Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25013 del 07/10/2019

Cassazione civile sez. VI, 07/10/2019, (ud. 17/04/2019, dep. 07/10/2019), n.25013

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 4787-2018 R.G. proposto da:

METALCOMO di M.L. E E. E C. s.a.s., in persona del legale

rappresentante pro tempore, M.L., rappresentata e difesa,

per procura speciale a margine del ricorso, dagli avv.ti Luigi

FERRRAJOLI e Giuseppe FISCHIONI, ed elettivamente domiciliata in

Roma, alla via della Giuliana n. 32, presso lo studio legale del

predetto ultimo difensore;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO

STATO, presso la quale è domiciliata in Roma, alla via dei

Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4486/23/2017 della Commissione tributaria

regionale della LOMBARDIA, Sezione staccata di BRESCIA, depositata

il 06/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 17/04/2019 dal Consigliere Dott. LUCIOTTI Lucio.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La Corte:

costituito il contraddittorio camerale ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., come integralmente sostituito dal D.L. n. 168 del 2016, art. 1-bis, comma 1, lett. e), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 197 del 2016, osserva quanto segue:

1. In controversia avente ad oggetto l’impugnazione dell’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate in materia di IVA con riferimento all’anno d’imposta 2006, con la sentenza in epigrafe indicata la CTR rigettava l’appello proposto dalla società contribuente avverso la sfavorevole sentenza di primo grado ritenendo sussistenti i presupposti per il raddoppio dei termini di accertamento e fondata la pretesa erariale avendo l’amministrazione finanziaria provato l’inesistenza soggettiva delle operazioni commerciali poste in essere dalla società contribuente con la C.M.F. di Mo.Fa., società c.d. cartiera, in mancanza di prova, che la contribuente non aveva fornito, della propria buona fede.

2. Avverso tale sentenza la contribuente propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui replica l’intimata con controricorso.

3. Il primo mezzo di cassazione, incentrato sulla violazione delle disposizioni di legge sostanziale in materia di raddoppio dei termini di accertamento (D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, art. 331 c.p.p. e L. n. 208 del 2015, art. 1, commi 130, 131 e 132), è infondato e va rigettato.

4. Al riguardo deve ribadirsi l’insegnamento di questa Corte secondo cui “In tema di accertamento tributario, i termini previsti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 per l’IRPEF e dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57 per l’IVA, nella versione applicabile “ratione temporis”, sono raddoppiati in presenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di presentazione di denuncia penale, anche se questa sia archiviata o presentata oltre i termini di decadenza”, come peraltro stabilito dalla Corte costituzionale nella sentenza 25 luglio 2011, n. 247, “senza che, con riguardo agli avvisi di accertamento per i periodi d’imposta precedenti a quello in corso alla data del 31 dicembre 2016 e già notificati, incidano le modifiche introdotte dalla L. n. 208 del 2015, art. 1, commi da 130 a 132, della attesa la disposizione transitoria ivi introdotta, che richiama l’applicazione del D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 2, che fa salvi gli effetti degli avvisi già notificati” (Cass. n. 16728 del 2016; conf. Cass. n. 26037 del 2016).

