Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24941 del 07/10/2019

Cassazione civile sez. I, 07/10/2019, (ud. 24/06/2019, dep. 07/10/2019), n.24941

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10592/2014 proposto da:

M.E., elettivamente domiciliato in Roma, Via Parigi n. 11,

presso lo studio dell’avvocato Colantoni Andrea, che lo rappresenta

e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Veneto Strade S.p.a., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Monte Zebio n. 30,

presso lo studio dell’avvocato Biagini Alfredo, che la rappresenta e

difende, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

contro

Regione Veneto, Veneto Infrastrutture e Servizi S.r.l. in

liquidazione;

– intimati –

avverso l’ordinanza della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il

17/03/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

24/06/2019 dal cons. Dott. PARISE CLOTILDE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ordinanza depositata il 17-3-2014, la Corte d’Appello di Venezia, pronunciando in unico grado, determinava in Euro 23.016,00 l’indennità di esproprio e in Euro 1.916 l’indennità di occupazione spettanti a M.E., oltre interessi legali dall’1-11-2011 alla data dell’effettivo deposito presso la Cassa Depositi e Prestiti, ordinando alla Veneto Strade s.p.a. il deposito presso la Cassa Depositi e Prestiti delle maggiori somme liquidate rispetto a quanto già versato, e compensava interamente tra le parti le spese del giudizio, ponendo le spese di CTU a carico di M.E. e di Veneto Strade s.p.a. in ragione di metà per ciascuna di dette parti. La Corte territoriale ha ritenuto che: a) tutti i terreni in signoria del M., sia a vocazione agricola che edificati, ricadessero, secondo lo strumento urbanistico del Comune di Spinea, in zona agricola o di rispetto ferroviario e stradale; b) non fosse configurabile, nel caso di specie, l’esproprio parziale di cui al D.P.R. n. 327 del 2001, art. 33 posto che l’ablazione dei terreni a vocazione agricola e di mq.18 del giardino pertinenziale la casa di abitazione non aveva inciso in modo significativo sull’unitarietà funzionale ed economica sui beni rimasti in proprietà del M., in particolare considerando che i terreni a destinazione agricola, di modestissima superficie – mq. 18-, erano separati mediante una recinzione dal giardino pertinenziale, lasciando inalterati funzionalità e godimento economico della casa e del residuo ampio terreno a giardino pertinenziale; c) le risultanze della CTU, quanto all’unitarietà del bene, dovessero essere disattese, non potendo darsi rilievo agli elementi valorizzati dal consulente d’ufficio (vicinanza ad una nuova strada, con conseguente aumento di rumorosità e inquinamento, e presenza di un ulteriore vincolo di inedificabilità per fascia di rispetto stradale più interna a quella preesistente), sia perchè tutti i fondi del M. ricadevano in zona agricola, sia perchè già esisteva vincolo per la sede stradale e ferroviaria, sia perchè era già esistente la rumorosità del traffico ferroviario; d) la valutazione del terreno agricolo ablato effettuata dal CTU in Euro 11 al mq. all’ottobre 2011 fosse congrua, considerata la destinazione a seminativo, e così anche quella del terreno pertinenziale l’edificio (Euro120 al mq.).

2. Avverso questa sentenza, M.E. propone ricorso, affidato a due motivi, resistito con controricorso dalla Veneto Strade s.p.a., mentre sono rimasti intimati la Regione Veneto e Veneto Infrastrutture Servizi s.r.l. in liquidazione. Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta “Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 33 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. Ad avviso del ricorrente l’ordinanza impugnata è erronea con riferimento alla ritenuta insussistenza dell’esproprio parziale, avendo la Corte territoriale argomentato in modo contraddittorio ed irrazionale sulla mancanza di unitarietà dei beni, senza tenere conto dei molti aspetti valorizzati dal CTU in base ai quali era risultata la concreta ed effettiva destinazione unitaria impressa dal proprietario. In particolare, riportando i passi ritenuti più significativi della CTU, il ricorrente rimarca che prima dell’esproprio per cui è causa il complesso immobiliare, composto di casa, annesso rurale, giardino e orto, era un unico insieme di bene immobiliare e di vita tranquilla, distante da rumori, e l’impoverimento era stato maggiore rispetto a quello correlato al valore del bene espropriato, poichè anche i beni non ablati risultavano penalizzati. Allega che la Corte d’appello ha disatteso le determinazioni del CTU senza adeguata motivazione e senza tenere conto dell’intimo collegamento funzionale dei terreni, come chiarito dalla giurisprudenza di questa Corte che richiama (Cass. n. 2810/2006 e n. 26357/2011).

