Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24970 del 07/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 07/10/2019, (ud. 06/02/2019, dep. 07/10/2019), n.24970

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BALESTRIERI Federico – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21766/2015 proposto da:

M.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BOEZIO 19,

presso lo studio dell’avvocato GILBERTO CERUTTI, che la rappresenta

e difende;

– ricorrente –

contro

CONDOMINIO (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ZARA 13, presso lo

studio dell’avvocato GIULIO GUARNACCI, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3843/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 11/06/2015 r.g.n. 8730/2011.

LA CORTE, esaminati gli atti e sentito il consigliere relatore.

Fatto

RILEVA

che:

– con sentenza del 13 maggio 2011 il giudice del lavoro di Roma rigettava la domanda proposta dalla sig.ra M.E. mediante ricorso depositato il 27 ottobre 2008 diretta ad ottenere: la condanna del convenuto condominio di (OMISSIS), alle cui dipendenze l’attrice aveva lavorato dal luglio dell’anno 1994 sino al 30 giugno 2008, al pagamento della complessiva somma di 39.600,40 Euro, di cui 30.484,50 a titolo di minore retribuzione percepita e/o di ripetizione di quanto indebitamente pagato dalla stessa per l’alloggio di servizio da ella utilizzato; l’accertamento della illegittimità del licenziamento intimatole, con la condanna del condominio convenuto al pagamento, a titolo di risarcimento del danno di tutte le retribuzioni maturate dal giorno del recesso sino a quello dell’effettiva reintegra nel posto di lavoro, ovvero in subordine dell’indennizzo previsto dalla L. n. 604 del 1966, art. 8. Con la medesima sentenza, inoltre, il giudice adito accoglieva la domanda riconvenzionale spiegata dal condominio, condannando la ricorrente al pagamento della complessiva somma di Euro 2160 oltre accessori, a titolo di risarcimento del danno subito dal convenuto per effetto della illegittima occupazione da parte della M. dell’immobile condominiale, che la stessa non aveva più titolo per detenere dal 1 luglio 2008 sino al 1 luglio 2009, nonchè al rimborso delle spese di lite;

l’anzidetta pronuncia veniva impugnata dalla soccombente come da ricorso depositato il 7 ottobre 2011, affidato a sette motivi, cui resisteva il condominio appellato;

la Corte d’Appello di Roma con sentenza n. 3843 in data 30 aprile – 11 giugno 2015, accoglieva, per quanto di ragione, l’interposto gravame, riformando l’impugnata sentenza, confermata nel resto, con la condanna del condominio appellato al pagamento, in favore dell’appellante, della rivalutazione monetaria e degli interessi legali sulla somma tardivamente erogata a titolo di t.f.r., dichiarando inoltre per intero compensate le spese relative ad entrambi i gradi del giudizio;

