Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25027 del 09/11/2020

Cassazione civile sez. I, 09/11/2020, (ud. 28/09/2020, dep. 09/11/2020), n.25027

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Presidente –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17908/2019 proposto da:

A.O., elettivamente domiciliata in Civitanova Marche, Via

Fermi 3, presso lo studio dell’avv. Giuseppe Lufrano, che lo

rappresenta e difende per procura in allegato al ricorso per

cassazione;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2842/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA,

depositata il 4.12.2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

28/09/2020 dal Dott. Roberto Bellè.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

la Corte d’Appello di Ancona ha rigettato l’appello proposto da A.O. avverso l’ordinanza del Tribunale della stessa città che aveva disatteso la sua domanda di protezione internazionale;

A.O. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi;

il Ministero dell’Interno è rimasto intimato.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

il primo motivo, dedotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, denuncia la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, criticando la sentenza impugnata per non avere considerato la situazione della Libia, paese di transito, anche alla luce della durata della permanenza in esso;

la ricorrente, secondo la narrativa contenuta nel ricorso per cassazione e nella sentenza impugnata, ha esposto di avere vissuto in Nigeria, suo paese di origine, una grave vicenda familiare (la matrigna avrebbe ucciso uno dei suoi fratelli) e di essersi trasferita dapprima a Lagos e poi, dopo oltre due anni, in Ghana, perchè richiesta per la sua bravura nel lavoro;

successivamente, assieme ad un compagno ghanese, aveva raggiunto la Libia, ove era rimasta per oltre due anni, trasferendosi infine, a causa del fatto che essi non venivano pagati per le rispettive attività lavorative ed il fidanzato era stato anche derubato, in Italia;

la Corte territoriale ha esaminato la domanda con riferimento alla situazione della Nigeria ed anche il richiamo all'”ultimo trasferimento” che è contenuto nella motivazione va riferito all’ultimo trasferimento che comportò l’uscita della ricorrente dal suo paese;

infatti, la Corte di merito, nell’argomentare, afferma che anche rispetto a tale trasferimento non vi era prova del rischio di sottoposizione a violenze indiscriminate o rischi effettivi “in ipotesi di suo rientro in Patria”, ove per Patria non può evidentemente intendersi che il paese di origine;

è ovvio che la situazione di paesi diversi da quello di origine o di stabilimento vada considerata anche officiosamente, nel caso (dir. UE n. 115 del 2008, art. 3) di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale paese (Cass. 6 dicembre 2018, n. 31676), in quanto le valutazioni sulla protezione non possono non riguardare il paese ove lo straniero debba essere avviato, perchè è in quello che in tal modo i suoi diritti umani potrebbero essere pregiudicati;

è parimenti ovvio, perchè insito nella necessità di valutare in modo completo la condizione personale dell’interessato, che abbiano rilievo le violenze subite nei paesi di transito, ove tali da comportare il sorgere di una vulnerabilità soggettiva (Cass. 2 luglio 2020 n. 13565; Cass. 15 maggio 2019 n. 13096) secondo la disciplina della protezione c.d. umanitaria previgente al D.L. n. 113 del 2018 conv., con modif., in L. n. 132 del 2018;

così come è evidente la necessità di fare riferimento ad altro paese, ove la domanda di protezione sia dispiegata, sul presupposto di uno stabile radicamento in una nazione diversa da quella di origine (Cass. 3 luglio 2020, n. 13758);

in tali sensi va inteso il disposto del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ove esso afferma la domanda di protezione va esaminata “ove occorra” alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nei Paesi in cui lo straniero è transitato;

la norma non legittima invece la pretesa ad una disamina officiosa di una qualunque risultanza processuale da cui occasionalmente emerga il transito in un dato paese terzo, in ipotesi come la Libia caratterizzato da situazioni endemiche di instabilità e violenza, al fine di ottenere il trattenimento in Italia;

va infatti ribadito l’ormai consolidato principio per cui “nella domanda di protezione internazionale, l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione” (Cass. 6 febbraio 2018, n. 2861, cui hanno poi fatto seguito, tra le molte, Cass. 20 novembre 2018, n. 29875; Cass. 13096/2019 cit. e Cass. 13565/2020 cit.);

nel caso di specie, come detto, la Corte territoriale ha incentrato la decisione sulle condizioni del paese di origine della ricorrente e dunque, poichè quanto accaduto in Libia non è stato considerato come fatto costitutivo posto dalla ricorrente a fondamento della domanda dispiegata, essa, nel proporre ricorso per cassazione avrebbe dovuto dimostrare, riportando gli opportuni passaggi dei corrispondenti atti, che viceversa la pretesa era stata impostata e poi coltivata in appello (secondo una regola sottesa a consolidati precedenti tra cui ad es. a Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430; Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675 e altre pronunce conformi) con riferimento alla Libia come paese di stabile radicamento e rispetto al quale si doveva parametrare la valutazione sulla protezione richiesta, perchè era in Libia che lo straniero prospettava altresì di dover tornare, non avendo alcun senso valutare le condizioni di un paese di transito, se non nelle situazioni sopra evidenziate e qui non ricorrenti, allorquando il rientro temuto debba riguardare altra nazione;

di ciò non vi è traccia nel ricorso per cassazione, non essendo di certo a tal fine sufficiente, al fine di giustificare un assetto della pretesa giudiziale diverso da quello inteso dalla Corte territoriale, la trascrizione per stralcio delle dichiarazioni rese presso la Commissione nella parte relativa al transito in Libia;

con il secondo motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), sotto il profilo dell’illegittimo diniego della protezione sussidiaria, per avere la Corte ingiustamente negato l’esistenza di una situazione di violenza indiscriminata nel paese di provenienza;

il motivo è inammissibile;

la sentenza ha fatto leva sull’ultimo rapporto annuale di Amnesty International, per sottolineare come profili di violenza e di reazioni talora arbitrarie dell’esercito si siano collocate in zone diverse da quelle di origine del ricorrente;

