Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24940 del 07/10/2019

Cassazione civile sez. I, 07/10/2019, (ud. 24/06/2019, dep. 07/10/2019), n.24940

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9527/2014 proposto da:

L.P., L.A., in qualità di eredi di

L.G., elettivamente domiciliati in Roma, Via Barnaba Tortolini n.

13, presso lo studio dell’avvocato Verino Mario Ettore, che li

rappresenta e difende unitamente all’avvocato Campagni Franco Bruno,

giusta procura a margine del ricorso;

-ricorrenti –

contro

Provincia di Firenze, ora Città Metropolitana di Firenze, in persona

del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Corso

d’Italia n. 102, presso lo studio dell’avvocato Mosca Giovanni

Pasquale, rappresentata e difesa dall’avvocato Gualtieri Stefania,

giusta procura in calce alla memoria;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1888/2013 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 09/12/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

24/06/2019 dal cons. Dott. PARISE CLOTILDE.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del 22-12-2003 la Corte d’appello di Firenze, pronunciando in unico grado sull’opposizione alla stima proposta dagli attori L.P. e L.G., accertò che: a) alla data di emissione del decreto di espropriazione il vincolo urbanistico sulle aree espropriate, costituito con il Decreto della Giunta della Regione Toscana il 15 aprile 1985, era decaduto per decorrenza del termine di cinque anni previsto dalla L. 19 novembre 1968, n. 1187, art. 2 e la qualificazione urbanistica dell’area doveva essere fatta a norma della L. n. 10 del 1977, art. 4; b) la successiva attività svolta dalla p.a. sulla base di un vincolo urbanistico espropriativo decaduto era illegittima e fonte di risarcimento danni per il privato proprietario, essendosi verificato il fenomeno dell’accessione invertita; c) l’area espropriata non aveva alcuna autonomia dalla villa della quale costituiva una parte del giardino, non poteva considerarsi una pertinenza e costituiva parte della proprietà interessata dal procedimento amministrativo, indennizzabile per differenza tra valore anteriore e posteriore all’espropriazione; d) con lo stesso criterio doveva essere liquidato il danno, corrispondente al deprezzamento della proprietà residua e al valore dei manufatti che v’insistevano, da rivalutare dalla data di cessazione dell’occupazione legittima per decorso del quinquennio di efficacia del vincolo; e) l’indennità per l’occupazione legittima doveva essere determinata in misura corrispondente agli interessi legali sull’importo del risarcimento dei danni per la perdita della proprietà, e costituiva debito di valuta.

2. Con la sentenza n. 781/2011 di questa Corte, in accoglimento del primo motivo del ricorso proposto dalla Provincia di Firenze avverso la citata sentenza del 22-122003, è stata cassata la sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c., riguardando le domande dagli attori – in coerenza con la competenza del giudice adito – solo la determinazione delle indennità di occupazione e di espropriazione delle aree apprese dalla pubblica amministrazione, non il risarcimento del danno. Inoltre è stato demandato al giudice del rinvio di riesaminare anche la questione dell’incidenza della cessazione di efficacia di un vincolo urbanistico d’inedificabilità sul potere dell’amministrazione di emettere il decreto di espropriazione, ai fini della pronuncia sulla domanda proposta in causa, di determinazione delle indennità di espropriazione e di occupazione.

