Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24993 del 23/10/2017


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Cassazione civile, sez. II, 23/10/2017, (ud. 31/05/2017, dep.23/10/2017),  n. 24993

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 18158 – 2013 R.G. proposto da:

M.M. – c.f. (OMISSIS) – M.L. – c.f. (OMISSIS) –

MA.MA. – c.f. (OMISSIS) – G.D. – c.f. (OMISSIS) –

esercente la potestà genitoriale sulla minore M.A. – c.f.

(OMISSIS) – P.T. – c.f. (OMISSIS) – tutti quali eredi di

M.G., deceduto il (OMISSIS), rappresentati e difesi in virtù

di procura speciale in calce al ricorso dall’avvocato Giorgio Di

Micco ed elettivamente domiciliati in Roma, alla circonvallazione

Clodia, n. 80, presso lo studio dell’avvocato Enrica Bastoni;

– ricorrenti –

contro

COMUNE di ARDEA – c.f. (OMISSIS)/p.i.v.a. (OMISSIS) – in persona del

sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, alla via del

Serafico, n. 90, presso lo studio dell’avvocato Dario Scimè che lo

rappresenta e difende in virtù di procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 396/2013 della corte d’appello di Roma, udita

la relazione nella camera di consiglio del 31 maggio 2017 del

consigliere dott. Luigi Abete.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO

Con atto notificato il 17.12.2003 M.G. citava a comparire innanzi al tribunale di Velletri il Comune di Ardea.

Deduceva che aveva posseduto pacificamente, pubblicamente ed ininterrottamente per oltre vent’anni un terreno in territorio di Ardea.

Chiedeva dichiararsi l’intervenuto acquisto per usucapione da parte sua ed in danno del convenuto della proprietà del fondo.

Si costituiva il Comune di Ardea.

Instava per il rigetto dell’avversa domanda.

Assunte le prove articolate, con sentenza n. 1233/2008 l’adito tribunale, riconosciuta l’usucapibilità del fondo, accoglieva la domanda e dichiarava l’intervenuto acquisto del terreno per usucapione da parte dell’attore.

Interponeva appello il Comune di Ardea.

Resisteva M.G..

Con sentenza n. 396/2013 la corte d’appello di Roma accoglieva il gravame, rigettava la domanda esperita in prime cure dall’appellato, a carico del quale poneva le spese di c.t.u., e compensava per intero le spese del doppio grado.

Premetteva la corte che il terreno per cui è controversia, acquistato dall’amministrazione comunale in data 13.5.1970 ed entrato a far parte del patrimonio indisponibile dell’ente ai sensi della L. n. 865 del 1971, art. 35 con destinazione a pubblici servizi, era stato dallo stesso ente in esplicazione del suo diritto di proprietà, per una porzione, giusta Delib. consiglio comunale n. 173 del 1986 ceduto con atto dell’11.7.1986 alla “S.I.P.” ai fini della costruzione di una centrale telefonica, centrale la cui realizzazione era stata effettivamente riscontrata dal consulente.

Indi evidenziava – peraltro – che non vi era prova della distrazione del terreno asseritamente usucapito dal patrimonio indisponibile dell’ente comunale nelle forme convenzionali legislativamente previste per la dismissione dei beni pubblici; che segnatamente la dedotta ma insussistente inerzia dell’ente pubblico non era indicativa della sdemanializzazione tacita del bene.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso M.M., M.L., Ma.Ma., G.D., quale esercente la potestà genitoriale sulla minore M.A., e P.T., tutti quali eredi di M.G., deceduto il (OMISSIS); ne hanno chiesto sulla scorta di quattro motivi la cassazione con ogni susseguente statuizione anche in ordine alle spese di lite.

Il Comune di Ardea ha depositato controricorso; ha chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese del giudizio di legittimità.

Con il primo motivo i ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia e precisamente sull’aver ritenuto l’immobile trasferito al Comune di Ardea L. n. 865 del 1971, ex art. 35.

Deducono che, siccome si evince dalla relazione del c.t.u. depositata in data 28.3.2006, l’appartenenza del terreno al patrimonio indisponibile del Comune di Ardea “non deriva da un trasferimento L. n. 865 del 1971, ex art. 35 bensì dal piano regolatore del 1984 e dal piano particolareggiato del 1993” (così ricorso, pag. 4).

Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia e precisamente in ordine alla mancata valutazione dell’inesistenza di opere sul terreno che dimostrassero l’utilizzazione del bene al servizio del pubblico; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 826 e 828 cod. civ..