la pronuncia di appello è stata quindi impugnata da M.E. mediante ricorso per cassazione, notificato unitamente a varia documentazione tramite p.e.c. 17 settembre 2015 ed affidato a due motivi, cui ha resistito il Condominio di (OMISSIS), mediante controricorso in data 20 – 22 ottobre 2015, in seguito illustrato da memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo è stata denunciata la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1362,1363 e 1366 c.c., nonchè art. 1804 c.c. e dell’art. 17 nonchè art. 18 del c.c.n.l. per i dipendenti da proprietari di fabbricati, reputando erronea l’interpretazione dei contratti intervenuti tra le parti, come da scritture private del 1 luglio 1994, in particolare assumendosi che l’interpretazione del contratto quale comodato gratuito, gravato da rimborso forfettario delle spese condominiali e di riscaldamento, doveva ritenersi censurabile per vizio logico-giuridico circa la comune intenzione dei contraenti, poichè dai documenti prodotti risultava manifesto che la fattispecie contrattuale non era quella ritenuta dalla Corte territoriale, bensì quella del collegamento negoziale tra contratto di lavoro e concessione dell’alloggio in relazione alla prestazione lavorativa, giusta quanto emergente dalla clausola sub 5 del contratto di comodato, secondo cui quest’ultimo restava subordinato al rapporto di lavoro intercorrente tra i contraenti e per cui al momento della cessazione di tale rapporto di lavoro essa signora M. avrebbe dovuto restituire l’appartamento libero da persone e cose. Secondo la ricorrente, l’esame del contenuto testuale dei due contratti non lasciava spazio a dubbi interpretativi, nel senso che sussistenza e durata di entrambi si condizionavano reciprocamente. Ciò imponeva di qualificare il contratto, avente ad oggetto la concessione dell’uso gratuito dell’appartamento sito al piano sottostante l’ingresso dell’edificio condominiale, non già come semplice comodato, come invece erroneamente ritenuto dalla Corte di merito, ma come concessione di un alloggio di servizio, collegato alla prestazione lavorativa. Era censurabile, quindi, la motivazione con la quale la Corte d’Appello aveva ritenuto che la signora M. non svolgeva mansioni di vigilanza e custodia dello stabile ed inoltre che la previsione dell’onere di rimborsare le spese condominiali di riscaldamento non era di per sè incompatibile con la natura essenzialmente gratuita del comodato. In proposito, la ricorrente ha richiamato soprattutto l’art. 18 del contratto collettivo 4 dicembre 2003: “1. L’alloggio di servizio eventualmente assegnato lavoratori di cui ai profili professionali A) deve rispondere ai requisiti di cui ai commi successivi. 2. L’alloggio deve essere gratuito”. Pertanto, dall’interpretazione logico letterale della normativa collettiva, ad avviso della ricorrente, emergeva da un lato che non sussisteva l’obbligatorietà della fruizione dell’alloggio di servizio per i soli lavoratori della categoria A, e dall’altro che la stessa norma contrattuale non era ostativa alla concessione di un tale alloggio anche per i lavoratori della categoria di, come si evinceva dalla locuzione “eventualmente assegnato” e come poteva desumersi dal principio di salvaguardia delle condizioni di miglior favore. D’altro canto, ove pure l’alloggio di servizio fosse stato effettivamente riservato dalla contrattazione collettiva a determinati lavoratori, “nulla poteva impedire alle parti di disapplicare altrimenti in maniera più favorevole per la lavoratrice”;

con il secondo motivo la ricorrente ha denunciato violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112 e 116 c.p.c., nonchè degli artt. 1417,2727 e 2729 c.c., poichè era stato interpretato erroneamente il primo motivo di gravame, con il quale era stata denunciata la simulazione del comodato gratuito gravato da obbligo di rimborso delle spese da parte del comodatario, erano stati evidenziati gli elementi probatori comprovanti la dissimulazione della concessione di un mero alloggio di servizio, era stata dedotta la conseguente nullità del contratto simulato ed infine era stata chiesta la ripetizione di quanto costituente l’indebito pagamento per mancanza di valido titolo, il tutto come da riprodotto primo motivo di appello (cfr. in part. pag. 8 e ss. del ricorso per cassazione), di modo che la domanda di nullità del contratto per simulazione non era stata abbandonata, costituendo il presupposto logico giuridico per l’accoglimento della richiesta di condanna del condominio resistente. Subito dopo tuttavia la – ricorrente così testualmente dedotto (v. pag. 10 e ss. del ricorso): “La Corte territoriale ha ritenuto infondata la prova circa la nullità per simulazione, rilevando quanto segue… Tuttavia, la stessa Corte ha omesso di valutare elementi presuntivi comprovanti la simulazione, quali la mancanza nel bilancio condominiale di oneri e spese di riscaldamento riferibili all’alloggio in questione, come si evince dal doc. n. 7 del ricorso depositato il 27/10/2008 che, in ossequio al principio di autosufficienza, viene qui fotocopiato. Peraltro, dall’esame di detto bilancio si evince che il preteso rimborso forfettario stato indicato come canone di locazione, in analogia con quanto specificato le ricevute di cui al doc. n. 4) dello stesso ricorso di primo grado, che vengono anch’esse fotocopiate per il principio di autosufficienza… – seguono in copia numerosi documenti -… Si tratta all’evidenza di riscontri documentali che dimostrano la simulazione, la cui prova può peraltro fornirsi anche per presunzioni come da giurisprudenza costante di questa Corte: “deve ritenersi che gli elementi presuntivi ben possono sorreggere l’impianto motivazionale ex art. 2729 c.c., perchè se significativi e concludenti confluiscono in una prova completa, alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza anche esclusiva ai fini del proprio convincimento nell’esercizio del potere discrezionale, funzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova” (ex plurimis Cass. sez. II, 21 dicembre 1988, n. 6987… III, 31 gennaio 2008, n. 2394). Ciò posto deve ritenersi viziata la motivazione della sentenza della corte territoriale nella parte in cui non aveva accolto il seguente capo a delle conclusioni formulate a pagina 12 del ricorso in appello: “condannare il condominio appellato ai pagamento in favore della parte appellante per la complessiva somma di Euro 39.600,40 di cui quanto a Euro 30.484,50 a titolo di minor retribuzione percepita e/o di ripetizione di quanto indebitamente pagato per l’uso dell’alloggio di servizio”;

