Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24978 del 07/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 07/10/2019, (ud. 15/05/2019, dep. 07/10/2019), n.24978

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. BERRINO Umberto – rel. Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19188/2016 proposto da:

CASEIFICIO SOCIALE MANCIANO SOCIETA’ AGRICOLA COOPERATIVA, in persona

del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA DI VILLA SEVERINI 54, presso lo studio dell’avvocato

GIOVANNI CONTESTABILE, rappresentata e difesa dagli avvocati ORONZO

MAZZOTTA, ALESSANDRO MARRI, CARLO SALTO;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, C.F.

(OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso

14l’Avvocatura Centrale dell’Istituto rappresentato e difeso dagli

avvocati GIUSEPPE MATANO, CARLA D’ALOISIO, LELIO MARITATO, EMANUELE

DE ROSE, ESTER ADA SCIPLINO, ANTONINO SGROI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 452/2016 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 12/05/2016 R.G.N. 969/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

15/05/2019 dal Consigliere Dott. UMBERTO BERRINO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato ALESSANDRO MARRI;

udito l’Avvocato ANTONINO SGROI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Si controverte del diritto alla esenzione contributiva per i datori di lavoro operanti nei comuni montani ai sensi della L. n. 991 del 1952, art. 8.

Il giudice del lavoro del Tribunale di Grosseto accertò il diritto del Caseificio Sociale Manciano Società Agricola Cooperativa a beneficiare della predetta esenzione e ad ottenere la restituzione delle somme contributive versate per un importo di Euro 1.671.182,85, con condanna dell’Inps alla loro restituzione.

La Corte d’appello di Firenze (sentenza del 12.5.2016), investita dall’impugnazione dell’Inps, ha accolto il gravame ed ha, di conseguenza, rigettato il ricorso del Caseificio.

La Corte fiorentina, riportandosi ad un indirizzo di legittimità, ha ritenuto che la norma in esame rientrava tra quelle implicitamente abrogate o tra quelle che, al momento dell’emanazione del D.Lgs. n. 179 del 2009, avevano esaurito la loro funzione o erano, comunque, obsolete, stante l’abbandono, in tale materia, da parte del legislatore, della previsione di un generalizzato regime di esenzione contributiva a partire dalla L. n. 67 del 1988.

Per la cassazione della sentenza ricorre il Caseificio Sociale Manciano Società Agricola Cooperativa con due motivi, illustrati da memoria, cui resiste l’Inps con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo il ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 15 disp. gen., nonchè della L. 25 luglio 1952, n. 991, art. 8,L. 11 marzo 1988, n. 67, art. 9, comma 5 e successive modificazioni ed integrazioni, della L. 28 novembre 2005, n. 246, art. 14, nonchè del D.Lgs. 1 dicembre 2009, n. 179, art. 1 (con riferimento alla voce n. 1266 dell’allegato 1), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Sostiene il ricorrente che la corretta interpretazione delle norme di riferimento appena citate consente di verificare come non possa condividersi il convincimento espresso nella sentenza impugnata, secondo cui la norma della L. n. 991 del 1952, art. 8, dovrebbe ritenersi abrogata, mentre la norma della L. n. 67 del 1988, art. 9, comma 5, si sovrapporrebbe interamente alla prima, quando, al contrario, non possono sussistere dubbi circa la permanenza in vigore della norma di cui della L. n. 991 del 1952, citato art. 8.

2. Col secondo motivo si deduce la nullità della sentenza per omesso esame delle eccezioni e delle censure sollevate in appello dalla cooperativa, con conseguente violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 24 Cost., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in quanto la Corte d’appello, nel rigettare l’impugnazione, si sarebbe limitata ad un richiamo acritico della più recente sentenza di legittimità intervenuta nella materia in esame, omettendo di analizzare le eccezioni attraverso le quali erano stati esposti i criteri per l’interpretazione delle norme di riferimento e per l’individuazione degli errori interpretativi in cui era incorso il giudice di primo grado.