Deducono che nella relazione depositata il 28.3.2006 il c.t.u. ha dato atto dell’insussistenza di opere idonee a dimostrare che il Comune di Ardea avesse destinato l’area per cui è controversia in conformità alla previsioni del piano particolareggiato; che dunque non può dedursene l’appartenenza al patrimonio indisponibile.

Deducono ulteriormente che la corte non ha correttamente valutato l’atto di compravendita dell’11.7.1986, giacchè quivi il terreno è indicato come edificabile e non già come appartenente al patrimonio indisponibile.

Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 cod. proc. civ., per aver la corte di merito deciso su punti della sentenza di primo grado non appellati, in violazione del principio tantum devolutum, quantum appellatum.

Deducono che con l’atto di appello il Comune di Ardea aveva con un unico motivo censurato il primo dictum per contraddittorietà della motivazione in rapporto ai presupposti dell’art. 826 cod. civ..

Deducono quindi che la corte distrettuale in violazione dei principi di cui all’art. 342 cod. proc. civ. ha ampliato la sua verifica anche al merito, ovvero ai presupposti oggettivi e soggettivi dell’usucapione.

Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia e precisamente in ordine al possesso ad usucapionem del loro dante causa; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 cod. proc. civ.; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 1141 cod. civ..

Deducono che le dichiarazioni rese dal teste T.E., dipendente comunale, contrastano sia con le dichiarazioni rese dai testi A.G. e V.G. sia con le risultanze della c.t.u.; che quindi la corte distrettuale ha assunto a prova principe le dichiarazioni del teste T. senza adeguata e congrua motivazione.

Deducono che la corte territoriale non ha correttamente applicato l’art. 1141 cod. civ..

Il primo ed il secondo motivo di ricorso sono strettamente connessi.

Se ne giustifica pertanto la disamina contestuale.

Ambedue i motivi in ogni caso sono destituiti di fondamento.

Si rappresenta previamente che, in ossequio al canone di cosiddetta “autosufficienza” del ricorso per cassazione, quale sancito all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, ben avrebbero dovuto i ricorrenti, onde consentire a questa Corte il compiuto vaglio dei propri assunti, riprodurre più o meno integralmente nel corpo del ricorso il testo della relazione di consulenza tecnica d’ufficio del 24.3.2006 ed il testo dell’atto di compravendita dell’11.7.1986 e non già limitarsi a trascriverne singoli stralci (cfr. Cass. sez. lav. 27.2.2009, n. 4849; Cass. sez. lav. 4.3.2014, n. 4980).

Si rappresenta comunque che la corte di Roma ha posto in risalto che non era materialmente possibile per la “S.I.P.”, cessionaria di una porzione del terreno in virtù dell’atto di compravendita dell’11.7.1986, “effettuare lavori per la costruzione delle centrale telefonica laddove il terreno, asseritamente occupato pro quota dal M. dall’anno 1970, fosse già stato, nel 1986, recintato, occupato a deposito, con filari di piante e con autovetture parcheggiate da parte dei clienti del ristorante” (così sentenza d’appello, pag. 4).

Ed al contempo ha rimarcato che non vi era “prova dell’esatto, congruo periodo da cui fare decorrere il possesso ad usucapionem del privato (…) e cioè da quando l’Amministrazione avesse iniziato a non esercitare i suoi diritti reali, a fini di pubblica utilità sul terreno, per poi calcolare i venti anni necessari per la (…) prescrizione acquisitiva” (così sentenza d’appello, pag. 5).

E’ ben evidente dunque – e pur a prescindere dal carattere di “novità” che connoterebbe, a giudizio del controricorrente, la denunciata erronea valutazione dell’atto di compravendita datato 11.7.1986 (cfr. controricorso, pag. 7) – che entrambi i motivi non si correlano puntualmente alla ratio decidendi.

D’altro canto, se è vero che la demanialità ovvero l’appartenenza al patrimonio indisponibile possono cessare con il venir meno della destinazione del bene all’uso pubblico, indipendentemente da un atto di sclassificazione da parte della pubblica amministrazione, è tuttavia necessario che ciò risulti da atti univoci e concludenti, incompatibili con la volontà di conservare la destinazione del bene all’uso pubblico, e da circostanze così significative da rendere non concepibile altra ipotesi se non quella che la Pubblica Amministrazione abbia definitivamente rinunziato al ripristino della pubblica funzione del bene medesimo (cfr. Cass. 5.8.1977, n. 3556; Cass. sez. un. 26.7.2002, n. 11101).