tanto premesso, gli anzidetti motivi vanno disattesi in forza delle seguenti ragioni;

in primo luogo, deve rilevarsi come parte ricorrente, in relazione alle sue doglianze abbia omesso di riportare compiutamente i termini della propria domanda (ivi compresa quindi la causa petendi, oltre che il connesso petitum), avanzata con il ricorso introduttivo del giudizio di merito, unitamente alla decisione, di rigetto, pronunciata dal Tribunale, poi in effetti confermata dalla Corte capitolina, e di riprodurre per intero il proprio ricorso d’appello ex art. 434 c.p.c., che, come è noto, anche prima delle modifiche inserite dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. c-bis, conv. in L. n. 134 del 2012, richiedeva specifici motivi a sostegno del gravame, pertinenti alla ratio decidendi della sentenza impugnata e idonei a confutarne il fondamento (cfr. tra le altre Cass. III civ. n. 9244 del 18/04/2007: nel giudizio di appello – che non è un “novum iudicium” – la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso specifici motivi e tale specificità esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono. Ne consegue che, nell’atto di appello, ossia nell’atto che, fissando i limiti della controversia in sede di gravame consuma il diritto potestativo di impugnazione, alla parte volitiva deve sempre accompagnarsi, a pena di inammissibilità del gravame, rilevabile d’ufficio e non sanabile per effetto dell’attività difensiva della controparte, una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, al qual fine non è sufficiente che l’atto di appello consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate, ma è altresì necessario, pur quando la sentenza di primo grado sia censurata nella sua interezza, che le ragioni sulle quali si fonda il gravame siano esposte con sufficiente grado di specificità da correlare, peraltro, con la motivazione della sentenza impugnata. Conformi: Cass. nn. 1599 del 1997, 5445 e 12984 del 2006, nonchè Cass. II civ. n. 8771 del 13/04/2010, I civ. n. 18932 del 27/09/2016. Parimenti, secondo Cass. I civ. n. 21566 del 18/09/2017 ed in senso analogo v. anche Cass. lav. n. 8926 in data 11/05/2004, conforme Cass. V civ. n. 227 del 07/01/2005). A parte le carenze, rilevanti soprattutto ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, va altresì evidenziata l’anomalia dell’integrale materiale allegazione al ricorso di vari documenti in copia, anch’essi per intero notificati con il medesimo atto, però senza selezione di sintesi in proposito (cfr. in part. sul punto Cass. Sez. 6 – 5, ordinanza n. 10244 del 2/5/2013: in tema di ricorso per cassazione, la pedissequa riproduzione di atti processuali e documenti, ove si assuma che la sentenza impugnata non ne abbia tenuto conto o li abbia mal interpretati, non soddisfa il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto costituisce onere del ricorrente operare una sintesi del fatto sostanziale e processuale, funzionale alla piena comprensione e valutazione delle censure, al fine di evitare di delegare alla Corte un’attività, consistente nella lettura integrale degli atti assemblati finalizzata alla selezione di ciò che effettivamente rileva ai fini della decisione, che, inerendo al contenuto del ricorso, è di competenza della parte ricorrente e, quindi, del suo difensore. V. parimenti Cass. lav. n. 17168 del 9/10/2012, secondo cui qualora il ricorrente per cassazione si dolga dell’omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice del merito, ha l’onere di indicare nel ricorso il contenuto rilevante dello stesso, fornendo alla Corte elementi sicuri per consentirne il reperimento negli atti processuali, potendo così reputarsi assolto il duplice onere, rispettivamente previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, senza che occorra la pedissequa riproduzione dell’intero letterale contenuto degli atti processuali, riproduzione, anzi, inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto diretta ad affidare alla Corte il compito supplementare di scegliere quanto effettivamente rileva ai fini delle argomentazioni dei motivi di ricorso, nell’ambito del copioso materiale prodotto, contenente anche elementi estranei al “thema decidendum”. Ed in proposito conviene altresì ricordare il principio ribadito dal Cass. VI civ. – 3 n. 3385 del 22/02/2016, secondo cui il ricorso per cassazione redatto per assemblaggio, attraverso la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale, contenuto degli atti processuali, è carente del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3), che non può, a fronte dell’utilizzo di tale tecnica, neppure essere desunto, per estrapolazione, dall’illustrazione del o dei motivi. Analogamente, infatti, Cass. sez. un. civ. con la sentenza n. 5698 del g. 11/04/2012, ha ritenuto che ai fini del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3, la pedissequa riproduzione dell’intero, letterale contenuto degli atti processuali è, per un verso, del tutto superflua, non essendo affatto richiesto che si dia meticoloso conto di tutti i momenti nei quali la vicenda processuale si è articolata; per altro verso, è inidonea a soddisfare la necessità della sintetica esposizione dei fatti, in quanto equivale ad affidare alla Corte, dopo averla costretta a leggere tutto – anche quello di cui non occorre sia informata, la scelta di quanto effettivamente rileva in ordine ai motivi di ricorso);

