Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24936 del 25/11/2011

Cassazione civile sez. trib., 25/11/2011, (ud. 12/10/2011, dep. 25/11/2011), n.24936

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ALONZO Michele – Presidente –

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere –

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria G.C. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6058-2007 proposto da:

TECNOTRADING SPA in persona dell’Amministratore unico e legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE

PARIOLI 43, presso lo studio dell’avvocato D’AYALA VALVA FRANCESCO,

che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato DAMASCELLI

ANTONIO, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI BARI (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 102/2006 della COMM. TRIB. REG. di BARI,

depositata il 21/11/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/10/2011 dal Consigliere Dott. MARIA GIOVANNA C. SAMBITO;

udito per il ricorrente l’Avvocato DAMASCELLI, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato DE STEFANO, che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso in

subordine rigetto.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 102/1/06, la CTR della Puglia, confermando la decisione della CTP di Bari, ha rigettato il ricorso proposto dalla S.p.A. Tecnotrading, già Tecnoedil Europa S.p.A., avverso l’avviso di recupero del credito d’imposta L. n. 388 del 2000, ex art. 8, in relazione a due investimenti, effettuati negli anni 2001 e 2002. I giudici d’appello hanno ritenuto che gli acquisti non erano finalizzati ad alcuna specifica attività e comunque non a quella edilizia che, all’epoca, non rientrava nell’oggetto sociale, non aveva avuto inizio, nè era stata dichiarata all’ufficio IVA;

peraltro, la destinazione all’attività edilizia per entrambi gli investimenti era smentita dal fatto che la domanda di agevolazione era riferita a due distinte strutture produttive, sia pur localizzate nella stessa zona. La prima struttura, alla quale erano destinate anche delle macchine per la cucitura di pellami, risultava costituita – dopo la vendita del capannone industriale e della zona a verde e parcheggio, originariamente inclusi nell’investimento – da locali uffici con un’area pertinenziale scoperta, l’investimento era, perciò, privo del carattere di strumentalità sia per l’attività edilizia che per la lavorazione dei pellami, tanto che le macchine, rimaste inutilizzate, erano depositate altrove. Non era, poi, stato chiarito che tipo d’impiego strumentale nello svolgimento dell’attività edilizia avesse avuto il capannone industriale con area scoperta, acquisito in leasing ed oggetto del secondo investimento, nè era rimasto provato che la manodopera ed i costi di energia – che per la loro entità indicavano elementi di precarietà – si riferissero a tale investimento. La CTR ha aggiunto, comunque, che la contribuente aveva ceduto il ramo d’azienda relativo all’attività edile nel corso dell’anno 2004, con conseguente perdita della destinazione del bene, per la quale la contribuente affermava di aver chiesto l’agevolazione, in violazione della norma antielusiva di cui alla L. n. 388 del 2000, art. 8, comma 7.

Per la cassazione di tale sentenza, che ha affermato “ad abundantiam” l’illegittimità dei tempi di utilizzazione del credito d’imposta, ricorre la S.p.A. Tecnotrading in base a sei motivi, illustrati da memoria. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2328, 2380 bis e 2384 c.c., art. 2373 c.c., comma 1 e art. 2361 c.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, rileva che, nel negarle il beneficio dell’agevolazione L. n. 388 del 2000, ex art 8, la CTR ha avuto presente un concetto errato di oggetto sociale e lo ha, pure, confuso con la capacità giuridica delle società. La ricorrente afferma che gli atti che impegnano fondi in attività extra statutarie non sono nulli, non essendo tale sanzione comminata dal diritto positivo, sicchè anche a voler ritenere, come erroneamente ha fatto la CTR, gli investimenti estranei all’originario oggetto sociale (“Realizzazione di infrastrutture da destinare ad attività didattiche e di ricerca”), l’atto “non potrebbe essere affetto da nullità e/o inefficacia e, dunque, sfuggire alla disciplina agevolativa”. La ricorrente, che evidenzia come le società possano liberamente modificare l’oggetto sociale, e sottolinea che i giudici d’appello avrebbero dovuto dichiarare che le attività “effettivamente” svolte erano in linea con l’oggetto sociale e meritevoli del regime agevolativo fiscale, pone, a conclusione del motivo, il seguente quesito di diritto:

