Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24899 del 04/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 04/10/2019, (ud. 27/06/2019, dep. 04/10/2019), n.24899

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ANTONIO Enrica – Presidente –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – rel. Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29954/2015 proposto da:

B.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PASUBIO 15, presso

lo studio dell’avvocato CARLO TARDELLA, rappresentato e difeso

dall’avvocato CRISTINA FORMICONI;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, C.F.

(OMISSIS), in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro

tempore, in proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A.

Società di Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S. C.F. (OMISSIS),

elettivamente domiciliato in ROMA VIA CESARE BECCARIA 29 presso

l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli

avvocati ANTONINO SGROI, CARLA D’ALOISIO, EMANUELE DE ROSE, LELIO

MARITATO;

– controricorrente –

– ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 683/2015 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 22/10/2015 R.G.N. 855/2014.

Fatto

RILEVATO CHE:

1. il Tribunale di Grosseto accoglieva l’opposizione di B.L. avverso l’avviso di addebito INPS relativo ai contributi a percentuale omessi in relazione al maggior reddito accertato dall’Agenzia delle Entrate;

2. la Corte di appello di Firenze, con sentenza n. 638 del 2015, accoglieva il gravame dell’INPS e della S.C.C.I. e, per l’effetto, respingeva l’opposizione proposta da B.L.;

2.1. in estrema sintesi, a fondamento del decisum, la Corte territoriale, dopo aver respinto l’eccezione di inammissibilità dell’atto di appello, ha ritenuto dovuta la contribuzione sul maggior reddito, come definitivamente accertato a seguito della definizione agevolata D.L. n. 98 del 2011, ex art. 39, comma 12, che “determina la cessazione della materia del contendere nel giudizio di opposizione avverso l’avviso di accertamento tributario” ed escluso la possibilità di qualsiasi contestazione (del maggior reddito, appunto) anche ai fini della determinazione dell’entità dei contributi dovuti;

3. ha proposto ricorso per cassazione B.L. fondato su cinque motivi;

4. hanno resistito, con controricorso, contenente ricorso incidentale, l’INPS e la SCCI;

5. ha depositato memoria, ex art. 380 bis 1 c.p.c., B.L..

Diritto

CONSIDERATO CHE:

1. con il primo motivo del ricorso principale – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 – è dedotta nullità della sentenza per contraddittorietà della stessa;

1.1. si imputa alla pronuncia un’insanabile contraddizione tra le diverse parti, tale da non rendere identificabile la reale portata del provvedimento; si evidenza che l’apparato motivazione si apre con la locuzione “l’impugnazione va accolta” e si chiude con l’affermazione “l’infondatezza del gravame genera la soccombenza in ordine oltrechè alle spese del doppio grado (…) anche in punto di CTU”; nella parte dispositiva vengono, poi, erroneamente riportati gli estremi della sentenza impugnata, le generalità dell’appellato e si dà atto della sussistenza dei presupposti per “l’applicazione della L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17”;

1.2. il motivo è infondato;

1.3. effettivamente la sentenza impugnata contiene, in chiusura della parte motiva, un’affermazione che si pone in contrasto con la parte dispositiva;

1.4. essa, tuttavia, non incide sull’idoneità del provvedimento, considerato complessivamente nella totalità delle sue componenti testuali, a rendere conoscibile e comprensibile il percorso logico-giuridico della statuizione giudiziale che è chiaramente di accoglimento dell’appello proposto dall’INPS (con conseguente rigetto dell’originaria domanda proposta dal B.) sicchè l’errore compiuto non integra un vizio attinente alla portata concettuale e sostanziale della decisione, bensì un mero errore materiale, correggibile ai sensi dell’art. 287 c.p.c., esattamente come le sviste contenute in dispositivo e relative alla indicazione della sentenza impugnata, alle generalità dell’appellato ed alla (debenza) del contributo unificato;

2. con il secondo motivo del ricorso principale -ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c.;

2.1. si contesta la statuizione di rigetto dell’eccezione di inammissibilità dell’atto di appello che si assume, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di appello, essere mera riproposizione della memoria difensiva di primo grado;

2.2. il motivo si arresta ad un rilievo di inammissibilità;

2.3. la censura è formulata senza il rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6 e dall’art. 369 c.p.c., n. 4, che avrebbero imposto di fornire alla Corte gli elementi necessari per valutare l’ammissibilità del gravame proposto dall’INPS, riportando nel ricorso, quantomeno nelle parti essenziali, oltre che la motivazione della sentenza del Tribunale, i motivi con i quali la stessa era stata censurata dall’appellante;

3. con il terzo motivo del ricorso principale – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – è dedotta violazione dell’art. 2697 c.c., per aver la Corte territoriale omesso di valutare il profilo dell’onere di prova imposto all’ente previdenziale, anche a seguito dell’adesione all’agevolazione fiscale del D.L. n. 98 del 2011, ex art. 39, comma 12;

4. con il quarto motivo del ricorso principale – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – è dedotta violazione dell’art. 2909 c.c. e del D.L. n. 98 del 2011; secondo la parte ricorrente, poichè la richiesta dell’Ente previdenziale presuppone l’esistenza dell’atto amministrativo dell’Agenzia delle Entrate, essendo venuta a mancare l’originario provvedimento fiscale, per effetto della definizione della lite, l’INPS non avrebbe più avuto titolo ad esigere il pagamento dei maggiori contributi; in ogni caso, non avrebbe potuto fondare la pretesa su conteggi derivanti da valutazioni induttive di presunti maggior ricavi;

