Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24960 del 23/10/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 23/10/2017, (ud. 21/09/2017, dep.23/10/2017),  n. 24960

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. DI PAOLA Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3108/2017 proposto da:

UNICREDIT SPA, in persona del legale rappresentante, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA F. MARCHETTI 35, presso lo studio

dell’avvocato AUGUSTO CATI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

S.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI GRACCHI

209, presso lo studio dell’avvocato ALBERTO BUZZI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato PATRIZIA PELLICCIONI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 21711/2016 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

di ROMA, depositata il 27/10/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 21/09/2017 dal Consigliere Dott. PAOLA GHINOY.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che:

1. questa Corte di Cassazione con la sentenza n. 21711 del 2016 cassava la sentenza della Corte d’appello di Roma che aveva rigettato la domanda di S.A., intesa ad ottenere la condanna di Banca di Roma S.p.A., ora UNICREDIT S.p.A., alle differenze di TFR conseguenti all’inserimento nella relativa base di computo della voce “premio fedeltà”.

Ribadiva il principio, già affermato da questa Corte in numerose occasioni, secondo il quale la deroga all’art. 2120 c.c., pur in astratto consentita, deve essere frutto di un espresso (e non meramente implicito) enunciato dell’autonomia collettiva, e rilevava che nel caso la sentenza impugnata “non aveva evidenziato alcuna espressa deroga, da parte dell’autonomia collettiva, alla regola di cui all’art. 2120 c.c., ma anzi – aveva ritenuto di ravvisare un’implicita esclusione dell’emolumento in parola dalla base di computo del TFR in virtù d’un articolato percorso ermeneutico da cui argomentare una diversità, sul punto, di trattamento convenzionale dei quadri direttivi di 3^ e 4^ livello rispetto a quelli di 1^ e 2^ e al personale delle aree professionali dalla 1a alla 3a”.

Cassava quindi la sentenza, con rinvio alla Corte d’appello di Roma in diversa composizione, affinchè si attenesse al principio di diritto sopra ribadito.

2. Unicredit s.p.a. propone ricorso per revocazione ai sensi dell’art. 391 bis c.p.c. e art. 395 c.p.c., n. 4. Sostiene che la sentenza sarebbe frutto di un errore di fatto risultante dai documenti della causa, essendosi supposta l’inesistenza di documento comprovante l’inquadramento della S. nella terza area professionale e della normativa collettiva prevedente per quest’inquadramento un analitico elenco delle voci retributive da porsi a base per il compito del TFR, documenti che non hanno costituito punto controverso della pronuncia.

Sostiene che la Corte territoriale si sarebbe attenuta al principio di diritto ribadito dalla Corte di cassazione, che però è stato dettato con riferimento ad inquadramenti diversi da quello in discorso o di personale destinatario di diverso C.C.N.L.. Sostiene che nel caso questa Corte, avrebbe ignorato l’esistenza della norma collettiva derogatoria al principio generale dell’art. 2120 c.c., costituita dall’art. 65 del C.C.N.L. 11/7/1999, che prevede un analitico elenco delle voci retributive utili ai fini del calcolo del TFR, nonchè del documento (cedolino stipendio della S., allegato al ricorso in opposizione al decreto ingiuntivo) attestante il di lei inquadramento nella terza area professionale, cui è riferita la richiamata disposizione contrattual-collettiva.

3. Ha resistito S.A. con controricorso e memoria ex art. 380 bis c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

che:

