Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24997 del 06/12/2016


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Cassazione civile sez. VI, 06/12/2016, (ud. 22/04/2016, dep. 06/12/2016), n.24997

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25759-2014 proposto da:

G.I.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA

DARDANELLI 37, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE CAMPANELLI,

rappresentato e difeso dall’avvocato RICCARDO OCCHINEGRO, giusta

procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende, ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto n. 191/2014 della CORTE D’APPELLO di POTENZA del

03/12/2013, depositato il 06/03/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

22/04/2016 dal Consigliere Relatore Dott. MILENA FALASCHI.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso depositato in data 30 giugno 2012, presso la Corte d’appello di Potenza, G.I.A. chiedeva la condanna del Ministero della giustizia al pagamento del danno non patrimoniale derivato dalla irragionevole durata del giudizio iniziato dallo stesso con opposizione proposta dinanzi al Tribunale di Taranto nell’anno 1994 avverso decreto ingiuntivo emesso su richiesta di T.T. e conclusosi con sentenza pronunciata nell’anno 2010.

La Corte di Appello rigettava la domanda per carenza di ulteriore paterna d’animo, in quanto al ricorrente era stato già liquidato un indennizzo di 8.000,00 con riferimento a giudizio presupposto riunito a quello in esame e solo successivamente separato, per cui stante l’unitarietà della situazione, trattandosi di vicende connesse, non era ipotizzabile un separato pregiudizio morale per ognuno dei due processi. Del tutto sfornito di prova risultava, inoltre, il lamentato danno patrimoniale.

Per la cassazione di tale decreto ha proposto ricorso il G., sulla base di tre motivi, illustrati anche da memoria ex art. 378 c.p.c..

Il Ministero intimato resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Il Collegio ha deliberato l’adozione della motivazione semplificata nella redazione della sentenza.

Il primo motivo, con il quale il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 89 del 2001, art. 1 e degli artt. 6, 13 e 41 della Convenzione EDU, nonchè del principio di sussidiarietà di cui all’art. 35 della medesima Convenzione, lamenta l’assunto della corte territoriale secondo cui vi sarebbe inesistenza del danno non patrimoniale in presenza di due giudizi in parte connessi, nonostante la giurisprudenza ricolleghi i casi patologici solo alle ipotesi di abuso del processo. Del resto la duplicazione dei giudizi era frutto di una scelta del giudice di appello, che aveva ritenuto di non riunire i due processi nonostante la richiesta delle parti in tale senso.

Il motivo è privo di pregio.

La Corte d’appello, nel riferire le vicende processuali del giudizio presupposto de quo (opposizione proposta dal G. avverso il decreto ingiuntivo richiesto ed ottenuto da T.T.), rilevava che aveva un oggetto in parte identico ad altro giudizio presupposto, di cui alla domanda di equa riparazione relativa al procedimento n. 693 del 2013 (accertamento del credito fatto valere da Tommaso Talarico nei confronti anche dell’odierno ricorrente), apprezzandone sostanzialmente la unitarietà, considerando che i giudizi, inizialmente riuniti e solo successivamente separati, erano del tutto sovrapponibili con riguardo alle posizioni sostanziali (creditore-debitore) dedotte in giudizio, alle questioni proposte, alle domande formulate ed alle decisioni adottate, tanto da avere avuto uno sviluppo parallelo, come evidenziato dalle date delle udienze e dalle attività svolte nei due processi di cognizione. Da tale situazione di fatto la Corte d’appello ha desunto la unitarietà del paterna d’animo sofferto dal ricorrente, clic aveva proposto giudizio di equa riparazione anche per il secondo giudizio, ottenendo un indennizzo di Euro 8.000,00.

Trattasi di accertamento di fatto, adeguatamente motivato ed immune da vizi logici e giuridici, essendo evidente la unitarietà della vicenda processuale, che avrebbe senz’altro potuto giustificare il permanere della riunione dei due giudizi (presupposti) – circostanza comunque non sindacabile in sede di legittimità, non comportando, per gli effetti che ne discendono sullo svolgimento dei processi (riunione o separazione degli stessi), alcuna nullità (Cass. n. 11187 del 2007; Cass. n. 9336 del 2004), alla stregua del principio per cui i provvedimenti di riunione e separazione di cause costituiscono esercizio del potere discrezionale del giudice, avendo natura ordinatoria e fondandosi su valutazioni di mera opportunità – in relazione al quale le deduzioni del ricorrente, lungi dall’evidenziare una violazione dei principi in materia, si risolvono nella ingiustificata richiesta di duplicazione di indennizzo per una vicenda che ha avuto uno svolgimento unitario e che, in quanto tale, nell’insindacabile apprezzamento del giudice di merito, ha determinato una sofferenza unitariamente riferibile all’uno e all’altro giudizio.

Con il secondo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 2697 c.c., degli artt. 115 e 116 c.p.c. in relazione alla L. n. 89 del 2001, artt. 2 e 3 in quanto l’assunto della corte di merito si scontrerebbe anche con il principio per il quale l’esistenza di una causa concreta di esclusione dei presupposi per l’equa riparazione deve essere eccepita e provata dall’Amministrazione. In altri termini, la duplicazione del risarcimento non era stata in alcun modo dedotta dal Ministero, che aveva limitato le proprie difese alla normalità del risarcimento.

Anche il secondo mezzo non può trovare ingresso.

