado, sicchè la controparte non aveva evidentemente alcun onere di contestarla.

3.- con il terzo motivo i ricorrenti censurano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1460,2381 e 2392 c.c. laddove la corte di merito non aveva accolto la domanda di condanna al pagamento dei compensi relativi a primi tre mesi del 2008.

Il motivo è infondato avendo la sentenza impugnata chiarito che, alla luce dell’istruttoria espletata, non era emersa alcuna prova di tali crediti (dichiarando peraltro esattamente inammissibili le prove costituende sul punto, richieste solo in grado di appello).

4.- con il quarto motivo i ricorrenti denunciano l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, per non avere la corte di Appello attribuito rilievo alla prova di un comportamento integrante adempimento dell’obbligazione gestoria nei confronti della società.

Il motivo è inammissibile, risultando per un verso domanda nuova (la sentenza impugnata nulla dicendo al riguardo, ed in difetto di specifica allegazione del come, dove e quando la questione sarebbe stata ritualmente sollevata in sede di gravame), e per altro verso deducendo i ricorrenti una erronea valutazione delle prove, inammissibile nel regime di cui al novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

5.- Col quinto motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362,1363,1366,1369,2364 e 2389 c.c., laddove la Corte di merito aveva rigettato la domanda di condanna di pagamento a carico della società delle somme dovute a titolo di trattamento di fine mandato per il periodo successivo al 2007.

Il motivo, è stato ritenuto infondato dalla Corte di merito per assenza di una specifica delibera assembleare sul punto, giusta la pacifica giurisprudenza di legittimità (Cass. sez. un. 21933/08, Cass. n. 20265/13).

Il ricorso deve essere pertanto rigettato.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 5.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 4 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2020

 

 

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