nel caso di specie, invero, con la sentenza impugnata la Corte capitolina esponeva sinteticamente l’iter processuale, richiamando altresì il contenuto della pronuncia gravata e osservando in particolare che il primo giudicante aveva ritenuto, tra l’altro, alla stregua degli elementi probatori acquisiti, l’infondatezza della pretesa di parte attrice circa le rivendicate differenze retributive e la dedotta nullità del contratto di comodato, in forza del quale il condominio aveva concesso l’uso gratuito di un immobile di proprietà comune, escludendo quindi l’assunto, secondo cui la signora M. non avrebbe espletato unicamente servizi di pulizia, ma anche di custode vigilanza. Di conseguenza, il giudice adito aveva ritenuto corretto l’inquadramento assegnato nella categoria B5 di cui al c.c.n.l. di settore e che risultava tra l’altro legittimo l’intimato licenziamento, attesa la intervenuta soppressione del servizio interno di pulizia, con affidamento dello stesso ad una ditta esterna. Di conseguenza, il contratto di comodato, in base al quale era stato concesso in uso gratuito alla ricorrente un immobile condominiale, con previsione di un contributo a suo carico in ragione di Lire 300.000 mensili per le spese condominiali, era del tutto legittimo, sicchè, decorso il periodo di due settimane di preavviso, legittimamente era stata chiesta la restituzione dell’immobile, che invece l’attrice aveva continuato abusivamente ad occupare sino al 16 luglio 2009, con conseguente obbligo a suo carico di risarcire il danno cagionato. La Corte capitolina, quindi, ha dato atto dettagliatamente dei motivi posti a sostegno del gravame, all’uopo distintamente esaminati: il primo, con il quale era stata lamentata la violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia in ordine alla domanda di ripetizioni indebito oggettivo, come da ricorso introduttivo del giudizio, osservandosi in particolare sul punto che in sede di appello la ricorrente aveva fondato la sua domanda di ripetizione esclusivamente sull’assenza di titolo dell’onere posto a suo carico, in quanto nel bilancio condominiale non sarebbero state iscritte spese riferibili all’alloggio concesso in comodato, perciò non più insistendo sulla nullità di tale ultimo contratto, in quanto affetto da simulazione, perchè volto a dissimulare l’esistenza di un semplice alloggio di servizio, spettante in quanto portiera con disimpegno anche di mansioni di custodia e vigilanza. In proposito, secondo la Corte distrettuale, premesso che tale ultimo assunto era comunque infondato, poichè l’appellante non aveva svolto mansioni di vigilanza e custodia dello stabile, rilevava anzitutto che la previsione dell’onere di rimborso spese condominiali di riscaldamento non risultava di per sè incompatibile con la natura essenzialmente gratuita del comodato, costituendo principio consolidato quello secondo il quale “non viene meno per effetto della apposizione di un modus, posto a carico del comodatario, di consistenza tale da non poter integrare le caratteristiche di corrispettivo del godimento della res, come nel caso in cui venga stabilito, in relazione al godimento di un immobile, il versamento di una somma periodica, a carico del beneficiario, a titolo di rimborso spese, giusta la citata giurisprudenza di questa Corte – Cass. nn. 3021/01 e 4976/97. Nè, ad avviso della Corte di merito, il titolo dell’onere in questione poteva reputarsi inesistente in base al fatto che nel bilancio condominiale non erano iscritte spese riferibili all’alloggio concesso in comodato, atteso che proprio in ragione di ciò e del fatto che esso rientrava nella tabella dei valori millesimali, venne concordato l’importo forfettario. D’altra parte, tali circostanze comunque non escludevano la sussistenza di spese di riscaldamento e condominiali, come ad esempio rilevato per il bilancio dell’anno 2003 prodotto dalla stessa appellante, e che delle stesse beneficiasse anche la signora M., la quale in base agli artt. 1804 e 1808 c.c., era comunque tenuta a sopportare non solo le spese necessarie all’uso, ma anche quelle per l’ordinaria manutenzione. La Corte capitolina giudicava, invece, fondato il secondo motivo di appello, concernente l’omesso riconoscimento di rivalutazione monetaria ed interessi legali sull’importo liquidato a titolo di t.f.r., però corrisposto in ritardo. Per contro, veniva respinto il terzo motivo d’appello, relativo al rigetto della domanda avente ad oggetto l’indennità per ferie non godute negli anni dal 1994 al 1997 e l’indennità per permessi retributivi non goduti nel corso del rapporto, osservandosi tra l’altro, a tale ultimo riguardo, che da tali permessi in base alla menzionata contrattazione collettiva risultavano esclusi i lavoratori inquadrati, come la ricorrente, nella categoria B, in quanto addetti alla sola pulizia dell’androne, delle scale e degli accessori, con esclusione del servizio di vigilanza e custodia. Parimenti, veniva respinto il quarto motivo di appello, relativo al preteso diritto all’inquadramento nella categoria A) prevista dal c.c.n.l., confermandosi l’esclusione dell’espletamento di mansioni di vigilanza e custodia dello stabile (cfr. punti 7, 8, 8.1, 8.2 e 8.3 – pagg. 5/7 della sentenza impugnata). La Corte territoriale riteneva, altresì, infondato il quinto motivo (punto 9), che si basava sull’asserito diritto a 12 mesi di preavviso sul presupposto dell’invocato riconoscimento della categoria A, quale lavoratrice addetta anche a mansioni di vigilanza e custodia, presupposto per contro motivatamente escluso per l’erroneità dell’assunto. Per le stesse ragioni, infine (v. punto 10 della sentenza de qua), doveva ritenersi infondato anche il sesto motivo, con il quale era stata dedotta l’asserita infondatezza della domanda riconvenzionale, in quanto anche per la riconsegna dell’alloggio sarebbe spettato un preavviso di 12 mesi, pari a quello previsto per il rapporto di lavoro dei dipendenti però inquadrati nella categoria A. Da ultimo (punto 11, pag. 7 della sentenza qui impugnata), era ritenuto assorbito il settimo motivo d’appello, relativo alla lamentata violazione dell’art. 92 c.p.c., in tema di liquidazione delle spese di lite, perchè in misura eccessiva, avendo la Corte capitolina deciso di compensarle integralmente per entrambi i gradi del giudizio di merito;

