Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25036 del 09/11/2020

Cassazione civile sez. lav., 09/11/2020, (ud. 06/11/2019, dep. 09/11/2020), n.25036

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27976-2015 proposto da:

W.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PAOLO EMILIO 7,

presso lo studio dell’avvocato EMANUELE SPATA, che lo rappresenta e

difende;

– ricorrente –

contro

CML S.R.L., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA

DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dall’avvocato FABIO PETRACCI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 108/2015 della CORTE D’APPELLO di TRIESTE,

depositata il 21/05/2015 R.G.N. 194/2013.

 

Fatto

RILEVATO

che, con sentenza depositata il 21.5.2015, la Corte di Appello di Trieste, accogliendo il gravame interposto dalla CML S.r.l., nei confronti di W.F., avverso la pronunzia n. 8/2013, resa in data 10.1.2013 dal Tribunale di Pordenone, ha respinto tutte le domande proposte dal W. con il ricorso introduttivo del giudizio, diretto ad ottenere la dichiarazione di nullità del termine apposto al contratto stipulato inter partes, ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 relativamente al periodo 6.2.2006-5.6.2006, successivamente prorogato sino al 5.10.2006, nonchè la prosecuzione giuridica del rapporto ed il diritto al risarcimento del danno, pari alle retribuzioni medio tempore maturate, oltre accessori, come per legge;

che la Corte distrettuale, per quanto ancora di rilievo in questa sede, premesso che la società appellante “deduce che il Tribunale non ha valutato il comportamento complessivo del ricorrente e non ha ammesso le istanze istruttorie da essa proposte allo scopo di dimostrare la comune intenzione delle parti di risolvere il rapporto o comunque la volontà del lavoratore di rinunciare ai suoi pretesi diritti”, ha rilevato che “l’eccezione di rinuncia o scioglimento del contratto per mutuo consenso ex art. 1372 c.c. è da sola idonea e sufficiente a risolvere la controversia, riguardando un fatto estintivo della pretesa azionata in giudizio, ed avendo, quindi, natura preliminare, va esaminata per prima”; ed ha sottolineato che “escludendo che la mera inerzia del lavoratore possa essere interpretata, da sola, come fatto estintivo del rapporto, assumendo rilievo solo quando sia accompagnata da altri elementi indiziari, tratti dalle modalità con cui il rapporto si è di fatto concluso, dal comportamento successivo delle parti e da altre eventuali circostanze significative (come ha più volte affermato la giurisprudenza di legittimità….), si deve osservare che – stando ai documenti acquisiti a seguito dell’ordine di esibizione emesso da questa Corte (anche in accoglimento delle istanze istruttorie, tempestive ed ammissibili, proposte da CML già in primo grado) e cioè, in particolare, l’estratto conto contributivo e il certificato del Centro per l’Impiego di Pordenone – il W., dopo la cessazione del rapporto di lavoro oggetto di controversia, è stato assunto dalla s.r.l. Casabate di (OMISSIS) prima a tempo determinato (dal 16.10 al 15.12.2006) e poi, dal 9.1.2007, a tempo indeterminato, lavorando alle dipendenze di questa ditta fino al 6.10.2008 (quando venne presumibilmente licenziato per giustificato motivo oggettivo, come si ricava dal fatto che a partire da quel momento è stato iscritto nelle liste di mobilità ai sensi della L. n. 236 del 1994, art. 4), senza mai rivolgersi a CML, per tutto questo periodo, per contestare la validità del termine apposto al pregresso rapporto di lavoro e per chiedere di essere riammesso in servizio”;

che per la cassazione della sentenza propone ricorso W.F., articolando un motivo;

che la CML S.r.l. resiste con controricorso;

che il P.G. non ha formulato richieste.

Diritto

CONSIDERATO

che, con il ricorso, si censura, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 1321 e 1372 c.c., “per insussistenza dei presupposti per la configurazione di un accordo risolutorio tra le parti per fatti concludenti”, per avere la Corte territoriale “erroneamente ritenuto che il rapporto fosse da ritenere risolto per mutuo consenso, in base alla semplice circostanza che, dopo la scadenza del termine, il ricorrente ha prestato lavoro subordinato dapprima a tempo determinato (dal 16.10.2006) e successivamente a tempo indeterminato (dal 9.1.2007 fino al 6.10.2008) presso un altro datore di lavoro”;

