Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24994 del 06/12/2016

Cassazione civile sez. lav., 06/12/2016, (ud. 11/10/2016, dep. 06/12/2016), n.24994

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21391/2011 proposto da:

P.M.A., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA OSLAVIA 14, presso lo studio dell’avvocato NICOLA MANCUSO,

rappresentata e difesa dall’avvocato ANTONINO SUGAMELE, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

SALINE ETTORE E INFERSA S.R.L., P.I. (OMISSIS), già CILAS TOUR

S.R.L., in persona dell’Amministratore delegato pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 268/A, presso

lo studio dell’avvocato MARCO FILESI, rappresentata e difesa

dall’avvocato VINCENZO ESPOSITO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 391/2011 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 02/06/2011 R.G.N. 239/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

11/10/2016 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

udito l’Avvocato SUGAMELE ANTONINO;

udito l’avvocato ESPOSITO VINCENZO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per inammissibilità in subordine

rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Marsala, con sentenza in data 18/7/08, respingeva il ricorso proposto dalla Società Saline Ettore Infersa nei confronti della ex dipendente P.M.A., intesa a conseguire il risarcimento dei danni derivanti da comportamenti inadempienti posti in essere nello svolgimento della attività lavorativa e consistiti in irregolarità contabili ed amministrative per le quali la società aveva subito l’irrogazione di sanzioni pecuniarie, oltre ad ammanchi di cassa.

Detta pronuncia veniva riformata dalla Corte d’appello di Palermo che, con sentenza depositata il 2/6/11, condannava la P. al risarcimento dei danni in favore della società ricorrente, nella misura di Euro 121.988,14.

La Corte distrettuale perveniva a tali conclusioni – per quanto in questa sede interessa sul rilievo che il quadro probatorio delineato in prime cure aveva definito l’oggetto della prestazione lavorativa con riferimento alla gestione dei rapporti con gli istituti previdenziali e alla cura delle scritture contabili, sulla scorta di ampia delega per operare sul conto corrente della società, documentata ex actis.

Argomentava, quindi, che sulla dipendente, inquadrata nel 3 livello c.c.n.l. di settore come impiegata di concetto, gravava l’obbligo contrattuale di adempiere con diligenza alle mansioni ascritte e da lei accettate, dovendo escludersi ogni giuridica rilevanza di questioni agitate in causa dalla P. e recepite dal giudice di prima istanza, inerenti alla capacità della lavoratrice di far fronte alla obbligazione lavorativa per difetto di preparazione professionale. La complessità dei compiti assegnati, ove non rispondente alla classificazione alla stessa riservata, avrebbe potuto essere oggetto di rivendicazione di un superiore inquadramento, ma non ragione per giustificare l’infedele o negligente adempimento della prestazione lavorativa.

La cassazione di tale pronuncia è domandata dalia P. con unico motivo, resistito con controricorso dalla società intimata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Deve darsi atto che il Collegio ha autorizzato la stesura della motivazione in forma semplificata ai sensi del decreto del Primo Presidente in data 14/9/2016.

1.1 Con unico motivo si deduce violazione dell’art. 2476 c.c., comma 1, del D.Lgs. n. 139 del 2005, artt. 1-2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si lamenta che i giudici dell’impugnazione abbiano omesso di vagliare la circostanza, emersa alla stregua della espletata istruttoria, che gli amministratori della società avevano conferito alla ricorrente una delega all’esercizio di funzioni non in linea con la qualifica attribuitale all’atto della assunzione nè con le prescrizioni di legge vigenti. Si richiama il principio, secondo cui l’esercizio di mansioni corrispondenti alla qualifica superiore resta precluso qualora il titolo di studio o altro requisito analogo sia richiesto da norme inderogabili, per lo svolgimento di determinate attività. Si deduce, inoltre, che secondo i dettami del D.Lgs. n. 139 del 2005, la competenza specifica in economia aziendale e diritto d’impresa e nelle materie economiche, finanziarie, tributarie, la verifica ed ogni indagine in merito alla attendibilità di bilanci, conti, scritture e documenti contabili delle imprese ed enti pubblici e privati, spetta solo agli iscritti nell’albo dei dottori commercialisti e degli esperti contabili. Si prospetta, quindi, una ipotesi di responsabilità civile a carico degli amministratori nei confronti della stessa società per culpa in eligendo, avendo delegato funzioni gestorie ad un soggetto non abilitato all’esercizio delle medesime.

