Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24954 del 15/09/2021

Cassazione civile sez. lav., 15/09/2021, (ud. 07/04/2021, dep. 15/09/2021), n.24954

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21756/2015 proposto da:

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati, MAURO RICCI,

EMANUELA CAPANNOLO, CLEMENTINA PULLI;

– ricorrente –

contro

D.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

MONTEVIDEO 21, presso lo studio dell’avvocato PAOLO ALFONSI,

rappresentata e difesa dagli avvocati FILIPPO VINCIGUFRRA, TIZIANA

DI CONSOLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5825/2015 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 13/07/2015 R.G.N. 1886/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/04/2021 dal Consigliere Dott. LUIGI CAVALLARO;

il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA’

Stefano, visto il D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8

bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176,

ha depositato conclusioni scritte.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza depositata il 13.7.2015, la Corte d’appello di Roma ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva accolto la domanda di D.M. volta a conseguire l’assegno sociale ex L. n. 335 del 1995, nella misura di Euro 409,05.

La Corte, in particolare, ha ritenuto che l’assistita avesse diritto all’assegno nella misura integrale prevista dalla legge pur non avendo dato prova di aver inutilmente escusso il coniuge divorziato a carico del quale vantava un assegno di importo pari a Euro 150,00 mensili.

Avverso tali statuizioni ha proposto ricorso per cassazione l’INPS, deducendo un motivo di censura. D.M. ha resistito con controricorso.

Con ordinanza del 15.12.2020 la causa è stata rimessa alla pubblica udienza in relazione alla particolare rilevanza della questione di diritto oggetto del ricorso. Il Pubblico Ministero ha depositato conclusioni scritte.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo di censura, l’INPS denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e L. n. 335 del 1995, art. 3, commi 6-7, per avere la Corte di merito ritenuto che l’odierna controricorrente avesse diritto a beneficiare dell’assegno sociale nella misura integrale prevista dalla legge ancorché non avesse dato prova di aver inutilmente escusso il proprio coniuge, a carico del quale vantava un assegno divorzile di importo pari a Euro 150,00 mensili: ad avviso di parte ricorrente, infatti, ammettere che la mancata riscossione dell’importo dovuto dall’ex coniuge possa di per sé sola legittimare la richiesta dell’assegno sociale nella misura integrale prevista dalla legge potrebbe dar luogo ad abusi a danno della collettività, specie considerando la costante giurisprudenza di questa Corte che, in tema di intervento del Fondo di garanzia ex L. n. 297 del 1982, impone al lavoratore l’onere di documentare l’infruttuoso esperimento delle azioni esecutive in danno del datore di lavoro.

Il motivo è infondato.

Va premesso, in punto di fatto, che i giudici di merito hanno acclarato che, sebbene l’odierna controricorrente avesse avuto attribuito, in sede di scioglimento del matrimonio, un assegno a carico dell’ex coniuge di importo pari a Euro 150,00 mensili, la relativa somma non era mai stata effettivamente corrisposta dall’obbligato, che si era reso di fatto irreperibile, così sottraendosi ai propri obblighi.

Ciò posto, va ricordato che la L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 6, nel disciplinare i presupposti per la corresponsione dell’assegno sociale, stabilisce espressamente, per quanto qui interessa, che “se il soggetto possiede redditi propri l’assegno è attribuito in misura ridotta fino a concorrenza dell’importo predetto” (ossia “fino ad un ammontare annuo netto da imposta pari, per il 1996, a Lire 6.240.000”), e che, all’uopo, “il reddito è costituito dall’ammontare dei redditi (…) conseguibili nell’anno solare di riferimento”: l’assegno, infatti, “e’ erogato con carattere di provvisorietà sulla base della dichiarazione rilasciata dal richiedente ed è conguagliato, entro il mese di luglio dell’anno successivo, sulla base della dichiarazione dei redditi effettivamente percepiti”.

Nell’interpretare tale disposizione, questa Corte ha già affermato che, essendo il conguaglio strettamente connesso non alla mera titolarità di un reddito, bensì alla sua effettiva percezione, è da ritenere che il reddito incompatibile in tanto rilevi in quanto sia stato effettivamente acquisito al patrimonio dell’assistito: una lettura costituzionalmente orientata della norma in esame esclude infatti che si possa negare l’assegno a coloro che, pur essendo astrattamente titolari di un reddito totalmente o parzialmente incompatibile con l’assegno sociale, si vengano a trovare, in conseguenza della mancata percezione di fatto di tale reddito, nella medesima situazione reddituale di coloro che hanno diritto all’assegno sociale (così Cass. n. 6570 del 2010, cit. dalla sentenza impugnata). E benché sia vero che, nel caso colà deciso, questa Corte abbia positivamente valorizzato la circostanza che la mancata percezione dell’assegno divorzile si doveva all’accertata incapienza del coniuge divorziato, reputa il Collegio che da tale constatazione non possa farsi discendere un obbligo gravante sull’assistito di preventiva escussione dell’eventuale soggetto obbligato: tale conclusione, infatti, si porrebbe in contrasto con la lettera dell’art. 3, comma 6, cit., che valorizza ai fini del diritto all’assegno soltanto la circostanza che i redditi siano “effettivamente percepiti”, indipendentemente dalla prova che l’avente diritto si sia effettivamente (ed infruttuosamente) attivato per riscuoterli.