che il motivo non è fondato, avendo i giudici di secondo grado fatto corretta applicazione dei principi che questa Suprema Corte ha indicato relativamente alla risoluzione del contratto per “mutuo consenso” (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 4224/2019; 23586/2018; 20605/2014; 11262/2013; 5887/2011; 23319/2010; 26935/2008; 20390/2007; 23554/2004), del tutto condivisi da questo Collegio, che non ravvisa ragioni per discostarsene; ed infatti, nella sentenza impugnata (v., in particolare, pagg. 4 e 5), si premette che, come in più occasioni, precisato in sede di legittimità, “affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalle parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle stesse parti di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo. La mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine, quindi, è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, mentre grava sul datore di lavoro, che eccepisca tale risoluzione, l’onere di provare le circostanze dalle quali possa ricavarsi la volontà chiara e certa delle parti di volere porre fine ad ogni rapporto di lavoro”;

che, sulla scorta di tali premesse, e con una motivazione del tutto condivisibile e coerente, fondata sugli elementi delibatori addotti dalle parti, ed esaminate le questioni di diritto devolute in sede di gravame, la Corte di Appello ha correttamente reputato, in via preliminare, fondata l’eccezione sollevata dalla parte datoriale relativamente alla risoluzione del contratto per mutuo consenso (v. pag. 4 della sentenza impugnata);

che, a tale ultimo riguardo, va, infatti, osservato, alla stregua degli arresti giurisprudenziali di legittimità, che “La risoluzione consensuale del contratto non costituisce oggetto di eccezione in senso proprio, essendo lo scioglimento per mutuo consenso un fatto oggettivamente estintivo dei diritti nascenti dal negozio bilaterale, desumibile dalla volontà in tal senso manifestata, anche tacitamente, dalle parti, che può essere accertato d’ufficio dal giudice, pure in sede di legittimità, ove non vi sia necessità di effettuare indagini di fatto…., e la deduzione, da parte del datore di lavoro, convenuto per l’accertamento della conversione del rapporto a tempo indeterminato per l’illegittima apposizione del termine, che il rapporto si è risolto per mutuo consenso, non integra una domanda riconvenzionale, in quanto non finalizzata ad ottenere un provvedimento positivo, sfavorevole al lavoratore, ma, semplicemente, il rigetto della domanda di quest’ultimo” (cfr., tra le altre, Cass. nn. 23586/2018, cit.; 16339/2015; 10201/2012; 12075/2007; 24802/2006);

che la Corte territoriale, con una motivazione del tutto condivisibile – basata, appunto, sul computo degli anni trascorsi tra la conclusione del contratto (5.10.2006) ed il deposito del ricorso introduttivo del giudizio (28.10.2010), nonchè, in particolare, sull’analisi dei comportamenti tenuti, medio tempore, dal W. (v., in particolare, pagg. 5 e 6 della sentenza impugnata), esplicitati in narrativa -, nonchè scevra da vizi logico-giuridici, ha reputato che la condotta tenuta dal lavoratore fosse incompatibile, sotto il profilo obiettivo, con la ripresa della funzionalità del rapporto di lavoro di cui si tratta, poichè la stessa non configura “una mera inerzia, ma un comportamento positivo: a fronte dell’alternativa fra rivolgersi alla CML per ottenere il ripristino del pregresso rapporto di lavoro, e andare a lavorare (a tempo indeterminato) per un altro soggetto, egli ha infatti scelto – senza riserve ed incertezze – la seconda opzione. Si deve pertanto ritenere – in mancanza di altre possibili spiegazioni – che il W. abbia atteso un lungo tempo prima di far valere i suoi pretesi diritti conseguenti alla nullità del termine non a causa di qualche (ignoto) impedimento indipendente dalla sua volontà, ma perchè, avendo trovato un altro lavoro stabile, non aveva più alcun interesse concreto ed attuale per quello alle dipendenze di CML; e ciò è confermato dal fatto che l’inerzia del W. è proseguita per due anni anche dopo che il nuovo rapporto di lavoro (a tempo indeterminato) si era a sua volta interrotto, ed anche dopo il 14.6.2009, quando è terminato il periodo coperto dall’indennità di disoccupazione” (v. pag. 6 della sentenza impugnata);

che tale accertamento, in quanto congruamente motivato dai giudici di seconda istanza, non può essere sindacato in questa sede, poichè, in tema di contratti a tempo determinato, l’accertamento della sussistenza di una concorde volontà delle parti diretta allo scioglimento del vincolo contrattuale costituisce apprezzamento di fatto che, se immune da vizi logico-giuridici ed adeguatamente motivato, si sottrae al sindacato di legittimità (cfr., ex multis, Cass. n. 29781/2017);

che, per tutte le considerazioni innanzi svolte, il ricorso va respinto, non risultando il motivo articolato idoneo a scalfire le puntuali argomentazioni della Corte di merito;

che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, secondo quanto precisato in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 6 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2020

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