2. Il ricorso si palesa inammissibile per i motivi di seguito esposti.

E’ opportuno rammentare, in primis, che la Corte distrettuale ha modulato il proprio iter argomentativo, come fatto cenno nello storico di lite, alla stregua delle seguenti argomentazioni:

a) a decorrere dal 1999 la P., assunta dal 1997, era stata inquadrata nel terzo livello c.c.n.l. di settore quale impiegata di concetto;

b) il nuovo incarico conferito alla P., concerneva la cura della contabilità e degli adempimenti fiscali inerenti alla attività della società datoriale;

c) la condotta posta in essere dalla lavoratrice, era stata connotata da una serie di omissioni, irregolarità fiscali, amministrative e previdenziali che avevano generato sanzioni per un ammontare di Euro 56.038,75 ed avevano dato luogo ad un ammanco di cassa, per prelevamenti ai quali non erano corrisposti successivi pagamenti, pari ad Euro 63.069,57.

Va inoltre rimarcato che le suddette statuizioni non sono state in alcun modo specificamente censurate dalla ricorrente.

3. Dalle enunciate premesse discende che la doglianza formulata dalla P., con riferimento alla pretesa violazione dei dettami sanciti dall’art. 2476 c.c., presenta evidenti profili di inammissibilità, non attingendo la ratio decidendi modulata su quadro probatorio delineato in prime cure, che innerva l’impugnata sentenza, e palesandosi del tutto eccentrica rispetto ad essa.

4. La Corte distrettuale, con incedere argomentativo del tutto congruo sotto il profilo logico e corretto sul versante giuridico perchè conforme a diritto, ha infatti chiarito che ogni questione attinente alla incapacità della dipendente a svolgere le mansioni ascrittele, per difetto di preparazione professionale, esula dal thema decidendum, che invece attiene all’adempimento della prestazione, secondo l’obbligo di diligenza e di correttezza che lo governa in coerenza con i dettami di cui agli artt. 1175-1176 c.c..

Alla stregua dei principi affermati in tema dalla giurisprudenza di legittimità, incombe, infatti, sul lavoratore l’onere di provare che l’inadempimento sia stato determinato da impossibilità della prestazione derivata da causa oggettivamente non imputabile allo stesso, secondo i dettami di cui all’art. 1218 c.c..

Come affermato da questa Corte in alcuni suoi approdi (vedi ex aliis, Cass. 8/11/2002 n. 15712) al fine di esonerarsi dalle conseguenze dell’ inadempimento delle obbligazioni contrattualmente assunte, il debitore deve provare che l’inadempimento è stato determinato da causa a sè non imputabile la quale è costituita da quei fattori che, da un canto, non siano riconducibili a difetto della diligenza che il debitore è tenuto ad osservare nell’adempimento, e, d’altro canto, siano tali che alle relative conseguenze il debitore non possa con eguale diligenza porre riparo.

La prova della mancanza di colpa esige, dunque, la dimostrazione o dello specifico impedimento, che ha reso impossibile la prestazione o, quanto meno, la prova che, qualunque sia stata la causa, questa non possa essere imputabile al debitore (in tali sensi cfr. Cass. 17/5/2002 n. 7214).

5. Nello specifico, non solo detto onere non risulta adempiuto dalla ricorrente, ma la riconducibilità dell’inadempimento a fattori estranei alla signoria del suo agire, risulta smentita dagli atti, del tutto univoci nel definire una specifica responsabilità della lavoratrice per artificiose evidenze contabili di risorse in uscita, non seguite da effettivi pagamenti, e per le conseguenti sanzioni amministrative irrogate alla società.

In tale prospettiva si impone l’evidenza della assoluta estraneità della questione concernente la responsabilità degli amministratori della società sollevata dalla P. nella presente sede, con riferimento ai dettami di cui all’art. 2476 c.c., comma 1 (secondo cui gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società dei danni derivanti dall’inosservanza dei doveri ad essi imposti dalla legge e dall’atto costitutivo per l’amministrazione della società), perchè eccentrica rispetto al thema decidendum, attinente, per quanto sinora detto, alla sfera di responsabilità del debitore in ordine all’adempimento della prestazione lavorativa e come tale, priva di alcuna efficacia esimente al riguardo.

6. La proposizione, mediante il ricorso per cassazione, di censure prive di specifica attinenza al “decisum” della sentenza impugnata comporta, dunque, l’inammissibilità del ricorso per mancanza di motivi che possono rientrare nel paradigma normativo di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4. Il ricorso per cassazione, infatti, deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, il che comporta l’esatta individuazione del capo di pronunzia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione (vedi Cass. 3/8/2007 n. 17125, cui adde Cass. 18/2/11 n. 4036). Elementi questi, non riscontrabili nella fattispecie, per quanto sinora detto.

7. Le superiori argomentazioni, che assorbono ogni ulteriore questione sollevata dalla ricorrente con riferimento al possesso di titcho di studio ed alla iscrizione all’albo professionale, coessenziali allo svolgimento delle mansioni a lei ascritte, inducono, in definitiva, alla declaratoria di inammissibilità del ricorso.

Per il principio della soccombenza, le spese del presente giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente nella misura in dispositivo liquidata.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 7.000,00 per compensi professionali oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 11 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2016

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