2. Con il secondo motivo lamenta “Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 327 del 2001, art. 40 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”. Deduce il ricorrente che, nel caso di specie, i criteri di calcolo delle indennità, con riferimento a quelli aventi destinazione agricola, utilizzati dalla Corte territoriale in conformità alle valutazioni espresse dal CTU, non sono condivisibili, poichè era stato irragionevolmente attribuito un valore incongruo senza motivare la scelta di un valore così basso. Il ricorrente assume di aver provato che gli appezzamenti agricoli fossero destinati ad orto e tale specifica destinazione non era stata presa in considerazione dalla Corte d’appello, che ha dato rilievo solo all’elemento formale risultante dal verbale di immissione in possesso, in base al quale la destinazione era “a seminativo”.

3. Il primo motivo è inammissibile.

Questa Corte ha affermato, con orientamento a cui il Collegio intende dare continuità, che “Le espressioni violazione o falsa applicazione di legge, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, descrivono i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto: a) quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto; b) quello afferente l’applicazione della norma stessa una volta correttamente individuata ed interpretata. Il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata; il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perchè la fattispecie astratta da essa prevista – pur rettamente individuata e interpretata – non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione. Non rientra nell’ambito applicativo dell’art. 360, comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità” (da ultimo Cass. n. 640/2019).

3.1. Nel caso di specie la doglianza, pur se rubricata come attinente a vizio di violazione e falsa applicazione di legge, nello specifico dell’art. 33 T.U.E., è diretta a censurare il percorso argomentativo della sentenza impugnata, che è, secondo l’assunto del ricorrente, “contraddittorio ed irrazionale” in ordine all’accertamento, in concreto, della mancanza di unitarietà dei beni. Assume infatti il ricorrente che la Corte abbia errato nella ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, negando l’unitarietà dei beni, e pertanto esprime una doglianza che inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità, potendo essere censurato il risultato di tale indagine, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5.

Le considerazioni espresse dalla Corte d’appello circa l’inapplicabilità dell’art. 33 si basano su di una ricostruzione fattuale, adeguatamente motivata sotto tutti i profili, anche a confutazione delle conclusioni espresse dal C.T.U., che è stata effettuata mediante esame di fotografie, della consistenza dei beni, delle loro caratteristiche e della destinazione urbanistica, nonchè della preesistenza dei vincoli stradali e ferroviari. Il suddetto apprezzamento di fatto, rimesso al giudice del merito, non è stato censurato nei soli limiti consentiti di cui si è appena detto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 novellato).

4. Anche il secondo motivo è inammissibile, in base alle medesime considerazioni espresse nel paragrafo che precede. La valutazione sulla congruità del valore del bene ablato, nella specie adeguatamente motivata anche con riferimento alla tipologia di utilizzo del terreno come allegata dallo stesso ricorrente ed al raffronto con altro terreno preso in considerazione dal C.T.U., è espressione di un giudizio di fatto insindacabile in sede di legittimità, mentre la censura di cui si sta trattando si risolve nell’impropria richiesta di una revisione della stima di mercato dei beni e, quindi, di un nuovo giudizio di merito.

5. Conclusivamente, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

6. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

7. Infine deve darsi atto che sussistono nella specie i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso per cassazione, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della parte controricorrente delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 200 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.

Dichiara che sussistono nella specie i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso per cassazione, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 24 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2019

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