Il principio di non contestazione (posto dapprima dall’art. 416 c.p.c., comma 3, come sostituito dalla L. n. 533 del 1973 sul rito del lavoro, poi dall’art. 167 c.p.c., comma 1, novellato dalla L. n. 353 del 1990, e infine dall’art. 115, comma 1, come modificato dalla L. n. 69 del 2009) mira a selezionare i fatti pacifici e a separarli da quelli controversi, per i quali soltanto si pone l’esigenza dell’istruzione probatoria e ad escludere, all’atto della decisione, l’applicabilità della regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c., nei casi in cui il fatto costitutivo della domanda, benchè non provato, sia da ritenersi implicitamente pacifico. 11 che si verifica in maniera direttamente proporzionale al grado di specificità dell’allegazione (id est, deduzione volitiva) del fatto e alla possibilità di sue narrazioni alternative.

Tale principio opera in un ambito non solo soggettivamente ma anche oggettivamente dominato dalla disponibilità delle parti, nel senso che sono suscettibili di non contestazione soltanto i fatti storici la cui ricostruzione ex post richieda il dispendio dell’attività probatoria, la quale a sua volta è normalmente rimessa alle parti (non a caso, potere dispositivo della prova e principio di non contestazione condividono la medesima norma di legge: art. 115 c.p.c., comma 1).

Ciò non significa affatto, però, che ad essere disponibile sia la verità storica e che, dunque, sia sottratto al giudice ogni potere di verificarla. Ciò di cui una parte dispone attraverso la non contestazione è solo la prova del fatto contrario a quello allegato dall’altra. E non essendovi equivalenza concettuale tra fatto non contestato e fatto provato, il primo essendo un a priori rispetto al secondo, che costituisce la risultante eventuale dell’istruzione probatoria, il giudice deve in ogni caso sottoporre a controllo il fatto non contestato, e ciò – si badi indipendentemente dalla possibilità di esercitare poteri istruttori d’ufficio. Tre (in larga approssimazione) le conseguenze. Il principio di non contestazione non è applicabile alla mera negazione di un fatto, che è essa stessa contestazione; esso si attenua drasticamente nell’ambito delle questioni rilevabili d’ufficio; e l’emergere di elementi (logici ovvero di prova indiretta o documentale) di segno opposto alla non contestazione reclama il controllo terzo sulla verità storica del fatto, che non è negoziabile e che nessuna tecnica processuale può porre al riparo dalla valutazione del giudice (in termini, Cass. n. 8969 del 2015).

Orbene, in applicazione dei principi sopra enunciati deve affermarsi che la mancanza degli elementi costitutivi del diritto azionato, attenendo alla medesima causa petendi, è deducibile o rilevabile d’ufficio in ogni stato o grado del giudizio (Cass. n. 14535 del 1999; Cass. n. 14035 del 2002; Cass. n. 21275 del 2015), col solo limite della formazione del giudicato interno, e come tale sfugge alla disponibilità delle parti e si sottrae all’operatività del principio di non contestazione.

La Corte territoriale ha quindi correttamente svolto l’accertamento contestato, a prescindere dalla formulazione di una eccezione di parte in tal senso, trattandosi di una domanda che risulta infondata sulla base di fatti impeditivi e/o estintivi accertati dal giudice del merito.

Con il terzo mezzo il ricorrente denuncia la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, commi 1 e 2 e degli artt. 1223 e 2697 c.c. per non avere la corte distrettuale riconosciuto il danno patrimoniale consistito nel fatto che se si fosse tempestivamente concluso il giudizio presupposto, egli avrebbe ridotto ad un terzo la misura degli interessi corrisposti alla controparte.

Del pari è infondato il terzo motivo.

Secondo consolidato orientamento della giurisprudenza di questa Corte, “in tema di equa riparazione per la non ragionevole durata del processo, la natura indennitaria dell’obbligazione esclude la necessità dell’accertamento dell’elemento soggettivo della violazione, ma non l’onere del ricorrente di provare la lesione della sua sfera patrimoniale quale conseguenza diretta e immediata della violazione, esulando il pregiudizio dalla fattispecie del “danno evento”.

Pertanto, sono risarcibili non tutti i danni che si pretendono essere in relazione al ritardo nella definizione del processo, ma solo quelli per i quali si dimostra il nesso causale tra ritardo medesimo e pregiudizio sofferto” (Cass. n. 18239 del 2013; Cass. n. 14775 del 2013).

Nella specie, la Corte d’appello ha ritenuto inesistente il danno patrimoniale individuato dal ricorrente nei minori importi che lo stesso avrebbe dovuto esborsare se il giudizio presupposto fosse stato concluso nei tempi ragionevoli in quanto le maggiori somme derivavano da interessi, che nulla aggiungevano rispetto all’originario valore intrinseco della somma dovuta, ed ha concluso nel senso che non era stata fornita la prova di un danno patrimoniale riconducibile al ritardo.

Le censure del ricorrente sul punto appaiono assolutamente generiche e meramente oppositive, limitandosi a rilevare che il danno stesso sarebbe sostanzialmente insito nella durata del processo, non illustrando le ragioni di un danno patrimoniale ulteriore e diverso da quello non patrimoniale. Conclusivamente, alla luce delle considerazioni sopra svolte, il ricorso va respinto.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

Rilevato che dagli atti il processo risulta esente dal pagamento del contributo unificato, non si applica il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso;

condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali sostenute dal Ministero, che liquida in complessivi Euro 500,00, oltre alle spese prenotate e prenotande a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Sesta civile – 2, il 22 aprile 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2016

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