pertanto, non si ravvisa alcuna omissione di pronuncia, rilevante ai sensi dell’art. 112 c.p.c. (di cui al secondo e preliminare motivo del ricorso per cassazione), avendo la Corte di merito deciso tutte le doglianze mosse dall’appellante, sebbene qualificate in diritto nei termini precisati (secondo Cass. Sez. 6 – 3, ordinanza n. 21257 del 08/10/2014, dopo la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, l’omessa pronunzia continua a sostanziarsi nella totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente perfino di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto; al contrario, il vizio motivazionale previsto dell’art. 360 c.p.c., n. 5), presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia pur sempre stato da parte del giudice di merito, ma che esso sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico, oppure che si sia tradotto nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa, invece, qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. In senso conforme Cass. sez. un. civ. nn. 8053 e 8054 del 2014. V. similmente ancora Cass. lav. sentenza n. 22759 del 27/10/2014: l’omessa pronuncia su alcuni dei motivi di appello, e, in genere, su una domanda, eccezione o istanza ritualmente introdotta in giudizio, integra una violazione dell’art. 112 c.p.c., che deve essere fatta valere esclusivamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, che consente alla parte di chiedere – e al giudice di legittimità di effettuare – l’esame degli atti del giudizio di merito, nonchè, specificamente, dell’atto di appello, mentre è inammissibile ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5. Conforme Cass. n. 1196 del 2007. Cfr. pure Cass. Sez. 6 – 3, ordinanza n. 6835 del 16/03/2017, secondo cui l’omessa pronuncia su un motivo di appello integra la violazione dell’art. 112 c.p.c., e non già l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in quanto il motivo di gravame non costituisce un fatto principale o secondario, bensì la specifica domanda sottesa alla proposizione dell’appello, sicchè, ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, il motivo deve essere dichiarato inammissibile. Conforme Sez. 6 – 1, ordinanza n. 23930 del 12/10/2017); peraltro, l’error in procedendo, prospettato con la seconda censura dalla ricorrente (funzionale alla contestuale denuncia di violazione degli artt. 1417,2727 e 2729 c.c.) non risulta nemmeno, ritualmente ed univocamente, formulato in termini di nullità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, donde la sua inammissibilità anche sotto tale profilo (cfr. Cass. II civ. n. 10862 del 07/05/2018: il ricorso per cassazione, avendo ad oggetto censure espressamente e tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, deve essere articolato in specifici motivi riconducibili in maniera immediata ed inequivocabile ad una delle cinque ragioni di impugnazione stabilite dalla citata disposizione, pur senza la necessaria adozione di formule sacramentali o l’esatta indicazione numerica di una delle predette ipotesi. Pertanto, nel caso in cui il ricorrente lamenti l’omessa pronuncia, da parte dell’impugnata sentenza, in ordine ad una delle domande o eccezioni proposte, non è indispensabile che faccia esplicita menzione della ravvisabilità della fattispecie di cui dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, con riguardo all’art. 112 c.p.c., purchè il motivo rechi univoco riferimento alla nullità della decisione derivante dalla relativa omissione, dovendosi, invece, dichiarare inammissibile il gravame allorchè sostenga che la motivazione sia mancante o insufficiente o si limiti ad argomentare sulla violazione di legge. Conforme, tra le altre, Cass. sez. un. civ. n. 17931 del 2013);