1. questa Corte ha ripetutamente affermato che l’errore di fatto previsto dall’art. 395 c.p.c., n. 4, idoneo a costituire motivo di revocazione, si configura come una falsa percezione della realtà, una svista obiettivamente e immediatamente rilevabile, la quale abbia portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti e documenti, ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo che dagli atti o documenti stessi risulti positivamente accertato, e pertanto consiste in un errore meramente percettivo che in nessun modo coinvolga l’attività valutativa del giudice di situazioni processuali esattamente percepite nella loro oggettività; l’errore deve, pertanto, apparire di assoluta immediatezza e di semplice e concreta rilevabilità, senza che la sua constatazione necessiti di argomentazioni induttive o di indagini ermeneutiche, e non può consistere, per converso, in un preteso, inesatto apprezzamento delle risultanze processuali, vertendosi, in tal caso, nella ipotesi dell’ errore di giudizio, denunciabile con ricorso per cassazione, entro i limiti di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5; esso presuppone, quindi, il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, semprechè la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio; ne consegue che non è configurabile l’errore revocatorio per vizi della sentenza che investano direttamente la formulazione del giudizio sul piano logico-giuridico o siano frutto di un qualsiasi apprezzamento delle risultanze processuali, ossia di una viziata valutazione delle prove o delle allegazioni delle parti, essendo esclusa dall’area degli errori revocatori la sindacabilità di errori di giudizio formatisi sulla base di una valutazione (v. tra le altre, da ultimo, Cass. 03/04/2017 n. 8615, ed i precedenti ivi richiamati).

1.1. Con specifico riferimento alla revocazione delle sentenze della Corte di cassazione, si è poi affermato che l’errore revocatorio è configurabile nelle ipotesi in cui la Corte sia giudice del fatto, individuandosi nell’errore meramente percettivo risultante in modo incontrovertibile dagli atti e tale da aver indotto il giudice a fondare la valutazione della situazione processuale sulla supposta inesistenza (od esistenza) di un fatto, positivamente acquisito (od escluso) nella realtà del processo, che, ove invece esattamente percepito, avrebbe determinato una diversa valutazione della situazione processuale, e non anche nella pretesa errata valutazione di fatti esattamente rappresentati con la conseguenza che non risulta viziata da errore revocatorio la sentenza della Corte di Cassazione nella quale il collegio abbia dichiarato l’inammissibilità del ricorso per motivi attinenti al merito delle questioni ed a valutazioni di diritto, e segnatamente alla asserita erronea applicazione di norme processuali, venendosi, in tali casi, su errori di giudizio della Corte, con conseguente inammissibilità del ricorso per revocazione. (v. anche, oltre all’arresto già richiamato ed ai precedenti ivi citati, Cass. S.U. n. 26022 del 2008).

2. Nel caso in esame, questa Corte non ha ignorato l’inquadramento della signora S. nella terza area professionale, giacchè in nessuna parte della sentenza si suppone un diverso inquadramento ed anzi al punto 1 della pagina 1 si riferisce che il motivo di ricorso era riferito proprio ai quadri direttivi ed al personale delle aree professionali dalla prima alla terza delle aziende di credito, e a pagina 2 nel secondo periodo si precisa che è stato posto a confronto il trattamento convenzionale dei quadri direttivi del terzo e quarto livello rispetto a quelli di terzo e quarto livello ed al personale delle aree professionali dalla prima alla terza. Inoltre, questa Corte non ha ignorato la normativa collettiva, ma ha ritenuto che il percorso argomentativo resosi necessario alla Corte d’appello di Roma per sostenere la tesi ivi accolta non fosse idoneo ad individuare nella normativa collettiva una chiara ed inequivoca volontà derogatoria alle disposizione codicistica.

3. In tal senso il ricorso, piuttosto che prospettare un errore della Corte di cassazione, chiede una rivisitazione delle conclusioni cui essa è giunta nella valutazione del percorso argomentativo compiuto dalla Corte di merito, valutazione che esorbita dai limiti entro i quali può essere operato il sindacato in sede di ricorso per revocazione.

4. Il ricorso risulta quindi inammissibile ex art. 375 c.p.c., comma 1, n. 1, sicchè il Collegio ritiene di confermare con ordinanza in Camera di consiglio la proposta formulata dal relatore ex art. 380 bis c.p.c..

5. La regolamentazione delle spese processuali segue la soccombenza.

6. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre ad Euro 200,00 per esborsi, rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.Lgs. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 21 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2017

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