3. Osserva la Corte che il primo motivo è infondato.

Invero, questa Corte ha già avuto occasione di esprimersi in merito alla presente questione con la sentenza n. 19420 del 22.8.2013, alla quale si intende dare continuità, in cui ha statuito quanto segue: “In tema di agevolazioni e benefici contributivi previsti per le imprese e i datori di lavoro aventi sede ed operanti nei comuni montani, la L. 25 luglio 1952, n. 991, art. 8 – già implicitamente abrogato per la parte relativa alle agevolazioni fiscali prima del D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, artt. 58 e 68 e, poi, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601, art. 9 e non più richiamato dal legislatore, per quel che riguarda i benefici contributivi in favore delle zone montane, a partire dalla L. 11 marzo 1988, n. 67, che ha fatto riferimento solo alla definizione di territori montani contenuta nel D.P.R. n. 601 del 1973, art. 9 – deve considerarsi implicitamente abrogato, tanto più che la previsione di un regime generalizzato di totale esenzione contributiva è stato abbandonato dal legislatore a partire dalla citata L. n. 67 del 1988. Ne consegue che, in conformità al D.Lgs. 1 dicembre 2009, n. 179, art. 1, comma 3, lett. d), il suddetto art. 8 non poteva essere incluso, atteso il carattere meramente ricognitivo dell’intervento legislativo, fra le norme “salvate” dal D.Lgs. n. 179 e la ricomprensione nell’Allegato 1 – voce n. 1266 della L. n. 991 del 1952 tra le disposizioni specificamente indicate da “mantenere in vigore” si deve considerare “tamquam non esset” sulla base di una interpretazione rispettosa dell’art. 15 preleggi e costituzionalmente orientata, nel senso della coerenza e ragionevolezza dell’ordinamento (art. 3 Cost.), del rispetto dei principi e criteri direttivi della legge delega (art. 76 Cost.), e alla luce anche dell’art. 44 Cost., comma 2″.

4. In effetti, per quel che concerne la questione dell’efficacia del D.Lgs. n. 179 del 2009, nella parte in cui ha operato il “salvataggio” della L. n. 991 del 1952, art. 8, nella citata sentenza di questa Corte (in senso conforme v. altresì Cass. sez. lav., sent. del 19 ottobre 2018, n. 26488 e ord. n. 1500 del 21.1.2019) si è precisato che, come affermato dalla Corte costituzionale, il D.Lgs. n. 179 del 2009, proprio in ragione della sua funzione meramente ricognitiva appare sprovvisto di una propria e autonoma forza precettiva o, se si preferisce, di quel carattere innovativo che si suole considerare proprio degli atti normativi: non è dubbio, infatti, che, nell’individuare le disposizioni da mantenere in vigore, esso non ridetermini nè in alcun modo corregga le relative discipline, limitandosi a confermare, peraltro indirettamente – attraverso, cioè, la mera individuazione di atti da “salvare” -, la persistente e immutata loro efficacia”. Ciò significa che con l’entrata in vigore, il 15 dicembre 2009, del D.Lgs n. 179 del 2009, non si è determinata la “reintroduzione” o la “reviviscenza” nell’ordinamento delle norme “salvate”, ma si è semplicemente “consentito di vederne confermata la vigenza, sull’ovvio presupposto che esso non l’avesse perduta e che perciò, altrettanto evidentemente, non avesse necessità di riacquistarla”. Tale perdita di vigenza, dal testo della relativa delega (L. 28 novembre 2005, n. 246, art. 14, commi 14 e segg., quale risultante dalla sostituzione ad opera della L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 4, comma 1, lett. a), si desume che possa essere rappresentata anche dalla tacita o implicita abrogazione ovvero dal trattarsi di norme “comunque obsolete” (Corte Cost. sentenza n. 346 del 2010 e nello stesso senso, sentenza n. 80 del 2012).

5. Inoltre, nel D.Lgs. n. 179 cit., art. 1, comma 3, lett. d, si precisa che “permanenza in vigore” deve essere stabilita anche ai sensi dell’art. 15 preleggi. Tale ultima disposizione, com’è noto, disciplina l’abrogazione delle leggi, espressa o tacita “per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perchè la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla legge anteriore”.