3. Con sentenza n. 1888/2013 pubblicata il 9-12-2013, la Corte d’Appello di Firenze, pronunciando nel giudizio di rinvio riassunto dalla Provincia di Firenze all’esito della citata sentenza di questa Corte n. 781/2011, determinava in Euro 15.550,51 l’indennità di espropriazione e in Euro 1.902,51 l’indennità di occupazione spettante a L.P. e L.G., condannava gli stessi in solido a restituire alla provincia di Firenze le somme già incassate in ragione dell’ablazione del fondo, nella parte eccedente la misura delle indennità di espropriazione e di occupazione come determinate nella stessa sentenza, e compensava interamente tra le parti le spese dei giudizi di merito e di cassazione, ponendo le spese di CTU a carico di ciascuna parte in ragione del 50%. La Corte territoriale, dopo aver rilevato preliminarmente che era coperta dal giudicato la questione relativa alla natura espropriativa del vincolo urbanistico imposto con il Decreto della Giunta della Regione Toscana n. 3826 del 15-4-1985, ha ritenuto che: a) la ri-apposizione del vincolo urbanistico di inedificabilità del 15-4-1985 non avesse inciso sul potere della Provincia di emettere il decreto di esproprio del 27-12-1990; b) fosse utilizzabile la CTU espletata nel primo giudizio di opposizione alla stima, senza necessità di rinnovazione dell’indagine tecnica, atteso che era stato già determinato in base a criteri differenziati il valore venale e quello agricolo medio dell’area ablata, nonchè il deprezzamento della proprietà residua; c) non ricorressero nella fattispecie i presupposti per applicare la L. n. 2359 del 1865, art. 40 in quanto l’area espropriata non solo era una modesta porzione della maggior consistenza del giardino, ma era anche situata nella zona tergale, risultando, all’esito dell’espropriazione, solo più ravvicinata rispetto al confine con la viabilità comunque esistente; d) gli espropriati avessero incassato, in ragione dell’ablazione e anche in esecuzione della sentenza della Corte d’appello del 2003, somme maggiori di quelle spettanti per le indennità liquidate; e) l’indennità di occupazione dovesse liquidarsi nella misura corrispondente al saggio degli interessi legali calcolati sull’indennità di espropriazione; f) gli espropriati dovessero condannarsi in solido a restituire alla Provincia di Firenze le somme già incassate in ragione dell’ablazione del fondo, nella parte eccedente la misura delle indennità di espropriazione e di occupazione come determinate nella stessa sentenza.

4. Avverso questa sentenza, L.P. e L.A., in qualità di erede di L.G., propongono ricorso, affidato a nove motivi, resistiti con controricorso dalla Provincia di Firenze. Le parti hanno depositato memorie illustrative.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.Con il primo motivo i ricorrenti lamentano “Error in judicando: violazione e/o falsa applicazione delle norme di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento alla L. n. 2359 del 1865, artt. 40 e 39; principi desumibili) – Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; unicità ed unitaria destinazione economica del bene effettivo)”. Ad avviso dei ricorrenti la Corte territoriale, pur avendo correttamente affermato che la porzione di area espropriata costituisse un unicum con l’abitazione, ha erroneamente ritenuto che non vi fosse alcun deprezzamento di valore della proprietà residua, e ciò in quanto il deprezzamento segnalato dal CTU era riconducibile ad elementi (quali la prossimità della strada e l’inquinamento da rumore) attinenti alla realizzazione dell’opera in generale e non all’espropriazione parziale. Richiamano la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 4787/2012) e denunciano la violazione degli articoli indicati in rubrica.

2. Con il secondo motivo lamentano “Error in judicando: violazione e falsa applicazione delle norme di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento alla L. n. 865 del 1971, art. 20; principi desumibili)”. Deducono i ricorrenti che, in conseguenza dell’accoglimento del primo motivo di ricorso, anche l’indennità di occupazione avrebbe dovuto essere rideterminata in quanto da parametrare alla giusta indennità di esproprio.

3. Il primo motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

3.1. Occorre premettere che nella fattispecie in esame trova applicazione l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 come novellato dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83. Il ricorso per cassazione avverso una sentenza emessa a seguito di rinvio disposto a norma dell’art. 383 c.p.c. è disciplinato, quanto ai motivi deducibili, dalla legge temporalmente in vigore all’epoca della proposizione dell’impugnazione, in base al generale principio processuale “tempus regit actum” ed a quello secondo cui il giudizio di rinvio, a seguito di cassazione, integra una nuova ed autonoma fase processuale di natura rescissoria. Da ciò consegue che, se la sentenza conclusiva del giudizio di rinvio è stata pubblicata dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134, di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, vale a dire dal giorno 11 settembre 2012, trova applicazione l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) nella nuova formulazione restrittiva introdotta dell’art. 54, comma 1, lett. b) suddetto D.L. (così Cass. n. 26654 del 2014).

