Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24926 del 07/10/2019

Cassazione civile sez. VI, 07/10/2019, (ud. 03/05/2019, dep. 07/10/2019), n.24926

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14379-2018 proposto da:

M.A., M.L., rappresentate e difese

dall’avvocato MICHELE CIOLINO;

– ricorrenti –

contro

MA.LU., rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI

MA.;

P.S., rappresentato e difeso dall’avvocato SILVANO PIGATO;

– controricorrenti –

e contro

MO.GA., m.m., V.G.L.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 564/2018 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA,

depositata il 09/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

03/05/2019 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

M.A. e M.L. hanno proposto ricorso articolato in unico motivo (violazione e falsa applicazione della L. quadro n. 1 del 1990, recante la disciplina dell’attività professionale di estetista in relazione all’art. 2229 c.c.), avverso la sentenza 9 marzo 2018, n. 564/2018, resa dalla Corte d’Appello di Venezia. La Corte di Venezia, – pronunciando in sede di rinvio a seguito della sentenza di cassazione28 settembre 2016, n. 19212, in punto di opponibilità dei limiti regolamentari all’acquirente dell’immobile che li abbia accettati – ha dichiarato l’illegittimità della destinazione ad uso di solarium e centro estetico dell’unità immobiliare di proprietà di M.A. e M.L. e condotta in locazione dalla Playa de Oro s.r.l., compresa nel (OMISSIS), perchè in violazione del regolamento condominiale, che impone di adibire i locali degli appartamenti dei piani superiori al primo ad uffici o studi professionali. Ad avviso dei giudici di rinvio, la previsione del regolamento inerente a “uffici e studi professionali” si doveva intendere riferita alle professioni intellettuali di cui all’art. 2229 c.c. e ss., rendendo perciò illecita l’utilizzazione dell’appartamento per l’esercizio di un centro di estetica, in quanto attività commerciale.

Resistono con distinti controricorsi Ma.Lu. e P.S., mentre rimangono intimati, senza svolgere attività difensive, Mo.Ga., m.m. e V.G., già soci della Playa de Oro s.r.l. in liquidazione.

Le ricorrenti lamentano l’errore della Corte d’Appello per aver erroneamente escluso la natura professionale dell’attività di estetista, o meglio ancora, di solarium, svolta dalla Playa de Oro s.r.l., richiamando la legislazione in materia.

Su proposta del relatore, che riteneva che il ricorso potesse essere rigettato per manifesta infondatezza, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380-bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

I. Va premesso che deve escludersi la sussistenza di ragioni di incompatibilità, ai sensi dell’art. 51 c.p.c., n. 4, e art. 52 c.p.c., in relazione ai componenti del collegio che già avevano partecipato al precedente giudizio di legittimità conclusosi con la sentenza 28 settembre 2016, n. 19212, alla luce del principio acclarato da Cass. Sez. U, 25/10/2013, n. 24148.

II. Sono pervenute soltanto in data 29 aprile 2019, e quindi non nel rispetto del termine di cui all’art. 380 bis c.p.c., comma 2, memorie dei controricorrenti inviate a mezzo posta, rilevando la data della loro ricezione da parte della cancelleria, e non quella della spedizione (cfr. da ultimo Cass. Sez. 3, 27/11/2018, n. 30592).

III. Ancora, in via pregiudiziale, occorre evidenziare come la sentenza di cassazione 28 settembre 2016, n. 19212, evidenziò che il ricorrente Ma.Lu. non avesse prodotto l’avviso di ricevimento relativo alla notificazione del ricorso a mezzo del servizio postale eseguita, fra gli altri, a P.S., il che impediva di ritenere provata l’avvenuta instaurazione del contraddittorio nei confronti dello stesso intimato. Non di meno, la sentenza n. 19212 del 2016 considerò le cause scindibili e perciò escluse l’esigenza di ordinare la notificazione dell’impugnazione ai sensi dell’art. 332 c.p.c.. Al giudizio di rinvio svoltosi davanti alla Corte d’Appello di Venezia ha però partecipato anche P.S. (cui è stato ancora notificato il ricorso per cassazione ora in esame, e che ha resistito con controricorso). E’ noto, invero, che il giudizio di cassazione rende immodificabile la determinazione dei soggetti del rapporto processuale, e preclude in sede di rinvio l’instaurazione di un contraddittorio diversamente integrato (cfr. da ultimo Cass. Sez. 2, 04/03/2016, n. 4317). L’invalida partecipazione di P.S. al giudizio di rinvio davanti alla Corte d’Appello di Venezia non è stata tuttavia oggetto di specifico motivo di ricorso e, in ragione della preclusione derivante dal principio di cui all’art. 161 c.p.c., la questione rimane ormai sottratta ad ogni possibilità di rilievo in questa sede.