Si è, quindi, ribadito che dall’evoluzione normativa si desume che la L. n. 991 del 1952, non può che rientrare tra le disposizioni tacitamente o implicitamente abrogate ovvero tra le disposizioni che, al momento dell’emanazione del D.Lgs. n. 179 del 2009, avevano esaurito la loro funzione o erano comunque obsolete.

6. A tale conclusione conducono numerosi elementi, desumibili dal riportato excursus normativo:

a) la L. n. 991 del 1952, art. 8, aveva un duplice contenuto perchè per le zone montane prevedeva sia agevolazioni fiscali sia, per la prima volta, l’esenzione dal pagamento dei contributi agricoli unificati; tuttavia, mentre per le agevolazioni fiscali (attraverso il suddetto richiamo al D.Lgs.C.P.S. n. 12 del 1947 e combinandosi con la stessa L. n. 991 cit., art. 1) adottava un criterio di identificazione dei territori montani non legato soltanto all’altimetria, per l’esenzione contributiva adottò, invece, il rigido criterio della applicabilità ai soli “terreni situati a quota non inferiore ai 700 metri s.l.m.”;

b) il D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645, artt. 58 e 68, hanno previsto una nuova normativa, per quanto riguarda le esenzioni fiscali dei terreni montani e l’imposta sul reddito dominicale dei terreni, diversa da quella dettata dalla L. n. 991 del 1952, art. 8, così tacitamente abrogando il suddetto art. 8, per la parte relativa alle agevolazioni fiscali ivi contemplate (come affermato da Cass. 12 novembre 1977, n. 4909);

c) sulla parte “residua” dell’art. 8 è intervenuta la Corte costituzionale, con la sentenza n. 370 del 1985, dichiarandone l’illegittimità (unitamente a quella del D.L. 23 dicembre 1977, n. 942 cit., artt. 7 e 8) per inadeguatezza dell’adozione del solo criterio altimetrico per la determinazione del regime contributivo da applicare nelle zone montane;

d) la L. 3 dicembre 1971, n. 1102, istituì le Comunità montane, adottando criteri identici a quelli previsti in precedenza per la qualificazione dei territori montani e stabilendo (art. 12, comma 5) che “le agevolazioni fiscali di cui alla L. 25 luglio 1952, n. 991, art. 8, sono estese all’intero territorio montano”;

e) intanto, ai fini fiscali, una nuova definizione di territori montani comprensiva e più ampia delle precedenti veniva dettata dal D.P.R. 29 settembre, n. 601, art. 9;

f) a partire dalla L. 11 marzo 1988, n. 67, art. 9, ai fini delle agevolazioni contributive – normalmente parziali – in favore dei datori di lavoro agricolo operanti nei territori montani si è generalmente fatto riferimento al D.P.R. n. 601 del 1973, suddetto art. 9;

g) le norme di cui alla L. n. 142 del 1990, artt. 28 e 29, successivamente abrogati dal D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, abrogarono, fra l’altro: a) la L. 25 luglio 1952, n. 991, art. 1, come sostituito dall’art. unico della L. 30 luglio 1957, n. 657 (che prevedeva il potere di classificazione dei territori montani della Commissione censuaria nazionale operante presso il Ministero delle Finanze) e la citata L. n. 991 del 1952, art. 14, comma 2; b) la L. 3 dicembre 1971, n. 1102, artt. 3,4,5 e 7;

h) la L. 31 gennaio 1994, n. 97 (nel testo risultante dalle modifiche introdotte dalla L. 25 dicembre 1995, n. 213, art. 1) ha previsto un esonero previdenziale totale per le assunzioni a tempo parziale da parte delle imprese e dei datori di lavoro “aventi sedi ed operanti nei comuni montani”, da intendere come “comuni facenti parte di comunità montane” se ridelimitate ovvero “comuni interamente montani classificati tali ai sensi della L. 3 dicembre 1971, n. 1102, e successive modificazioni” in mancanza della ridelimitazione;

i) tale ultimo richiamo, contenuto nella L. n. 97 cit., alla L. n. 1102 cit., non può essere inteso come un indiretto rinvio alla definizione di terreni montani contenuta nella L. n. 991 del 1952, in quanto, nella L. n. 1102 cit., il richiamo a quest’ultima definizione era contemplato dall’art. 3, già abrogato, insieme con la L. n. 1102 cit., artt. 4,5 e 7 dalla L. n. 142 del 1990; del resto anche Cass.17 luglio 2007, n. 15907 ha sottolineato come la L. n. 142 del 1990, abbia espressamente abrogato le “precedenti disposizioni della normativa del 1952 e 1971 concernenti la individuazione e la classificazione dei comuni montani”.