In questi termini non riveste precipua valenza la circostanza per cui il c.t.u., il quale, beninteso, ha attestato che “effettivamente il terreno risulta nell’elenco delle proprietà dei beni indisponibili del Comune” (così ricorso, pag. 5), abbia in pari tempo dato atto che “sul terreno non appaiono segni evidenti di opere che possano dimostrare come il Comune di Ardea avesse effettivamente destinato quella superficie alla previsione di piano particolareggiato (verde e parcheggio)” (così ricorso, pag. 5).

Privo di fondamento è pur il terzo motivo.

Del tutto ingiustificato infatti è l’assunto dei ricorrenti secondo cui la corte d’appello indebitamente “ha ampliato la sua verifica anche al merito della causa” (così ricorso, pag. 6).

E’ sufficiente in proposito reiterare l’insegnamento di questo Giudice del diritto a tenor del quale, ai sensi dell’art. 342 cod. proc. civ., il giudizio di appello, pur limitato all’esame delle sole questioni oggetto di specifici motivi di gravame, si estende ai punti della sentenza di primo grado che siano, anche implicitamente, connessi a quelli censurati, sicchè non viola il principio del “tantum devolutum quantum appellatum” il giudice di secondo grado che fondi la propria decisione su ragioni diverse da quelle svolte dall’appellante nei suoi motivi, ovvero esamini questioni non specificamente da lui proposte o sviluppate, le quali, però, appaiano in rapporto di diretta connessione con quelle espressamente dedotte nei motivi stessi e, come tali, comprese nel “thema decidendum” del giudizio (cfr. Cass. sez. lav. 3.4.2017, n. 8604).

Va respinto anche il quarto motivo.

Si premette che il vizio motivazionale veicolato dal mezzo di impugnazione in esame rileva – esclusivamente – nei limiti della formulazione dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5 quale introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. n. 134 del 2012, ed applicabile alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione (è il caso de quo: la sentenza della corte di merito è stata depositata il 21.1.2013).

Conseguentemente riveste valenza l’insegnamento delle sezioni unite di questa Corte (il riferimento è a Cass. sez. un. 7.4.2014, n. 8053).

Su tale scorta si rappresenta quanto segue.

Da un canto, che è da escludere recisamente che taluna delle figure di “anomalia motivazionale” destinate ad acquisire significato all’insegna della pronuncia delle sezioni unite testè menzionata, possa scorgersi in relazione alle motivazioni cui la corte distrettuale ha ancorato il suo dictum.

In particolare, con riferimento al paradigma della motivazione “apparente” – che ricorre allorquando il giudice di merito non procede ad una approfondita disamina logico – giuridica, tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito (cfr. Cass. 21.7.2006, n. 16672) – la corte territoriale ha compiutamente ed intellegibilmente esplicitato il proprio iter argomentativo (“non era materialmente possibile per la SIP effettuare lavori per la costruzione (…)”: così sentenza d’appello, pag. 4; “in tale contesto le dichiarazioni rese dai testi A.G. e V.G. (…) non appaiono convincenti, tanto più che il teste T.E., dipendente comunale dall’anno 1971 (…) ha riferito (…)”: così sentenza d’appello, pag. 4).

Dall’altro, che la corte romana ha sicuramente disaminato il fatto storico caratterizzante la res litigiosa.

Del resto, i ricorrenti censurano l’asserita distorta ed erronea valutazione delle risultanze di causa (“in conclusione, il convincimento della Corte d’Appello di Roma, basato sull’esaltazione delle dichiarazioni del Geom. T., non trova negli atti una giustificazione adeguata, poichè i riscontri indicati o sono inesistenti o, addirittura, sono di segno opposto”: così ricorso, pag. 11).

E tuttavia il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892).

E’ ben evidente, da ultimo, che la prefigurata non corretta applicazione dell’art. 1141 cod. civ. si risolve in una vera e propria petizione di principio.

E, d’altra parte, in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. (norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, solo quando il giudice di merito disattenda – il che non è nella fattispecie – tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892).

Il rigetto del ricorso giustifica la condanna in solido dei ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità.

La liquidazione segue come da dispositivo.

Si dà atto che il ricorso è datato 13.7.2013.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (comma 1 quater introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, a decorrere dall’1.1.2013), si dà atto altresì della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis, D.P.R. cit..

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna in solido i ricorrenti, M.M., M.L., Ma.Ma., G.D., quale esercente la potestà genitoriale sulla minore M.A., e P.T., tutti quali eredi di M.G., a rimborsare al controricorrente, Comune di Ardea, le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e cassa come per legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13,comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis, cit..

Così deciso in Roma nella camera di consiglio della 2 sez. civ. della Corte Suprema di Cassazione, il 31 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2017

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