nel caso di specie, peraltro, come accennato, non essendo stato integralmente riprodotto l’atto d’appello, ai sensi e per gli effetti, dell’art. 366 c.p.c., n. 6, non risulta nemmeno possibile verificare l’eventuale errore d’interpretazione commesso dai giudici di secondo grado rispetto a quanto effettivamente devoluto da parte appellante, nei sensi di cui all’art. 434 c.p.c., mediante rituali, puntuali e specifiche confutazioni (secondo i menzionati principi di diritto) in ordine alle argomentazioni svolte dal primo giudicante con la gravata pronuncia di rigetto (anch’essa sommariamente riportata), laddove poi circa le asserite violazione degli artt. 1417,2727 e 2729 c.c., le relative doglianze si riducono in effetti a contestare in fatto quanto al riguardo, diversamente e con adeguate motivazioni, accertato, valutato e statuito in senso contrario dai giudici di merito, perciò incensurabilmente in questa sede di legittimità, secondo i quali, in base ai termini in cui risultava formulato l’appello – fondato soprattutto sull’assenza di valido titolo per porre a carico della comodataria le spese condominiali e di riscaldamento, nella misura forfettariamente stabilita, per la mancata iscrizione di apposite poste iscritte in bilancio e riferibili all’immobile in argomento – è stata del tutto esclusa la prospettazione dell’attrice, secondo cui ella avrebbe disimpegnato mansioni di custodia e vigilanza, con conseguente diritto all’inquadramento come portiera ed al relativo alloggio, gratuito, di servizio. Va in proposito soprattutto evidenziato come nessuna specifica ed espressa impugnazione sia stata mossa dalla ricorrente per quanto concerne le dettagliate argomentazioni svolte per rigettare l’anzidetto 4 motivo di appello, che, come si evince dalla stessa sentenza de qua (pag. 5 e ss.) ineriva alla parte della gravata decisione di primo grado, con la quale era stato escluso il diritto all’invocato inquadramento superiore nella categoria A di cui alla contrattazione collettiva (cfr. in part. punti 7 e ss. della sentenza relativi al succitato quarto motivo di gravame), donde anche la formazione di giudicato, negativo, in ordine, non solo ai permessi e alle ferie e ai permessi retribuiti, ma anche circa il denegato superiore inquadramento nella categoria dei lavoratori adibiti pure a mansioni di vigilanza e custodia (portierato), con conseguente diritto ad alloggio secondo la stessa contrattazione collettiva, ancorchè in via eventuale. Tale giudicato, quindi, si riflette negativamente anche sul presupposto di fatto, in base al quale era stata prospettata l’inziale simulazione del comodato in luogo dell’effettivo contratto di portierato, con conseguente diritto ad alloggio di servizio (cfr. in part. quanto al riguardo emergente dal punto 2.1 a pag. 3 della sentenza impugnata, cui segue nel punto 2.2 nella pagina successiva la logica e preliminare deduzione: “Premesso che tale ultimo assunto – cioè l’asserito svolgimento delle suddette ulteriori mansioni di portiera – è comunque infondato perchè, come meglio si dirà nell’esame del quarto motivo, la M. non svolgeva mansioni di vigilanza e custodia dello stabile…”);