Poichè la sentenza impugnata è stata depositata il 9-12-2013, la censura riferita all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è inammissibile in quanto formulata secondo il paradigma previgente del vizio motivazionale.

Per quanto occorra va aggiunto che in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come novellato nel 2012, non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6, e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile), mentre nel caso di specie la motivazione è senz’altro adeguata e superiore al “minimo costituzionale” (Cass. S.U. n. 8053 del 2014).

3.2. Il primo motivo è infondato nella parte in cui si denuncia la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 2359 del 1865, artt. 40 e 39. La Corte territoriale ha affermato che l’area espropriata, pari a mq. 110, è una parte modesta del giardino, esteso originariamente mq. 1.150, si trova nella zona tergale e dopo l’espropriazione il confine con la viabilità, già esistente, è stato solo “avvicinato”.

La Corte d’appello ha escluso che in concreto il distacco di parte del terreno avesse influito oggettivamente in modo negativo sulla parte residua, in particolare evidenziando che l’inquinamento da rumore e la maggiore prossimità alla strada fossero causalmente riconducibili alla realizzazione dell’opera, e non al fatto del distacco di una porzione del bene.

Il Collegio di merito, dunque, sulla base di un accertamento di fatto incensurabile in sede di legittimità, ha ritenuto che nella fattispecie concreta non ricorressero i presupposti per applicare la L. n. 2359 del 1865, art. 40 nel rispetto dei principi affermati da questa Corte in tema di espropriazione parziale (tra le tante Cass. n. 4787/2012 e n. 24304 del 2011), sicchè non ricorre il vizio denunciato.

4. Il secondo motivo resta assorbito, stante il rigetto, anche per parziale inammissibilità, del primo.

5. Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano “Error in judicando: violazione e falsa applicazione delle norme di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, con riferimento all’art. 1282 c.c. e ss.; principi desumibili)”. Assumono che la Corte d’appello avrebbe in ogni caso dovuto riconoscere gli interessi legali, che maturano per legge in quanto accessori dell’obbligazione principale in virtù del principio nominalistico, che risultava perciò violato.

6. Il terzo motivo è inammissibile nel senso di seguito precisato.

6.1. La censura non coglie la ratio decidendi della statuizione impugnata. La Corte territoriale, invero con locuzione non del tutto chiaramente esplicitata (“Su questa somma sarebbero dovuti gli interessi legali con decorrenza dal 27-12-1990 dal decreto di esproprio. Tuttavia, poichè risultano corrisposte dalla Provincia ed incassate dagli espropriati somme maggiori, non vi è luogo di ordinarne il deposito presso la Cassa Depositi e Prestiti” pag. n. 9 della sentenza impugnata), ha affermato che non vi fossero residui crediti degli espropriati, sì da determinarne l’ordine di deposito presso la Cassa Depositi e Prestiti, a titolo di indennità di espropriazione, e di conseguenza a titolo di indennità di occupazione, pur con la maggiorazione degli interessi al tasso legale. In base a quanto accertato dal Giudice del rinvio, infatti, le somme già incassate dagli espropriati in ragione dell’ablazione del fondo, anche in esecuzione della sentenza della Corte d’appello di Firenze n. 2030/2003, sono superiori agli importi dovuti in base alla sentenza ora impugnata.