“Stabilisca la Suprema Corte, con riferimento alla fattispecie concreta, che, in relazione agli artt. 2328, 2380 bis e 2384, l’oggetto sociale statutario fissato sin dal suo momento genetico o successivamente modificato non può costituire un limite agli atti posti in essere dalla società in persona dei suoi amministratori nel suo momento funzionale e che gli investimenti effettuati dalla società possono ricondursi ad attività edilizia ed essere efficaci verso i terzi, ancorchè non espressamente e formalmente prevista detta attività nell’atto statutario”. La doglianza è inammissibile:

essa non è pertinente con la “ratio decidendi” della sentenza impugnata, che, lungi dall’affermare la nullità o l’inefficacia nei confronti dei terzi delle due acquisizioni della contribuente, perchè formalmente estranee all’oggetto sociale, ha argomentato, anche, da tale estraneità per affermare che gli investimenti non erano finalizzati “ad una specifica attività e comunque non all’attività edilizia” ed ha, dunque, escluso la ricorrenza dei presupposti per beneficiare delle agevolazioni. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, i motivi per i quali si richiede la cassazione devono presentare i caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata, e la proposizione di censure che non abbiano specifica attinenza al “decisum” della sentenza impugnata sono inammissibili (Cass. n. 17125 del 2007, che fa riferimento al paradigma normativo di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4). A tanto, va aggiunto che anche il quesito a conclusione del motivo, in sè assolutamente generico, non è correlato con la “ratio decidendi” della sentenza, ed è, perciò, del tutto inidoneo ad esprimere la rilevanza del motivo ai fini della decisione, con ulteriore profilo d’inammissibilità del motivo stesso, ex art 366 bis epe (v. tra molte altre, Cass. n. 7197 del 2009, nonchè SU n. 7257 del 2007 e SU n. 7433 del 2009).

Col secondo motivo, la ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione della L. n. 388 del 2000, art. 8, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostiene che tale norma separa il concetto di “nuovo investimento”, da intendersi come acquisizione di beni strumentali, da quello di “struttura produttiva”, già esistente o che venga impiantata nelle aree territoriali svantaggiate, cui i beni strumentali sono funzionalmente destinati. A tale stregua, la ricorrente afferma che la CTR è incorsa nella dedotta violazione laddove, ritenendo che gli uffici e l’area pertinenziale scoperta – residuati dalla vendita del capannone e della zona a parcheggio, inclusi nell’originario investimento – non erano in grado di assolvere ad una funzione produttiva, ha confuso “i requisiti propri delle strutture produttive (autonomia del ramo d’azienda o autonomia della diramazione territoriale) con quelli propri dei beni strumentali … assegnando a questi ultimi i requisiti dei primi”. A conclusione, la ricorrente sottopone il seguente quesito di diritto “Stabilisca la Suprema Corte, con riferimento alla fattispecie concreta, che le strutture produttive previste dalla L. 23 dicembre 2000, n. 388, art. 8, comma 2 non possono identificarsi con il bene strumentale oggetto dell’investimento che si vuole agevolare e che, attribuito alla struttura produttiva e non al bene il carattere di unitarietà, non sia configurabile nella fattispecie la perdita di autonomia dell’investimento”. Il motivo, riferito al solo primo investimento, è infondato. La L. n. 388 del 2000, art. 8, che reca la rubrica “agevolazioni per gli investimenti nelle aree svantaggiate”, collega l’attribuzione del beneficio, nella forma di credito d’imposta, alla effettuazione di nuovi investimenti nelle suddette aree, quali individuate dalla Commissione delle Comunità Europee, specificando che per nuovi investimenti “si intendono le acquisizioni di nuovi beni strumentali”. Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 1165/2010), che qui si condivide, la “ratio” di tale disposizione (come di altre che prevedono benefici collegati al requisito della “novità” di interventi in determinate aree, di cui si intende promuovere lo sviluppo) è quella di incentivare nei territori agevolati le iniziative che apportino crescita della produzione e sviluppo in campo economico, mediante la concessione del credito d’imposta per nuovi investimenti: la “novità” dell’investimento va, dunque, apprezzata in termini economici, e cioè in riferimento alla sua idoneità a promuovere lo sviluppo della zona interessata (cfr. in tema di esenzione dall’IRPEG, del D.P.R. n. 218 del 1978, ex art. 105, Cass. n. 2273 del 2004; n. 19510 del 2004; n. 4417 del 2005), ed il requisito della “strumentalità” del bene acquisito deve ritenersi integrato quando il bene stesso si inserisca in una struttura produttiva (già esistente o che venga impiantata) effettivamente operante nella zona svantaggiata, non solo al fine di imputarvi costi e ricavi, ma per realizzare, in quel territorio, l’oggetto stesso dell’attività di impresa (Cass., n. 3310 del 2009). Nell’escludere i presupposti per l’agevolazione, in relazione al primo investimento, la CTR non ha operato la asserita sovrapposizione tra “investimento” e “struttura produttiva” – le cui nozioni ha, al contrario, distinto nella ricostruzione dei presupposti dell’agevolazione – ma si è attenuta a tali principi, avendo evidenziato, da una parte, che l’investimento, costituito da locali uffici ed annessa area scoperta, era inidoneo, per tale sua entità, a realizzare l’oggetto dell’attività produttiva – sia edile che di lavorazione di pellami – e, dall’altra, che non era ravvisabile alcuna struttura produttiva dotata di autonomia gestionale e capace di “svolgere un’attività tesa alla realizzazione di un prodotto”, ritenendo dunque insussistente alcuna nuova iniziativa economica, idonea a promuovere lo sviluppo nella zona.