parimenti, inoltre, inammissibile ed infondato risulta il primo motivo di ricorso, in base a quanto del tutto correttamente ritenuto dalla Corte di merito con il rigetto, in particolare dei suddetti motivi di gravame, primo e quarto motivi, visto tra l’altro che nell’esaminare le scritture in data primo luglio 1994 i giudici non hanno omesso di considerare anche la clausola contrattuale, secondo cui l’uso gratuito dell’appartamento di proprietà condominiale sito al piano seminterrato dello stabile restava subordinato al rapporto di lavoro intercorrente tra i contraenti, una volta cessato il quale, di conseguenza la M. avrebbe dovuto restituirlo. Di conseguenza, secondo la Corte d’Appello, esclusa altresì come sopra chiarito l’ipotizzata simulazione, la contestuale previsione contrattuale concernente l’onere del rimborso per i soli oneri accessori al godimento dell’appartamento concesso senza corrispettivo non era di per sè incompatibile con la natura essenzialmente gratuita del comodato per le ragioni di diritto, oltre che in fatto, all’uopo precisate in sentenza (cfr. Cass. III civ. n. 3021 del 2/3/2001, secondo cui in presenza di un “modus” a carico del comodatario, il carattere di essenziale gratuità del comodato viene meno solo se il vantaggio conseguito dal comodante si pone come corrispettivo del godimento della cosa con natura di controprestazione e non quando il comodatario si limiti al pagamento della somma periodica a titolo di rimborso spese. In senso analogo Cass. III civ. n. 4976 del 04/06/1997: il carattere essenzialmente gratuito del comodato non viene meno per effetto della apposizione di un “modus”, posto a carico del comodatario, di consistenza tale da non poter integrare le caratteristiche di corrispettivo del godimento della “res”, come nel caso in cui venga stabilito, in relazione al godimento di un immobile, il versamento di una somma periodica, a carico del beneficiario, a titolo di rimborso spese, la cui entità lasci ragionevolmente escludere la dissimulazione di un sottostante contratto di locazione. Similmente, Cass. III civ. n. 8703 del 17/06/2002 ha ritenuto che il carattere essenzialmente gratuito del comodato non viene meno per effetto della apposizione, a carico del comodatario, di un “modus” di consistenza tale da non poter integrare le caratteristiche di corrispettivo del godimento del bene. Conformi Cass. n. 3087 in data 11/02/2010 e n. 13920 del 2005. Da ultimo, v. ancora Cass. III civ. che con ordinanza n. 1039 del 17/01/2019: il carattere gratuito del comodato non viene meno per effetto della apposizione, a carico del comodatario, di un “modus” di consistenza tale da non poter rappresentare un corrispettivo del godimento del bene; al contrario, viene meno ove l’entità dell’onere economico posto a carico del comodatario e la consistenza del vantaggio a carico del comodante assumano natura di reciproci impegni negoziali, connotandosi in termini di vera e propria sinallagmaticità); nel caso di specie la Corte d’Appello, quindi, ha escluso ogni natura sinallagmatica del forfettizzato rimborso spese, per cui ha ritenuto trattarsi soltanto di un modus, ad ogni modo non incompatibile con la gratuità della suddetta concessione, pertanto qualificata in termini di comodato, laddove d’altro canto con la denuncia delle asserite violazioni, di cui al primo motivo di ricorso (evidentemente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3), non risulta ritualmente dedotta alcuna pretermissione di fatto decisivo, rilevante ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel caso di specie qui in esame secondo l’attuale vigente testo, ratione temporis applicabile trattandosi di sentenza emessa, pubblica ed impugnata nel corso dell’anno 2015), sicchè la relativa ricostruzione, operata dai giudici del merito, deve anche sotto questo profilo ritersi definitivamente acclarata e non sindacabile in questa sede di legittimità (v. del resto Cass. III civ. n. 28319 del 28/11/2017, secondo cui la parte che, con il ricorso per cassazione, intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poichè quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra. Conforme Cass. I civ. come da ordinanza n. 16987 del 27/06/2018. Cfr. altresì Cass. lav., sentenza n. 18375 del 23/08/2006: in materia di interpretazione del contratto, l’accertamento della volontà degli stipulanti, in relazione al contenuto del negozio, si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito, onde