4.1. Nelle citate pronunce questa Corte ha avuto cura di precisare: a) che “non di raddoppio dei termini in senso proprio si tratta, bensì di un nuovo termine di decadenza”, applicabile in ipotesi di sussistenza di seri indizi di reità, che è un dato obiettivo non lasciato alla discrezionalità del funzionario dell’ufficio tributario ma che deve essere accertato dal giudice; b) che tale raddoppio non è escluso dalla configurabilità di una causa di estinzione del reato come la prescrizione, nè dalla intervenuta archiviazione della denuncia, non rilevando “nè l’esercizio dell’azione penale da parte del p.m., ai sensi dell’art. 405 c.p.p., mediante la formulazione dell’imputazione, nè la successiva emanazione di una sentenza di condanna o di assoluzione da parte del giudice penale, anche in considerazione del doppio binario tra giudizio penale e procedimento e processo tributario (in termini, Cass. 15 maggio 2015, n. 9974)” (Cass. n. 16728/16, cit.); c) che su tale assetto nessun effetto spiega la sequenza di modifiche che hanno riguardato la disciplina dei termini prescritti per l’accertamento (L. n. 208 del 2015, art. 1, commi da 130 a 132, nonchè D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 2) in quanto, qualora gli avvisi di accertamento relativi a periodo d’imposta precedenti a quello in corso alla data 31 dicembre 2016 siano stati già notificati – come nel caso in esame, in cui l’atto impositivo è stato notificato in data 14/01/2015 – si applica la disciplina dettata dal D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 2 (che non è stato modificato dalla successiva L. n. 208 del 2015), che fa espressamente salvi gli effetti degli avvisi di accertamento notificati alla data di entrata in vigore del predetto decreto.

4.2. Pertanto, è del tutto indifferente la data in cui viene effettuata la comunicazione di notizia di reato, e persino l’omissione di quella comunicazione, perchè quello che invece assume rilevanza ai predetti fini è la circostanza che le violazioni tributarie accertate integrino fatti anche penalmente rilevanti; circostanza sub specie sussistente e, comunque, non contestata.

5. Diversamente dalla proposta del relatore, il Collegio ritiene che sia fondato e vada accolto il secondo motivo di ricorso, con cui viene dedotta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 19 e 54, e degli artt. 2697 e 2729 c.c., e che è incentrato sugli oneri probatori gravanti sulle parti in ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti.

5.1. Invero, al riguardo questa Corte ha più volte ribadito e precisato che l’amministrazione finanziaria “ha l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, nè la regolarità della contabilità e dei pagamenti, nè la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi” (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 9851 del 20/04/2018, Rv. 647837 – 01).

5.2. In relazione a tale ultimo profilo, oggetto di specifica deduzione da parte della ricorrente, nella citata pronuncia questa Corte ha affermato che “E’ invece priva di rilievo tanto la prova sulla regolarità formale delle scritture, quanto sulle evidenze contabili dei pagamenti quanto, infine, sull’inesistenza di un dimostrato vantaggio perchè i prezzi di vendita erano conformi o superiori alla media di mercato. Si tratta, invero, di circostanze, le prime, già insite nella stessa nozione di operazione soggettivamente inesistente (e relative a dati e documenti facilmente falsificabili), e, l’ultima, perchè riferita ad un dato di fatto esterno alla fattispecie tipica ed inidoneo di per sè a dimostrare l’estraneità alla frode (v. Cass. n. 20059 del 2014 cit.; Cass. n. 428 del 14/01/2015; Cass. n. 29002 del 05/12/2017; Corte di Giustizia 22 ottobre 2015, Ppuh, C-277/14, sopra citata, che precisa che “in circostanze del genere il soggetto passivo deve essere considerato… partecipante a tale evasione, e ciò indipendentemente dalla circostanza di trarre o meno beneficio dalla rivendita dei beni o dall’utilizzo dei servizi nell’ambito delle operazioni soggette a imposta da lui effettuate a valle”)”.

6. Nella fattispecie in esame la CTR non si è attenuta al suddetto principio giurisprudenziale in quanto l’unica circostanza valorizzata dai giudici di appello, ovvero che la società cedente non aveva “mai avuto una sede operativa adeguata allo svolgimento dell’attività asseritamente svolta”, è da sè sola inidonea a costituire prova presuntiva dello stato soggettivo del contraente, di “consapevolezza che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta”.

7. Pertanto, in accoglimento del motivo in esame, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla competente CTR che rivaluterà la vicenda alla stregua del citato principio giurisprudenziale.

8. Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della LOMBARDIA, Sezione staccata di BRESCIA, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 17 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2019

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