Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25019 del 06/12/2016


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Cassazione civile sez. VI, 06/12/2016, (ud. 20/10/2016, dep. 06/12/2016), n.25019

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6072/2015 proposto da:

B.F.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

POSTUMA 1, presso lo studio dell’avvocato NICOLA GIANCASPRO,

rappresentato e difeso dall’avvocato ROBERTO CANDIO giusta procura a

margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

REGIONE AUTONOMA DELLA SARDEGNA, in persona del Presidente,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUCULLO, 24 presso l’UFFICIO

DI RAPPRESENTANZA della Regione Sardegna, rappresentata e difesa

dagli avvocati ALESSANDRA CAMBA, SANDRA TRINCAS giusta procura a

margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 278/2014 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI del

2/07/2014, depositata il 25/08/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

20/10/2016 dal Consigliere Relatore Dott. ROSA ARIENZO.

Fatto

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO

Con sentenza del 25.8.2014, la Corte di appello di Cagliari rigettava il gravame proposto da B.F.M. avverso la decisione di primo grado che aveva respinto la domanda proposta dal predetto intesa ad ottenere la condanna della Regione al risarcimento del danno patrimoniale, professionale, morale, biologico ed esistenziale per l’emarginazione subita allorchè era stato costretto ad uno stato di inattività quando era subentrato altro direttore del Centro regionale di programmazione, che l’aveva indotto a risolvere il rapporto con dimissioni e ad andare in pensione ben prima di avere raggiunto l’età massima di permanenza in servizio, perdendo, oltre le retribuzioni, notevoli possibilità di avanzamento in carriera.

La Corte riteneva che il ricorrente non avesse provato il suo assunto in fatto ed escludeva che le dimissioni fossero riconducibili ad una presunta marginalizzazione, non potendo ritenersi, in base alla mancanza di allegazione e prova sullo stesso incombente, che gli incarichi ricoperti dal predetto nell’ambito di vari gruppi di lavoro fossero stati solo formali, così come assunto a fondamento della domanda.

Per la cassazione di tale decisione ricorre il B., affidando l’impugnazione ad unico motivo, cui resiste, con controricorso, la Regione.

Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della relazione redatta ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio. Il ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 2.

Viene denunziata violazione, falsa ed erronea applicazione dell’art. 2103 c.c., D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 comma 1, art. 2729 c.c., art. 115 c.p.c., e art. 1218 c.c., oltre che dei principi in materia di prove, presunzioni e riparto dell’onere della prova in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè omesso esame circa una fatto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, osservandosi che erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto che l’onere in capo al lavoratore dell’avvenuto demansionamento sia stato adempiuto in modo incerto e quello in capo al datore (inadempimento a se non imputabile) non sia stato superato nè smentito da alcuna contestazione di controparte.

Si rileva che la vicenda fattuale che aveva caratterizzato la vita lavorativa di esso istante era quella di uno svuotamento della mansioni, nonostante atti formali di adibizione a mansioni determinate e che pertanto l’amministrazione avrebbe dovuto provare che l’inserimento in gruppi di lavoro non fosse stato meramente formale.

Anche le dimissioni non potevano ritenersi equivoche quanto alla volontà espressa con le stesse dal lavoratore, che aveva motivato la scelta con l’ingiusta situazione di inattività cui era stato costretto sin dal 2004.

Il ricorso è infondato.

La sentenza impugnata ha affermato in linea generale che il lavoratore non è, tenuto a dimostrare la colpa del datore di lavoro, incombendo a quest’ultimo di fornire la prova che l’inadempimento del suo obbligo di mettere il dipendente in condizioni di svolgere un’attività coerente con la sua qualifica è dipeso da impossibilità oggettiva a sè non imputabile secondo il principio generale di cui all’art. 1218 c.c., precisando che tuttavia il lavoratore ha l’onere di allegare e dimostrare l’esistenza del fatto materiale e la violazione di norme specifiche o delle regole generali di correttezza e buona fede.

Lo stesso giudice del gravame ha, poi, richiamato pertinente pronuncia di legittimità secondo cui la violazione del diritto del lavoratore all’esecuzione della propria prestazione (adibizione a compiti coerenti con la sua qualifica e dovere di garantire che lo stesso non rimanga in stato di inattività) è fonte di responsabilità risarcitoria per il datore di lavoro; responsabilità che, peraltro, derivando dall’inadempimento di un’obbligazione, resta pienamente soggetta alle regole generali in materia di responsabilità contrattuale: sicchè, se essa prescinde da uno specifico intento di declassare o svilire il lavoratore a mezzo della privazione dei suoi compiti, la responsabilità stessa deve essere nondimeno esclusa – oltre che nei casi in cui possa ravvisarsi una causa giustificativa del comportamento del datore di lavoro connessa all’esercizio di poteri imprenditoriali, garantiti dall’art. 41 Cost., ovvero di poteri disciplinari – anche quando l’inadempimento della prestazione derivi comunque da causa non imputabile all’obbligato, fermo restando che, ai sensi dell’art. 1218 c.c., l’onere della prova della sussistenza delle ipotesi ora indicate grava sul datore di lavoro, in quanto avente, per questo verso, la veste di debitore (cfr. Cass. 2 agosto 2006 n. 17364).