La motivazione in diritto della sentenza impugnata sul punto, non del tutto chiaramente espressa, va corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c.. Sulle indennità di espropriazione e di occupazione sono dovuti gli interessi legali, con decorrenza dal 27-12-1990 – data del decreto di espropriazione- quanto alla prima e con decorrenza dalla scadenza di ciascuna annualità di occupazione quanto alla seconda, in applicazione del principio nominalistico correttamente invocato dai ricorrenti. Tuttavia la maggiorazione per gli interessi legali spetta fino alla data in cui i privati hanno incassato, in ragione dell’ablazione del fondo e anche in esecuzione della citata sentenza n. 2030/2003, somme maggiori di quelle dovute nei termini appena indicati (ossia le indennità di espropriazione e di occupazione aumentate di interessi legali con le decorrenze iniziali di cui si è detto), essendo, dalla data del suddetto incasso, cessato il ritardo nella corresponsione delle indennità che gli interessi legali hanno la funzione di compensare. Pertanto, restando immutato il dispositivo della sentenza impugnata, il criterio di determinazione delle indennità spettanti da applicarsi, anche con riguardo al calcolo degli importi dovuti in restituzione dai privati, è quello di cui si è appena dato conto.

Ciò posto, il terzo motivo non coglie l’unica ratio decidendi della statuizione di cui trattasi, emendata, nella motivazione in diritto, nei termini indicati. I ricorrenti non censurano, infatti, l’affermazione della Corte territoriale secondo cui non residua, a seguito dell’incasso di cui si è detto (pari a Euro 129.979,60 in esecuzione della sentenza cassata, secondo quanto allegano i ricorrenti – cfr. motivo 4), alcun credito degli espropriati, pur con la maggiorazione degli interessi legali sulle indennità di espropriazione, che è pari a Euro 15.550,51, e di occupazione, che è pari a Euro 1.902,21.

7. Con il quarto motivo lamentano “Error in judicando: violazione e/o falsa applicazione delle norme di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; principi desumibili) Omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; condanna alla restituzione delle somme corrisposte in esecuzione della sentenza cassata di Euro129.979,60)”. Deducono i ricorrenti che, in conseguenza dell’accoglimento dei motivi di ricorso primo e secondo, nessun importo devono restituire gli espropriati, in quanto le indennità liquidate con la sentenza della Corte d’appello n. 2030/2003 sono quelle “giuste” (pag. n. 4 memoria illustrativa dei ricorrenti).

8. Il quarto motivo resta assorbito, stante il rigetto del primo, ribadite, anche in ordine alla statuizione restitutoria, le considerazioni espresse sub p.6.1. circa la determinazione delle indennità dovute, da maggiorarsi degli interessi legali nei limiti precisati.

9. Con il quinto motivo lamentano “Error in procedendo: violazione e/o falsa applicazione dei principi e delle norme di diritto (artt. 24 e 111 Cost., art. 112 c.p.c. in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) Insufficiente e contraddittoria motivazione su fatto controverso e decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5; quesito al CTU: destinazione unitaria del bene effettivo)”. I ricorrenti si dolgono del fatto che la Corte territoriale abbia disatteso l’istanza di rinnovazione della CTU, che era invece necessaria per determinare il minor valore del complesso edilizio dei ricorrenti, privato di una porzione di giardino con riferimento alla destinazione, edificabile e di fatto, secondo il valore di mercato. Deducono che la sentenza è illegittima perchè ha “operato una errata applicazione delle domande dei ricorrenti, volte all’accertamento della unità di destinazione anche economica del bene espropriato, incorrendo anche nel vizio di motivazione insufficiente e contraddittoria sul capo”.

10. Il quinto motivo è in parte inammissibile e in parte infondato.

10.1. La denuncia del vizio motivazionale è inammissibile, in base alle stesse considerazioni espresse sub p. 3.1..

10.2. E’ infondata la doglianza relativa alla mancata rinnovazione della consulenza tecnica d’ufficio.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte rientra nei poteri discrezionali del giudice di merito la valutazione dell’opportunità di disporre indagini tecniche suppletive o integrative, di sentire a chiarimenti il consulente sulla relazione già depositata ovvero di rinnovare, in parte o “in toto”, le indagini, sostituendo l’ausiliare del giudice. L’esercizio di tale potere non è sindacabile in sede di legittimità, ove ne sia data adeguata motivazione, immune da vizi logici e giuridici (tra le tante da ultimo Cass. n. 2103 del 2019).