Col terzo motivo, la ricorrente denuncia l’insufficienza della motivazione della sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, rilevando, in relazione al primo investimento, (punto A1), che la conclusione, secondo cui i locali uffici e l’area scoperta, da soli e senza capannone, non potevano considerarsi strumentali alla struttura edile, identificata col cantiere per l’edificazione dell’albergo, era apodittica, e che tale risultato non era neppure sufficientemente retto dal fatto che, alla data dell’acquisto, l’attività edilizia non era compresa nell’oggetto sociale, nè era, ancora, avvenuta la relativa comunicazione agli uffici IVA. Rispetto al secondo investimento (punto A2), la motivazione è insufficiente, prosegue la ricorrente, perchè afferma che l’investimento non è funzionale alla struttura – ritenuta precaria per la cessazione del rapporto di lavoro delle nove unità lavorative addette e per l’esiguità dei costi di forza motrice, neppure corrispondenti al totale delle fatture esibite -, senza, tuttavia, nè esplicitare quale sia “il concetto di durevolezza della struttura”, nè tener conto che “la cessazione del rapporto di lavoro è avvenuta nel corso di ben due anni” nè che l’attività edile è “caratterizzata da ritmi operativi circoscritti nel tempo necessario alla costruzione del manufatto”, nè che i conti economici riguardano l’attività alberghiera e non l’investimento, al quale si riferiscono, invece, le fatture. Sotto altro profilo (punto B), la ricorrente sostiene che la nota integrativa al bilancio 2004 è stata valutata erroneamente dalla CTR, che ha ritenuto sussistente la violazione della norma antielusiva di cui alla L. n. 388 del 2000, art. 8, comma 7 – per esser mutata la struttura produttiva cui il capannone industriale era destinato -, omettendo di considerare che la cessione, contemplata nella nota, era riferita al ramo d’azienda, e non comprendeva, invece, il capannone stesso. In relazione ai tempi di utilizzazione del credito, la ricorrente evidenzia che la sentenza ha attribuito efficacia “ex tunc”, invece che “ex tunc”, alla rinuncia alle agevolazioni di cui alla L. n. 488 del 1992, senza illustrarne le ragioni. La contribuente sostiene, poi, che il richiamo alla finalità dell’agevolazione non è sufficiente per connotare il “concetto di precarietà o di durevolezza dell’attività”, e, pertanto, il “giudizio finale dei giudici appare più scontato e tralaticiamente appoggiato alla prassi che articolato”, rileva, ancora, che il dato della cessazione del rapporto di lavoro delle unità lavorative risulta utilizzato “senza integrare la fonte da cui (la sentenza) ha tratto questo convincimento”, aggiunge, inoltre, che “manca la valutazione della natura intrinseca dell’attività, che è edile”, destinata, in quanto tale, ad esaurirsi “con il completamento dei singoli lavori circoscritti in ambiti temporali ristretti”, rilevando, quindi, che, in tale prospettiva, la precarietà “è un elemento di valutazione non sufficiente a consolidare le conclusioni della sentenza sul punto e ne vizia il procedimento logico”.