la possibilità di censurare tale accertamento in sede di legittimità, a parte l’ipotesi in cui la motivazione sia così inadeguata da non consentire la ricostruzione del percorso logico seguito da quel giudice per giungere ad attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto, è limitata al caso di violazione delle norme ermeneutiche, violazione da dedursi, peraltro, con la specifica indicazione nel ricorso per cassazione del modo in cui il ragionamento del giudice si sia da esse discostato, poichè, in caso contrario, la critica alla ricostruzione del contenuto della comune volontà si sostanzia nella proposta di un’interpretazione diversa. In altri termini, il ricorso in sede di legittimità, riconducibile, in linea generale, al modello dell’argomentazione di carattere confutativo, laddove censuri l’interpretazione del contratto accolta dalla sentenza impugnata, non può assumere tutti i contenuti di cui quel modello è suscettibile, dovendo limitarsi ad evidenziare l’invalidità dell’interpretazione adottata attraverso l’allegazione – con relativa dimostrazione – dell’inesistenza o dell’assoluta inadeguatezza dei dati tenuti presenti dal giudice di merito o anche solo delle regole giustificative – anche implicite – che da quei dati hanno condotto alla conclusione accolta, e non potendo, invece, affidarsi alla mera contrapposizione di un risultato diverso sulla base di dati asseritamente più significativi o di regole di giustificazione prospettate come più congrue. Conformi Cass. nn. 8590 del 1999 e 4342 del 2001, nonchè n. 9245 del 18/04/2007 e n. 15890 del 17/07/2007. V. ancora, più di recente, Cass. III civ. n. 14355 del 14/07/2016, secondo cui l’interpretazione del contratto, traducendosi in una operazione di accertamento della volontà dei contraenti, si risolve in una indagine di fatto riservata al giudice di merito, censurabile in cassazione, oltre che per violazione delle regole ermeneutiche, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per inadeguatezza della motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione antecedente alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, oppure – nel vigore della novellato testo di detta norma – nella ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti). Di conseguenza, appare anche irrilevante la questione circa la portata dell’art. 18 del c.c.n.l. 2003, secondo cui l’alloggio di servizio eventualmente assegnato ai lavoratori di cui ai profili professionali A deve rispondere ai menzionati requisiti ed essere gratuito, tenuto soprattutto conto che in sede di merito, come già ripetuto, è stata definitivamente accertata l’esclusione della sig.ra M. dall’anzidetto inquadramento sub profilo A, sicchè costei nulla comunque potrebbe vantare in ogni caso al riguardo, avendo ella invece aveva fondato la sua pretesa creditoria proprio sull’ipotizzata simulazione del comodato, volta a dissimulare la concessione di un alloggio di servizio (se del caso) dovuto per lo svolgimento di ulteriori mansioni di lavoro, con conseguente diritto pure al relativo inquadramento superiore. In altri termini, l’eventuale applicazione della richiamata contrattazione collettiva circa la gratuità dell’alloggio di servizio, piuttosto che di un appartamento ad uso abitativo concesso in comodato, avrebbe potuto rilevare soltanto nel caso di effettivo riconosciuto diritto all’inquadramento superiore per lo svolgimento di portierato, una volta comunque concesso l’uso gratuito (a parte poi ogni altra questione sugli oneri accessori) dell’immobile e venuta così meno anche l’eventualità dell’assegnazione di cui al comma 1 del succitato art. 18, laddove nel caso di specie in esame il presupposto, ossia l’appartenenza della sig.ra M. alla categoria professionale A, è stata invece del tutto esclusa;

atteso, infine, l’esito negativo dell’impugnazione qui proposta, la parte rimasta soccombente va condannata alle relative spese, risultando peraltro anche in presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida a favore di parte controricorrente in complessivi Euro 3500,00 (tremilacinquecento/00) per compensi professionali ed in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge, in relazione a questo giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuti per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 6 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2019

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