La Corte territoriale ha fornito adeguata motivazione delle ragioni in base alle quali ha disatteso la richiesta delle parti di disporre nuova C.T.U.; in particolare ha affermato che la decisione sul quantum non necessitava di ulteriore attività istruttoria, in quanto era stata svolta nel precedente giudizio di merito indagine tecnico valutativa, articolata in conclusioni formulate secondo criteri differenziati – valore venale, valore agricolo medio, deprezzamento della proprietà residua -.

11. Con il sesto motivo i ricorrenti denunciano “Error in procedendo: violazione e/o falsa applicazione delle norme di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in riferimento all’art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c. – giudicato formale e sostanziale; principi desumibili) -Insufficiente e contraddittoria motivazione su fatto controverso e decisivo per il giudizio (natura espropriativa del vincolo costituente res iudicata)”. Assumono che sia pacifica ed incontroversa la natura edificabile, sia legale che effettiva, dell’area ablata, dato che si era formato il giudicato sulla natura espropriativa del vincolo urbanistico imposto nel 1985, come affermato anche dalla stessa Corte territoriale, e quindi, ad avviso dei ricorrenti, anche sulla natura edificabile del terreno espropriato. La Corte d’appello avrebbe dovuto pertanto dichiarare inammissibile la domanda della Provincia diretta ad ottenere la determinazione dell’indennità sul presupposto della natura non edificabile del suolo e, poichè difetta detta declaratoria di inammissibilità, la motivazione della sentenza impugnata è da ritenersi illogica e contraddittoria.

12. Il sesto motivo è inammissibile.

La denuncia del vizio motivazionale è inammissibile, in base alle stesse considerazioni espresse sub p. 3.1..

E’ inammissibile anche la parte della doglianza con cui si denunzia la violazione e/o la falsa applicazione di legge.

La censura, in base all’illustrazione che ne fanno i ricorrenti, è finalizzata a sindacare l’omessa pronuncia sull’ammissibilità della domanda della Provincia di Firenze diretta ad ottenere la determinazione dell’indennità sul presupposto della natura non edificabile del suolo.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il vizio di omessa pronuncia non è configurabile su questioni processuali (Cass. n. 25154 del 2018 e n. 10422 del 2019), e ciò in disparte ogni considerazione, ininfluente sul suddetto decisum, circa il conflitto di giudicati che, nella memoria illustrativa, la controricorrente assume ora esservi sulla natura del vincolo del 1985, a seguito della sentenza n. 1191/2019 del Consiglio di Stato, intervenuta nelle more del presente giudizio.

13. Con il settimo motivo denunciano “Error in procedendo: violazione e/o falsa applicazione delle norme di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in riferimento all’art. 1224 c.c.; principi desumibili)- Omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (condanna al maggior danno da svalutazione)”. I ricorrenti lamentano omessa pronuncia sulla domanda diretta ad ottenere il maggior danno da ritardo, che assumono di aver proposto, nella loro qualità di operatori/investitori, con gli atti di citazione/opposizione del 6-3-1991 e 16-12-1991. Assumono di aver riproposto nel merito ed in via riconvenzionale anche nel giudizio di rinvio la domanda risarcitoria e di aver dato prova di fare usuale e ordinario ricorso al credito bancario.

14. Il settimo motivo è infondato.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la mancanza di motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame.

In tal caso, la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, nonchè dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., comma 2, ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione anche a fronte di un error in procedendo, quale la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, anche quando si tratti dell’implicito rigetto della domanda perchè erroneamente ritenuta assorbita, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto (Cass. S.U. n. 2731/2017).