Col quarto motivo, la ricorrente censura la motivazione per contraddittorietà, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, rilevando (punto B1) che l’attività edilizia da lei svolta non si esauriva nella costruzione del complesso alberghiero e che il valore strumentale del capannone rispetto a tale attività, desumibile mediante “un processo inferenziale abbastanza agevole”, era stato posto in dubbio in modo contraddittorio “in quanto la sentenza ha ammesso e negato allo stesso tempo l’attività edile e la funzione del capannone, pur avendo dato atto che l’attività edile nel cantiere di Castellaneta Marina era effettiva”. La ricorrente evidenzia, poi (punto B2), un insanabile “contrasto intorno al rilievo dei beni oggetto dell’investimento e, soprattutto, al ruolo dell’attività edilizia, disprezzata (in quanto ritenuta inesistente) per negare la funzionalità dell’investimento e valorizzata (in quanto utilizzata) per mettere in dubbio l’inerenza dei costi”, riproponendo, infine (punto B3), testualmente, l’ultima parte del punto B del terzo motivo (motivazione insufficiente sul concetto di precarietà o durevolezza dell’attività, e sulla valutazione della natura dell’attività stessa).

I motivi, che, attenendo entrambi al vizio di motivazione, vanno congiuntamente esaminati, sono inammissibili, perchè non corredati dalla formulazione del necessario momento di sintesi.

Infatti, questa Corte, alla stregua della stessa formulazione letterale dell’art. 366 bis c.p.c. – introdotto, con decorrenza dal 2 marzo 2006, dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6, ed abrogato, con decorrenza dal 4 luglio 2009, dalla L. n. 69 del 2009, art. 47, ma applicabile ai ricorsi proposti avverso le sentenze pubblicate tra il 3 marzo 2006 e il 14 luglio 2009, L. n. 69 del 2009, ex art. 58, comma 5, – ha, costantemente, affermato (cfr. Cass. SU. n. 20603 del 2007, ord. n. 4309 del 2008 e n. 27680 del 2009 sent. n. 11019 del 2011) che, a seguito della novella del 2006, nel caso previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e, cioè, quando si deduca un vizio di motivazione della sentenza, l’illustrazione del relativo motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza renda la motivazione inidonea a giustificare la decisione, nonchè della decisività del fatto, e cioè l’idoneità dello stesso, ove correttamente apprezzato, a ribaltare la decisione. Ciò importa che la relativa censura deve contenere un momento di sintesi, omologo del quesito di diritto, che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità. Al riguardo, è stato, ancora, precisato che non è sufficiente che tale fatto sia esposto nel corpo del motivo o che possa comprendersi dalla lettura di questo, atteso che è indispensabile che sia indicato in una parte del motivo stesso, che, pur senza rigidità formali, si presenti a ciò specificamente e riassuntivamente destinata. Nella specie, tale enunciazione è carente in entrambi i motivi e la relativa esposizione sarebbe stata tanto più necessaria, in quanto le insufficienze e le contraddittorietà, che la ricorrente imputa alla motivazione della sentenza, sopra succintamente riassunte, sono molteplici, involgendo tutti gli argomenti in base ai quali la CTR ha ritenuto insussistenti i presupposti per la fruizione del credito d’imposta con riferimento ad entrambi gli investimenti ed alle distinte strutture produttive cui gli stessi erano destinati, ed ha, inoltre, ritenuto violata la norma antielusiva di cui al comma 7 della disposizione agevolativa.

Col quinto motivo, la ricorrente deducendo violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, nn. 2, 3 e 4, artt. 112 e 156 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, afferma che i giudici d’appello sono incorsi in vizio di ultrapetizione, per aver rilevato la violazione della L. n. 388 del 2000, art. 8, comma 7, in relazione ad un fatto – destinazione del capannone a struttura produttiva diversa rispetto a quella dichiarata nel richiedere l’agevolazione – che non era contenuto nell’avviso di accertamento impugnato. Peraltro, ciò hanno fatto, prosegue la contribuente, senza esaminare nella sua complessità la nota integrativa al bilancio 2004, profilo che, a differenza da quello svolto nell’ambito del terzo motivo, relativo all’oggetto del giudizio, attiene alla “meccanica di acquisizione” e, dunque, all’attività processuale. A conclusione del motivo, la Società, che sottolinea, ancora una volta, come la cessione abbia riguardato il ramo d’azienda e non il capannone industriale, formula il seguente quesito: “Stabilisca la Suprema Corte che, in riferimento alla fattispecie concreta, in relazione agli artt. 112 e 156 c.p.c., costituisce pronuncia ultra petita quella in cui il giudice abbia definito la lite decidendo su una domanda non formulata dall’ente impositore nella motivazione dell’avviso di accertamento e che costituisce violazione delle norme relative all’attività processuale la mancata integrale lettura dei documenti forniti dalla parte”.