IV. E’ da ribadire come l’interpretazione delle clausole di un regolamento condominiale contrattuale, contenenti il divieto di destinare gli immobili a determinati usi (al fine di tutelare l’interesse generale al decoro, alla tranquillità ed all’abitabilità dell’intero edificio, nonchè ad incrementare il valore di scambio delle singole unità immobiliari) è sindacabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole legali di ermeneutica contrattuale, ovvero per l’omesso esame di fatto storico ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, (Cass. Sez. 2, 30/06/2011, n. 14460; Cass. Sez. 2, 31/07/2009, n. 17893; Cass. Sez. 2, 23/01/2007, n. 1406; Cass. Sez. 2, 14/07/2000, n. 9355; Cass. Sez. 2, 02/06/1999, n. 5393; più di recente, Cass. Sez. 6-2, 14/05/2018, n. 11609; Cass. Sez. 6-2, 21/06/2018, n. 16384).

Nella specie, l’interpretazione fatta dalla Corte d’Appello di Venezia del regolamento del (OMISSIS), che impone di adibire i locali degli appartamenti dei piani superiori al primo ad “uffici e studi professionali”, non rivela le denunciate violazioni dei canoni di ermeneutica.

La condivisa esigenza di chiarezza e di univocità che devono rivelare i divieti ed i limiti regolamentari di destinazione alle facoltà di godimento dei condomini sulle unità immobiliari in proprietà esclusiva, coerente con la loro natura di servitù reciproche, comporta che il contenuto e la portata di detti divieti e limiti vengano determinati fondandosi in primo luogo sulle espressioni letterali usate. L’art. 1362 c.c., del resto, allorchè nel comma 1, prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto, anzi intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (Cass. Sez. 3, 27/07/2001, n. 10290).

In particolare, l’interpretazione di una clausola del regolamento di condominio, contenente l’obbligo di destinare gli appartamenti dei piani superiori al primo ad “uffici e studi professionali”, secondo cui collide con esso l’esercizio in un’unità immobiliare dell’attività di estetista (solarium e centro estetico), non risulta nè contrastante con il significato lessicale delle espressioni adoperate nel testo negoziale, nè confliggente con l’intenzione comune dei condomini ricostruita dai giudici del merito, nè contraria a logica o incongrua, rimanendo comunque sottratta al sindacato di legittimità l’interpretazione degli atti di autonomia privata quando il ricorrente si limiti a criticare il risultato ermeneutico raggiunto dal giudice ed a lamentare che quella prescelta nella sentenza impugnata non sia l’unica interpretazione possibile, nè la migliore in astratto.

E’ invero plausibile concludere, come inteso dalla Corte di Venezia, che esuli dalla nozione di studio professionale (il cui esercizio è caratterizzato in maniera prevalente dall’attività personale del professionista, e non può essere equiparato ad un’azienda, considerata come complesso di beni organizzati per l’esercizio di un’impresa produttiva) l’attività di estetista, come disciplinata dalla L. 4 gennaio 1990, n. 1, svolgendosi la stessa con l’attuazione di tecniche manuali o con l’utilizzazione di apparecchi elettromeccanici, e con l’applicazione dei prodotti cosmetici, e rimanendone escluse le prestazioni aventi finalità di carattere terapeutico. Trattasi del resto di attività che per legge viene svolta “in forma di impresa, individuale o societaria”, e perciò impone l’iscrizione all’Albo delle imprese artigiane o nel Registro delle imprese (cfr. Cass. Sez. 3, 19/03/1997, n. 2421; nonchè, proprio per esercizi commerciali in cui si faccia uso di lampade abbronzanti, Cass. Sez. 3, 03/04/2000, n. 4012; Cass. Sez. 1, 17/03/2005, n. 5811,).

Del resto, neppure rileva decisivamente opporre in questa sede l’interpretazione più appropriata in ordine alla disciplina normativa dell’attività di estetista, ai fini della riconducibilità di essa al concetto di “studi professionali” contenuto nel regolamento del Condominio Pedavena, in quanto l’interpretazione delle disposizioni di legge (la cui erroneità è denunciabile per cassazione quale violazione o falsa applicazione di norme di diritto), regolata dall’art. 12 preleggi, assegnando un valore prioritario al dato letterale ed individuando, quale ulteriore elemento, l’intenzione del legislatore, costituisce un’operazione ontologicamente distinta dall’interpretazione contrattuale in senso stretto, avendo questa ad oggetto la determinazione della volontà dei contraenti ed essendo perciò riservata al giudice del merito (la cui decisione resta censurabile in sede di legittimità solo per violazione delle regole di ermeneutica o per vizi di motivazione).

V. Il ricorso va perciò rigettato e le ricorrenti vanno condannate in solido a rimborsare a ciascuno dei controricorrenti Ma.Lu. e P.S. le spese del giudizio di cassazione, mentre non deve provvedersi al riguardo per gli altri intimati, che non hanno svolto attività difensive.

Sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, – dell’obbligo di versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna le ricorrenti in solido a rimborsare ai controricorrenti Ma.Lu. e P.S. le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida per ciascuno di loro in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6 – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 3 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2019

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