è poi vero che “in tema di protezione sussidiaria dello straniero, ai fini dell’accertamento della fondatezza di una domanda proposta sulla base del pericolo di danno di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), (violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato determinativa di minaccia grave alla vita o alla persona), una volta che il richiedente abbia allegato i fatti costitutivi del diritto, il giudice del merito è tenuto, ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, a cooperare nell’accertare la situazione reale del paese di provenienza mediante l’esercizio di poteri-doveri officiosi d’indagine e di acquisizione documentale in modo che ciascuna domanda venga esaminata alla luce di informazioni aggiornate sul Paese di origine del richiedente” e che “al fine di ritenere adempiuto tale onere, il giudice è tenuto ad indicare specificatamente le fonti in base alle quali abbia svolto l’accertamento richiesto” (Cass. 26 aprile 2019, n. 11312);

tuttavia, chi intenda denunciare, in sede di legittimità, la violazione da parte del giudice di merito dei propri doveri istruttori, sotto il profilo del mancato esercizio dei poteri di indagine o di incompleta indicazione delle fonti ha sempre l’onere di allegare, per consentire a questa Corte di valutare la decisività della censura, che esistono COI aggiornate e dimostrative dell’esistenza, nella regione di sua provenienza, di una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato; di indicarle; di riassumerne o trascriverne il contenuto, nei limiti strettamente necessari al fine di evidenziare che, se il giudice di merito ne avesse tenuto conto, l’esito della lite sarebbe stato diverso;

il motivo, per quanto attinente ad una violazione di legge, riguarda infatti pur sempre l’omesso esercizio di poteri istruttori, la cui censura non può consistere nella mera allegazione della mancata ricerca di una prova purchessia e va viceversa sorretto da un ragionamento, eventualmente anche desumibile ex se dal contenuto delle COI, che dimostri l’indispensabilità degli elementi così addotti;

in altre parole, la necessaria concludenza del vizio denunciato, comporta il convergere della censura in un requisito di indispensabilità del mezzo, la cui ricorrenza è già stata individuata da questa Corte, seppure in altri ambiti, allorquando esso sia idoneo ad eliminare ogni possibile incertezza od a provare quel che sia rimasto indimostrato (Cass., S.U., 4 maggio 2017, n. 10790; v. anche, in tema di mancato esercizio dei poteri istruttori officiosi da parte del giudice del lavoro, Cass. 10 settembre 2019, n. 22628; fino a Cass. 16 maggio 2002, n. 7119);

tali connotazioni mancano nel caso di specie, in quanto, per un verso, si richiama un rapporto COI che riferirebbe di una (generica) attività di un gruppo terroristico, senza trascriverne il contenuto e senza argomentarne la pertinenza anche geografica rispetto al caso di specie, mentre, nella parte in cui il Report è indicato (Easo Coi, novembre 2018) esso fa riferimento soltanto al fatto, evidentemente non decisivo nell’attestare una situazione di violenza indiscriminata, che la polizia sia prevalentemente preposta alla tutela di persone di spicco e non della popolazione nel suo complesso;

con il terzo motivo il ricorrente afferma la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in tema di protezione umanitaria, sostenendo che nella sentenza non si reperirebbe alcuna argomentazione circa le ragioni a base del rigetto della domanda e sottolineando come la vulnerabilità possa dipendere da situazioni geo-politiche o politico-economiche che la Corte era tenuta ad accertare, anche attraverso indagini officiose, onde non esporre i cittadini stranieri al rischio di condizioni di vita non rispettose dei diritti umani, sottolineando il fato di essere madre di una bambina di soli due anni;

il motivo è anch’esso inammissibile;

la Corte territoriale ha affermato che nello specifico non sussistevano particolari motivi di carattere soggettivo ovvero di situazioni di vulnerabilità;

a fronte di ciò quanto affermato nelle difese della ricorrente è del tutto generico, esponendo situazioni solo astrattamente possibili;

per quanto infine riguarda il fatto che la ricorrente è madre di una bambina di due anni, accennato in chiusura, il motivo non precisa se e come la circostanza fosse stata dedotta, in modo tale da poterla porre a base di un vizio in iudicando della sentenza impugnata, senza altresì che si spieghi perchè, in assenza delle altre condizioni di pericolo, il fatto solo della presenza di una bambina, come sicuramente ve ne sono nel paese di provenienza, sia ragione di una vulnerabilità individuale;

nulla sulle spese, in quanto il Ministero è rimasto intimato.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 28 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2020

 

 

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