Il motivo è infondato.

Anzitutto, stabilire quale sia l’oggetto della cessione menzionata nella nota integrativa al bilancio 2004, è questione che attiene all’interpretazione del documento, ancorchè se ne invochi una lettura “integrale”, e tale valutazione è riservata al giudice del merito ed è censurabile in cassazione o per violazione dei canoni ermeneutici (in tesi, dell’art. 1363 c.c.) o per eventuali carenze o vizi logici della motivazione che sorregge il relativo accertamento, ma non anche sotto il profilo dell'”error in procedendo”, che risulta, perciò, dedotto in modo inconferente. Ad ogni modo, la ricorrente fa le mostre di ignorare che i giudici d’appello – argomentando dai dati riportati nella citata nota – hanno ritenuto che era stato ceduto il ramo d’azienda “Attività edile” (e non il capannone), e che, proprio su tale dato, hanno rilevato la violazione della norma antielusiva prevista nel secondo periodo della L. n. 388 del 2000, art. 8, comma 7, avendo constatato che, prima del decorso dei cinque anni dalla “presunta data di entrata in funzione”, il capannone (oggetto del secondo investimento) era stato destinato ad una struttura produttiva diversa da quella indicata dalla stessa contribuente, in quanto tale struttura (attività edilizia) era, appunto, stata ceduta. Il rilievo della connessa causa di decadenza non incorre, poi, nel vizio di ultrapetizione, dovendosi, nella specie, applicare il principio già espresso da questa Corte (Cass. n. 1605 del 2008, n. 14378 del 2009) secondo cui, in materia tributaria, la decadenza del contribuente dall’esercizio di un potere nei confronti dell’Amministrazione finanziaria, in quanto stabilita in favore di quest’ultima ed attinente a situazioni da questa non disponibili – perchè disciplinata da un regime legale non derogabile, rinunciabile o modificabile dalle parti -, è rilevabile anche d’ufficio salvo il caso, qui non ricorrente, che si sia già formato il giudicato interno sul punto (Cass. n. 791 del 2011).

Il sesto motivo (indicato, nuovamente, come quinto), con cui la ricorrente lamenta la violazione del D.P.R. n. 100 del 1998, art. 1, comma 1, in relazione alla L. n. 388 del 2000, art. 8, art. 132 c.p.c., art. 1 disp. gen., L. n. 212 del 2000, artt. 3 e 10 per avere la CTR erroneamente affermato l’illegittimità dei tempi della compensazione del credito d’imposta effettuate nei giorni 12 e 13 novembre 2002, risulta assorbito in conseguenza del rigetto dei motivi attinenti ai presupposti dell’agevolazione ed alla decadenza.

Nondimeno, va osservato che la CTR ha affermato che la compensazione è possibile solo in relazione all’intero mese di riferimento, esclusi i conguagli parziali, di tal che gli eventuali versamenti anticipati dovevano ritenersi effettuati in conto alla liquidazione definitiva. Tale “ratio decidendi” non è stata impugnata dalla ricorrente, che, anche in seno al quesito di diritto, si è riferita alla possibilità di anticipare il termine del versamento senza contestare nè la cadenza mensile della liquidazione periodica dell’IVA nè il divieto di conguagli parziali (la questione, su cui la ricorrente si è soffermata, relativa agli effetti del D.L. 12 novembre 2002, n. 253, entrato in vigore il successivo giorno 13, che ha sospeso la possibilità di compensazioni, costituisce una considerazione esposta “ad abundantiam” dalla CTR).

Il ricorso va, in definitiva, respinto e la ricorrente, soccombente, va condannata a pagare all’Agenzia controricorrente le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 10.000,00, oltre a spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 12 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 25 novembre 2011

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