Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25038 del 28/11/2011

Cassazione civile sez. lav., 28/11/2011, (ud. 20/10/2011, dep. 28/11/2011), n.25038

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 28961-2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso

lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI, rappresentata e difesa

dall’Avvocato UBERTI ANDREA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ENNIO QUIRINO

VISCONTI 20, presso lo studio dell’avvocato ANTONINI MARIO,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIUGGIOLI GIULIANO, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 536/2007 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 15/05/2007 R.G.N. 1725/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

20/10/2011 dal Consigliere Dott. ANTONIO MANNA;

udito l’Avvocato FIORILLO LUIGI per delega UBERTI ANDREA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

FRESA Mario che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza 17.4 – 15.5.07 la Corte d’Appello di Torino rigettava il gravame interposto da Poste Italiane S.p.A. contro la sentenza del Tribunale di Novara che, dichiarata la nullità della clausola di apposizione del termine al contratto di lavoro stipulato con D. F. dal 1 febbraio al 30 aprile 2002, aveva affermato la vigenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, con condanna della società a riammettere in servizio il D. e a pagargli le retribuzioni maturate dalla data di ricezione della richiesta di convocazione per il tentativo obbligatorio di conciliazione sino all’effettivo ripristino del rapporto, detratto l’aliunde perceptum.

Per la cassazione della pronuncia della Corte territoriale ricorre Poste Italiane S.p.A. affidandosi a quattro motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

Resiste con controricorso il D..

Il Collegio ha deliberato la motivazione in forma semplificata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1- Con il primo motivo la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 nella parte in cui l’impugnata sentenza ha ritenuto insufficiente come specificazione per iscritto delle ragioni giustificatrici dell’apposizione del termine al contratto di lavoro la mera riproduzione dell’elenco di quelle consentite ai sensi dello stesso art. 1 cit., nonostante che tali esigenze fossero le stesse su tutto il territorio nazionale e in ogni ambito produttivo (quanto alla società Poste Italiane); lamenta, altresì, vizio di motivazione laddove la Corte territoriale ha trascurato che nel contratto di assunzione erano state richiamate anche esigenze consistenti nell’attuazione di specifici accordi sindacali aventi ad oggetto la compiuta disciplina del processo di allocazione delle risorse umane da assumere a tempo indeterminato e la condivisione della necessità di procedere anche ad assunzioni a termine.

Il motivo è infondato.

Questa S.C. ha già avuto modo di statuire – con orientamento che va qui ribadito – che il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 richiedendo l’indicazione da parte del datore di lavoro delle specifiche “ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”, ha inteso stabilire, coerentemente alla direttiva 1999/70/CE, come interpretata dalla Corte di Giustizia (cfr. sentenza 23.4.2000, in causa C-378/07 nonchè sentenza 22.11.2005, in causa C-144/04), un onere di specificazione a carico del datore di lavoro – e quindi di prova – delle ragioni oggettive del termine finale, vale a dire di indicazione sufficientemente dettagliata della causale nelle sue componenti identificative essenziali in ordine al contenuto e alla portata spazio temporale e, più in generale, circostanziale, perseguendo in tal modo la finalità di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto (cfr., ex aliis, Cass. 1.2.2010 n. 2279).

Quanto al vizio di motivazione, basti notare che:

a) si tratta non di fatto controverso, bensì di mero punto e, in quanto tale, non più oggetto della previsione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come novellato ex lege n. 40 del 2006;

b) in realtà l’impugnata sentenza non l’ha neppure tralasciato, dando espressamente atto – anzi – del richiamo, contenuto nel contratto di lavoro inter partes, all’asserita esigenza di dare attuazione ad accordi sindacali, ma ha solo ritenuto (con motivazione immune da vizi logico-giuridici, per altro neppure adeguatamente allegati in ricorso) la genericità di tale menzione, anche perchè accompagnata dall’omnicomprensivo rinvio a tutte le potenziali ragioni giustificatrici astrattamente idonee a supportare l’apposizione del termine, di guisa che non era chiaro a quale di esse le parti avessero voluto riferirsi.