Non vi e’, insomma, né nella lettera né nella ratio della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 6, alcuna indicazione circa il fatto che lo stato di bisogno, per essere normativamente rilevante, debba essere anche incolpevole: al contrario, la condizione legittimante per l’accesso alla prestazione assistenziale rileva nella sua mera oggettività. La previsione secondo cui il reddito rilevante ai fini del diritto all’assegno “e’ costituito dall’ammontare dei redditi (…) conseguibili nell’anno solare di riferimento” dev’essere infatti interpretata in stretta connessione con quella immediatamente successiva, secondo cui, come appena ricordato, l’assegno “e’ erogato con carattere di provvisorietà sulla base della dichiarazione rilasciata dal richiedente ed è conguagliato (…) sulla base della dichiarazione dei redditi effettivamente percepiti”: vale a dire che all’assistito è richiesto soltanto di formulare una prognosi riguardante i redditi percepibili in relazione allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della domanda, fermo restando che la corresponsione effettiva dell’assegno dovrà essere parametrata a ciò che di tali redditi risulti “effettivamente percepito”.

Si deve piuttosto aggiungere che tale conclusione s’impone in ragione del fatto che il sistema di sicurezza sociale delineato dalla Costituzione non consente di ritenere in via generale che l’intervento pubblico a favore dei bisognosi abbia carattere sussidiario, ossia che possa aver luogo solo nel caso in cui manchino obbligati al mantenimento e/o agli alimenti in grado di provvedervi: basti ricordare che l’art. 3 Cost., comma 2, prefigura un generale impegno a rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana; che l’art. 38, enuncia il diritto di ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere al mantenimento e all’assistenza sociale; che l’art. 32, nell’attribuire il diritto alla salute ad ogni individuo, assicura cure gratuite agli indigenti; che l’art. 34, prevede che il diritto allo studio debba essere assicurato in modo che i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, possano raggiungere i più alti gradi dell’istruzione; che gli artt. 31 e 37, delineano forme ampie e generalizzate di protezione per la maternità, l’infanzia e la gioventù, di aiuto e sostegno alla famiglia, nell’adempimento dei suoi compiti, e di tutela e garanzia per la madre lavoratrice e l’adolescente lavoratore. Ciò val quanto dire che il rapporto tra prestazioni pubbliche di assistenza e obbligazioni familiari a contenuto latamente alimentare va costruito sempre in relazione alla speciale disciplina che istituisce e regola la prestazione che si considera, alla quale sola bisogna riferirsi per comprendere in che modo sulla sua corresponsione possa incidere la sussistenza di eventuali obbligati al mantenimento e/o agli alimenti: opinare il contrario equivarrebbe appunto a supporre che l’obbligo dello Stato di provvedere ai bisognosi sussiste solo in via sussidiaria, ciò che, escludendo in radice ogni possibilità di libera scelta tra le due forme di protezione, finirebbe per lasciare tali soggetti alla merce’ delle vischiosità dei rapporti familiari, impedendo alla collettività di garantirne la personalità, l’autonomia e la stessa dignità, in spregio alla lettera e all’intonazione dei principi costituzionali dianzi ricordati.

Ne’ ciò è d’ostacolo all’eventuale accertamento in concreto di condotte fraudolente che, simulando artificiosamente situazioni di bisogno, siano volte a profittare della pubblica assistenza: si deve semmai rimarcare che, in mancanza di prove (anche presuntive) in tal senso, non si può negare la corresponsione dell’assegno sociale a chi, pur avendo astrattamente diritto ad un reddito derivante da un altrui obbligo di mantenimento e/o di alimenti, non l’abbia in concreto e per qualsivoglia motivo percepito; e ciò, come detto, per ragioni di stretto diritto positivo, correlate alle scelte discrezionalmente operate dal legislatore nel formularne la disciplina.

Proprio per ciò, è da escludere che la conclusione appena esposta possa confliggere con il costante orientamento di questa Corte secondo cui, ai fini dell’intervento del Fondo di garanzia di cui alla L. n. 297 del 1982, è necessario che il lavoratore abbia preventivamente e infruttuosamente escusso il proprio datore di lavoro: basti al riguardo ricordare che il previo e inutile esperimento dell’esecuzione forzata per la realizzazione del credito relativo alle ultime tre mensilità e al TFR è espressamente previsto dalla L. n. 297 del 1982 cit., art. 2, comma 5, per il caso in cui il datore di lavoro non sia assoggettato alle disposizioni della legge fallimentare, onde è la stessa previsione di legge a renderlo rilevante.

Il ricorso, pertanto, va rigettato, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, che seguono la soccombenza.

Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 3.200,00, di cui Euro 3.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 7 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2021

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