7. Ne deriva che l’art. 8 in argomento – già implicitamente abrogato per la parte relativa alle agevolazioni fiscali prima dal D.P.R. n. 645 del 1958, art. 58 e 68 e poi dal D.P.R. n. 601 del 1973, art. 9 – colpito, per la parte relativa ai benefici contributivi, dalla sentenza di accoglimento della Corte costituzionale n. 370 del 1985, coinvolto sia pure indirettamente nell’abrogazione della L. n. 1102 del 1971, art. 3 ad opera della L. n. 142 del 1990, art. 29, non più richiamato dal legislatore, per quel che riguarda i benefici contributivi in favore delle zone montane, a partire dalla L. n. 67 del 1988 (essendosi fatto normalmente riferimento alla definizione di territori montani contenuta nel D.P.R. n. 601 del 1973, art. 9), non può che considerarsi implicitamente abrogato, tanto più che esso prevede un regime di totale esenzione contributiva che – come criterio generalizzato da applicare ai territori montani – risulta essere stato abbandonato dal legislatore, a partire dalla L. n. 67 del 1988 cit.. Di ciò si ha conferma anche nella L. 31 gennaio 1994, 97, art. 18, che ha previsto – con una norma speciale – una ipotesi di esonero previdenziale per le imprese e i datori di lavoro aventi sedi ed operanti nei comuni montani, in caso di assunzioni di personale a tempo parziale. Tale norma è stata emanata pochi giorni dopo la L. n. 537 del 1993, art. 11, comma 27, con il quale è stata, invece, rideterminata la quota di sgravio contributivo spettante ai datori di lavoro suindicati, con riferimento ai lavoratori dipendenti assunti a tempo indeterminato o determinato.

8. E’, invece, inammissibile il secondo motivo in quanto solo in apparenza lo stesso fa riferimento alla nullità della decisione derivante dalla denunziata omissione di pronuncia, mentre in realtà il ricorrente sostiene che la sentenza impugnata è priva di una vera e propria motivazione, essendosi la Corte d’appello limitata a trascrivere una sentenza della Corte di legittimità e a riportarne acriticamente il contenuto, senza alcun accenno alle argomentazioni svolte con la memoria di costituzione attraverso la quale si erano esposti i criteri per l’interpretazione delle norme di riferimento e per l’individuazione degli errori commessi dal primo giudice nell’interpretazione delle norme applicabili. In pratica, il ricorrente censura la sentenza non per l’omissione di pronunzia su delle specifiche eccezioni dalla cui verifica poteva dipendere l’esito della lite, ma per la ragione che la Corte di merito, richiamando acriticamente un indirizzo di legittimità, si sarebbe sottratta all’obbligo di fornire una sua motivazione senza tener conto dei criteri esposti per la corretta interpretazione delle norme di riferimento.

9. Orbene, come si è già avuto modo di statuire (Cass. sez. 2, ord. n. 10862 del 7.5.2018), “Il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riguardo all’art. 112 c.p.c., purchè il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge”.

In realtà, in base al principio “iura novit curia” di cui all’art. 113 c.p.c., comma 1, rimane sempre salva la possibilità per il giudice di ricercare le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame e di porre a fondamento della sua decisione una norma giuridica diversa da quella invocata dalla parte.

10. In definitiva, il ricorso va rigettato.

Le spese di lite del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza del ricorrente, il quale va, altresì, condannato al pagamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese nella misura di Euro 15.200,00, di cui Euro 15.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 15 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2019

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