Con riferimento alla vicenda oggetto di causa è stato evidenziato come, a fronte della produzione da parte della Regione di documentazione dalla quale era dato evincere il coinvolgimento del B. in sei gruppi di lavoro, oltre che la chiamata dello stesso a collaborare alla relazione sul monitoraggio del POR Sardegna ed a redigere i Piani Integrati d’area, nulla ha allegato il dipendente sulla natura meramente formale degli incarichi o sulla non corrispondenza degli stessi alla sua qualificazione, neanche precisata, secondo quanto verificato dalla stessa Corte del merito.

Quanto all’onere probatorio dell’esatto adempimento della propria obbligazione, a carico del datore di lavoro, ove il lavoratore deduca un demansionamento, questa Corte, con la sentenza n. 4766 del 6/3/2006 ha affermato principi del tutto corrispondenti a quelli posti a fondamento della sentenza impugnata (v., anche Cass. lav. n. 15527 8/7/2014, secondo cui in materia di demansionamento o di dequalificazione, il lavoratore è tenuto a prospettare le circostanze di fatto, volte a dare fondamento alla denuncia, ed ha, quindi, il solo onere di allegare gli elementi di fatto significativi dell’illegittimo esercizio del potere datoriale, ma non anche quelli idonei a dimostrare in modo autosufficiente la fondatezza delle pretese azionate, mentre il datore di lavoro è tenuto a prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti posti dal lavoratore a fondamento della domanda e può allegarne altri, indicativi, del legittimo esercizio del potere direttivo, fermo restando che spetta al giudice valutare se le mansioni assegnate siano dequalificanti, potendo egli presumere, nell’esercizio dei poteri, anche officiosi, a lui attribuiti, la fondatezza del diritto fatto valere anche da fatti non specificamente contestati dall’interessato, nonchè da elementi altrimenti acquisiti o acquisibili al processo). Da ultimo è stato ribadito che “quando il lavoratore allega un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento dell’obbligo gravante sul datore di lavoro ai sensi dell’art. 2103 c.c., è su quest’ultimo che incombe l’onere di provare l’esatto adempimento del suo obbligo, o attraverso la prova della mancanza in concreto del demansionamento, ovvero attraverso la prova che fosse giustificato dal legittimo esercizio dei poteri imprenditoriali o disciplinari oppure, in base all’art. 1218 c.c., a causa di un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile” (cfr. Cass. 3.3.2016 n. 4211).

La pronunzia della Corte di appello di Cagliari si pone in continuità con i principi richiamati, e fonda la propria valutazione sulla corretta applicazione delle regole del riparto della prova enunciate dalla giurisprudenza di legittimità, laddove ha rilevato come, a fronte della pacificità del dato fattuale che il B. faceva parte di sei dei “gruppi di lavoro” in cui era suddivisa l’attività del centro regionale di Programmazione, e che lo stesso era stato chiamato, al pari di altri colleghi, a collaborare alla relazione sul monitoraggio del POR Sardegna ed a redigere i piani integrati d’area, come evincibile dalla documentazione prodotta dalla Regione, non era stato dal predetto allegato e provato che tali incarichi fossero stati meramente formali o non corrispondenti alla sua qualificazione professionale.

Con valutazione di merito, insindacabile in questa sede, è stato evidenziato come la tesi dell’assegnazione ai gruppi di lavoro in senso solo formale non abbia trovato riscontro nelle difese del ricorrente che in modo del tutto generico e non circostanziato aveva dedotto la mera apparenza di tale assegnazione, richiamando mail di critica all’operato del datore di lavoro e contestazioni all’operato del datore per la mancanza di atti formali di conferimento dei relativi incarichi antecedenti all’emanazione dell’ordine di servizio del 4.5.2005, con il quale era stato dato corso a tale adempimento.

Nè può sostenersi che il giudice del gravame abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge, emergendo dal descritto iter che lo stesso abbia fatto uso ragionevole del potere discrezionale attribuito dall’art. 115 c.p.c., essendo, al contrario, di tutta evidenza che, tanto con riguardo alla deduzione delle suindicate violazioni di legge, quanto con riguardo al preteso malgoverno delle risultanze istruttorie, pur sotto un’intitolazione evocativa dei casi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, parte ricorrente non ha formulato altro che pure questioni di merito, il cui esame è per definizione escluso in questa sede di legittimità.

Infine, deve escludersi che la critica rivolta alla decisione sia aderente alla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, atteso che il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma della indicata norma processuale, che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio, nè essendo lo stesso sussumibile in quello del precedente n. 4 della stessa norma, che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (cfr. Cass. 10.6.2016, Cass. 20.11.2015 n. 23828, Cass. 8.10.2014 n. 21257, sulla scia di Cass., s. u. 7.4.2014, n. 8053).

Alla luce delle esposte considerazioni deve pervenirsi al rigetto del ricorso.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza del ricorrente e si liquidano come da dispositivo.

Attesa la proposizione del ricorso in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, vigente il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, deve rilevarsi, in ragione del rigetto dell’impugnazione, la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato previsto dall’indicata normativa (cfr. Cass. Sez. Un. n. 22035/2014).

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente regolamento, liquidate in Euro 100,00 per esborsi, Euro 3500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonchè al rimborso delle spese generali in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis, del citato D.P.R..

Così deciso in Roma, il 20 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2016

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