2- Le considerazioni che precedono assorbono il secondo motivo di doglianza, con il quale la società ricorrente censura l’impugnata sentenza per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 e art. 2697 c.c. e vizio di motivazione per aver addossato al datore di lavoro l’onere di dimostrare la sussistenza delle ragioni giustificatrici dell’apposizione del termine, quantunque il D.Lgs. n. 368 del 2001 – a differenza della previgente L. n. 230 del 1962 – non stabilisse alcuna inversione dell’onere della prova a favore del lavoratore e nonostante che il contratto già contenesse il rinvio ai summenzionati accordi collettivi in cui veniva indicata e condivisa la necessità di procedere ad assunzioni a termine.

3- Con il terzo motivo la società ricorrente si duole di vizio di motivazione nonchè di violazione e falsa applicazione dell’art. 12 preleggi, art. 1419 c.c., D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 e art. 115 c.p.c. nella parte in cui la Corte territoriale, dichiarata la nullità dell’apposizione del termine, ha convertito il contratto inter partes in uno a tempo indeterminato, nonostante il carattere eccezionale – e, quindi, insuscettibile di estensione analogica – delle ipotesi di conversione previste dal D.Lgs. n. 368 del 2001, artt. 4 e 5.

Il motivo è infondato.

Questa S.C. ha già statuito – con orientamento che merita di essere confermato – che il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 anche anteriormente alla modifica introdotta dalla L. n. 247 del 2007, art. 39 ha confermato il principio generale secondo cui il rapporto di lavoro subordinato è normalmente a tempo indeterminato, costituendo il termine un’ipotesi derogatoria pur nel sistema, del tutto nuovo, della previsione di una clausola generale legittimante il contratto a tempo determinato “per ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo”.

Pertanto, in caso di insussistenza delle ragioni giustificative del termine e pur in assenza di una norma che ne sanzioni espressamente la mancanza, in base ai principi generali in materia di nullità parziale del contratto e di eterointegrazione della disciplina contrattuale (v. art. 1339 c.c.), nonchè alla stregua dell’interpretazione dello stesso art. 1 citato nel quadro delineato dalla direttiva comunitaria 1999/70/CE (recepita con il richiamato decreto) e nel sistema generale dei profili sanzionatoli nel rapporto di lavoro subordinato, tracciato dalla Corte cost. n. 210 del 1992 e n. 283 del 2005, all’illegittimità del termine e alla nullità della clausola di sua apposizione consegue l’invalidità parziale della sola clausola e l’instaurarsi di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato (cfr. Cass. 21.5.2008 n. 12985, e numerose altre successive, tra cui Cass. 14.2.2011 n. 3614 e Cass. 18.2.2011 n. 4057).

Infine, in ordine al preteso vizio di motivazione, si noti che anche a tale proposito si è di fronte – in realtà – ad una censura inerente alla motivazione in punto di diritto (in quanto tale non suscettibile di essere avanzata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).

4- Con il quarto motivo la società ricorrente deduce vizio di motivazione e violazione o falsa applicazione degli artt. 1372, 1362 e 2697 c.c. e art. 115 c.p.c. nella parte in cui non ha ravvisato il mutuo consenso a non riattivare il rapporto di lavoro in fatti incompatibili con la volontà di mantenerlo in vita, come la prolungata inerzia del lavoratore dopo la scadenza del termine, la percezione da parte sua – senza riserva – del TFR, nonchè il reperimento di nuova stabile occupazione.

Il motivo è infondato.