Nel caso di specie la doglianza comporta la soluzione di un problema giuridico, inerente al principio secondo cui la natura di debito di valuta dell’indennità di espropriazione, non soggetta, a differenza dell’obbligazione risarcitoria, a rivalutazione monetaria automatica, non solo impone al titolare del bene di proporre la domanda di ristoro del maggior danno ai sensi dell’art. 1224 c.c., ma anche di allegarne le circostanze necessarie, fornendone la relativa prova (così espressamente Cass. n. 3738/2012 e, in generale sui debiti di valuta, da ultimo Cass. n. 14289/2018).

Ciò posto, i ricorrenti si limitano a riportare nel ricorso le conclusioni rassegnate nel giudizio di rinvio, assumono di essere operatori/investitori e di aver dato prova di fare usuale ed ordinario ricorso al credito bancario (pag. n. 24), ma non indicano come, dove e quando abbiano fornito dette allegazioni o prove nei giudizi di merito, sicchè non merita censura la statuizione implicita di rigetto, la cui motivazione, in diritto, consiste nella mancata allegazione delle circostanze suddette.

15. Con l’ottavo motivo denunciano “Error in procedendo: violazione o falsa applicazione delle norme di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in riferimento L. n. 2359 del 1865, art. 5; principi desumibili) – Omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (illegittimità dei cd. V.A.M. – disapplicazione del criterio del valore agricolo medio dichiarato incostituzionale)”. I ricorrenti lamentano che, in conseguenza della declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza della Consulta n. 181/2011, i cd. V.A.M. avrebbero dovuto essere disapplicati, come da domanda proposta dai ricorrenti nel giudizio di rinvio e sulla quale la Corte territoriale non si era pronunciata.

16. Il motivo è infondato.

La Corte territoriale ha applicato il criterio del valore venale del bene ablato nel determinarne la stima, e non ha applicato i V.A.M..

In disparte ogni considerazione sulla configurabilità della pretesa di “disapplicazione dei cd. V.A.M.” come capo autonomo della domanda, nella specie non ricorre il vizio di omessa pronuncia, atteso che dal percorso argomentativo della sentenza impugnata è dato, implicitamente ma univocamente, desumere la decisione assunta dal Giudice, che, peraltro, è stata di accoglimento di quella pretesa (cfr. tra le tante da ultimo Cass. 15255/2019 in tema di omessa pronuncia e rigetto implicito della domanda).

17. Con il nono motivo denunciano “Error in judicando: violazione o falsa applicazione delle norme di diritto (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in riferimento agli artt. 91 e 92 c.p.c.; principi desumibili) -Motivazione contraddittoria ed insufficiente su fatto controverso (compensazione delle spese di giudizio)”. I ricorrenti lamentano errata applicazione dell’art. 92 c.p.c., assumendo che il giudizio di rinvio sia stato instaurato dopo l’entrata in vigore della L. n. 69 del 2009. Dovendo pertanto applicarsi il nuovo testo del citato articolo, ad avviso dei ricorrenti non ricorrevano, nella specie, nè la reciproca soccombenza, nè le gravi ed ossia le uniche condizioni giustificative compensazione delle spese di lite.

18. Il motivo è infondato. Secondo la giurisprudenza di il giudizio di rinvio conseguente autonomia, non dà vita ad un nuovo procedimento, ma rappresenta una fase ulteriore di quello originario, da ritenersi unico ed unitario, sicchè tale giudizio, ove mutino le regole del processo, resta soggetto – se non diversamente previsto – alla legge processuale vigente al momento in cui venne introdotto il processo di primo grado.

Non trova dunque applicazione, nella specie, il testo novellato del citato art. 92, atteso che il processo di primo grado è stato introdotto nel 1991, e non ricorre il vizio denunciato.

19. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato.

20. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

21. Infine deve darsi atto che sussistono nella specie i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso per cassazione, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento in favore della parte controricorrente delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 7.200,00, di cui Euro 200 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge.

Dichiara che sussistono nella specie i presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso per cassazione, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 24 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2019

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