La più recente giurisprudenza di questa S.C. – cui va data continuità – è ormai consolidata nello statuire che “Nel rapporto di lavoro a tempo determinato, la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per se insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinchè possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle partì e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo dovendosi, peraltro, considerare che l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con norme imperative ex art. 1418 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2 di natura imprescrittibile pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione “ex lege” del rapporto a tempo determinato cui era stato apposto illegittimamente il termine. (Nella specie, relativa ad una pluralità di contratti a tempo determinato conclusi tra un aiuto arredatore e la RAI S.p.a., la S.C., in applicazione dell’anzidetto principio ha ritenuto che correttamente la Corte di merito avesse dichiarato la nullità del termine apposto, restando priva di rilievo la mera inerzia tenuta dal lavoratore per oltre un anno e mezzo, dalla scadenza del termine dell’ultimo dei cinque contratti intervenuti).” (Cass. 15.11.2010 n. 23057; conf. Cass. 1.2.2010 n. 2279).

Ancora più di recente, Cass. n. 9583/2011 ha ribadito che “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo”.

In senso conforme si vedano, altresì, Cass. 10.11.2008 n. 26935;

Cass. 28.9.2007 n. 20390; Cass. 17.12.2004 n. 23554; Cass. 11.12.2001 n. 15621 ed innumerevoli altre.

Aggiunge, ancora la cit. sentenza n. 9583/2011 che “grava sul datore di lavoro, che eccepisca la risoluzione per mutuo consenso l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine ad ogni rapporto di lavoro” (v. ancora, in senso conforme, Cass. 2.12.2002 n. 17070).

Ebbene, tutte le sentenze citate hanno, nel caso concreto sottoposto all’esame della S.C., ritenuto giuridicamente corretta (oltre che immune da vizi logici) l’affermazione dei giudici di merito secondo cui la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto, anche se protratta per due o tre armi o più, non fosse sufficiente, in mancanza di ulteriori elementi di valutazione, a far ritenere la sussistenza dei presupposti della risoluzione del rapporto per tacito mutuo consenso.

Aggiunge icasticamente Cass. n. 23501/2010, cit.: “D’altra parte, come è noto, l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con nome imperative ex art. 1418 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2. Essa, pertanto, ai sensi dell’art. 1422 c.c., è imprescrittibile, pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ex lege per illegittimità del termine apposto. Ne consegue che il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto e la proposizione di siffatta azione giudiziale non può, di per sè solo, costituire elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà delle parti di risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in un ottica che svaluti il ruolo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass., 15/12/97 n. 12665; Cass., 25/3/93 n. 824). Comunque, consentendo l’ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di tempo predeterminati, o l’azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per sè, anche un effetto di contenuto opposto, cioè l’estinzione del diritto ovvero una presunzione in tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per vanificare il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità e/o la disciplina della prescrizione, la cui maturazione verrebbe contra legem anticipata secondo contingenti e discrezionali apprezzamenti. Per tali ragioni appare necessario, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l’esercizio del diritto o dell’azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare “una volontà chiara e certa delle parti di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. anche Cass., 2/12/2000 n. 15403; Cass., 20/4/98 n. 4003). E’, inoltre, onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. Cass. sez. lav. n. 2279 dell’1/2/2010, n. 16303 del 12/7/2010, n. 15624 del 6/7/2007)” (v., altresì, Cass. n. 23499/2010 cit. ed altre ancora).

Riepilogando, per aversi tacito mutuo consenso inteso a risolvere o comunque a non proseguire il rapporto di lavoro non basta il mero decorso del tempo fra la scadenza del termine illegittimamente apposto e la relativa impugnazione giudiziale (nel caso di specie il ricorso introduttivo del giudizio è stato notificato il 15.3.06), ma è necessario il concorso di ulteriori e significative circostanze tali da far desumere in maniera chiara e certa la comune volontà delle parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, circostanze della cui allegazione e prova è gravato il datore di lavoro (ovvero la parte che eccepisce un tacito mutuo consenso).

Ad avviso della società ricorrente tali ulteriori e significative circostanze consisterebbero nell’aver il D. percepito senza riserve il TFR e nell’aver trovato altra occupazione nelle more, ma non chiarisce in quale atto difensivo o verbale d’udienza esse sarebbero state allegate, il che rende non autosufficiente il ricorso sul punto.

5- In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00) otre rimborso spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 28 novembre 2011

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