5. con il quinto motivo del ricorso principale – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – è dedotta violazione del D.L. n. 98 del 2011, art. 38 e della L. n. 289 del 2002, art. 16, nonchè dell’art. 23 Cost.; si assume una erronea interpretazione delle norme di cui in rubrica, avendo la Corte di appello attribuito alle stesse un contenuto precettivo diverso e più ampio di quello effettivo, anche in violazione del precetto costituzionale per il quale nessuna prestazione patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge;

6. i motivi terzo, quarto e quinto possono congiuntamente esaminarsi, ponendo, nel complesso, questione circa gli effetti della definizione concordata della lite tributaria sull’obbligazione contributiva previdenziale e dell’esito dell’accertamento da cui è derivata la maggiore pretesa contributiva;

6.1. la definizione ha ad oggetto esclusivamente, come recita il D.L. n. 98 del 2011, art. 39, comma 12, convertito, con modificazioni, in L. n. 111 del 2011, “le liti fiscali di valore non superiore a 20.000 Euro in cui è parte l’Agenzia delle entrate, pendenti alla data del 31 dicembre 2011 dinanzi alle commissioni tributarie o al giudice ordinario in ogni grado del giudizio e anche a seguito di rinvio” e si perfeziona “a domanda del soggetto che ha proposto l’atto introduttivo del giudizio, con il pagamento delle somme determinate ai sensi della L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 16”;

6.2. il tenore letterale delle norme in cui si inscrive l’istituto della definizione concordata delle lite fiscali (D.L. n. 98 del 2011, art. 39, comma 12 e della L. n. 289 del 2002, art. 16) e la finalità espressamente indicata dal legislatore nella rubrica dell’art. 39, recante “disposizioni in materia di riordino della giustizia tributaria”, inducono a ravvisare nella definizione agevolata delle liti tributarie l’esclusiva natura deflativa del contenzioso tributario – di valore inferiore a 20.000 Euro e già pendente alla data del 31 dicembre 2011 – allo scopo di liberare e concentrare le risorse dell’Agenzia delle Entrate sulla proficua e spedita gestione dei procedimenti di natura precontenziosa di cui dello stesso art. 39, comma 9, attraverso il pagamento di un importo percentualmente ridotto del tributo oggetto della lite;

6.3. invero alla deflazione del contenzioso previdenziale il D.L. n. 98, ha dedicato l’art. 38, nel quale fin dalla rubrica, recante “disposizioni in materia di contenzioso previdenziale e assistenziale”, è chiarito l’ambito applicativo e ribadito, nel periodo di apertura del comma 1, il fine di “deflazionare il contenzioso previdenziale” (D.L. n. 98 cit., art. 38, comma 1, primo periodo);

6.4. la definizione concordata non incide in alcun modo sul contenuto dell’atto di accertamento dell’Agenzia e non importa definitività, propriamente detta, dell’accertamento compiuto dall’Agenzia ai sensi del D.Lgs. n. 462 del 1997, art. 1, la cui efficacia, ai fini extrafiscali del calcolo dei contributi INPS a percentuale sul maggiore reddito, rimane impregiudicata;

6.5. ciò nondimeno, l’accertamento conserva valore probatorio che può essere resistito da prove di segno contrario senza che ciò incida sul riparto dell’onere probatorio;

6.6. questa Corte (v., fra le altre, Cass. n. 13463 del 2017 e n. 19640 del 2018) ha già avuto modo di affermare che tale accertamento costituisce, anche in riferimento all’obbligazione contributiva, un atto amministrativo di ricognizione dell’avveramento del fatto giuridicamente rilevante (id est: la produzione di un certo reddito da parte del lavoratore autonomo);

6.7. come, altresì, chiarito da questa Corte (v. Cass. n. 17769 del 2015), ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36-bis, è compito dell’Agenzia delle Entrate in sede di liquidazione delle imposte, contributi e premi dovuti in base alle dichiarazioni dei redditi, provvedere al controllo formale e sostanziale dei dati in esse contenuti; il D.Lgs. n. 462 del 1997, art. 1, emanato in attuazione della Legge Delega n. 662 del 1996, al fine di attuare l’unificazione dei criteri di determinazione delle basi imponibili fiscali e di queste con quelle contributive e delle relative procedure di liquidazione, riscossione, accertamento e contenzioso (L. n. 662 del 1996, art. 3 comma 134, lett. b)) ha disposto che: “Per la liquidazione, l’accertamento e la riscossione dei contributi e dei premi previdenziali ed assistenziali che (…)devono essere determinati nelle dichiarazioni dei redditi, si applicano le disposizioni previste in materia di imposte sui redditi”;

6.8. ciò significa che, a partire dalla dichiarazione 1999 (per i redditi 1998), l’Agenzia delle Entrate svolge un’attività di controllo, effettuando accertamenti formali e sostanziali sui dati denunciati dai contribuenti, richiedendo il pagamento dei contributi e premi omessi e/o evasi da trasmettere successivamente all’Inps e, in caso di mancato pagamento, l’Inps procede, sulla base dei dati forniti dalla Agenzia delle entrate, alla iscrizione a ruolo dei contributi totalmente o parzialmente insoluti (ai sensi del D.Lgs. n. 462 del 1997);

6.9. si è, dunque, in presenza di un sistema di accertamento, liquidazione e riscossione comune ai due rapporti, previdenziale e tributario, in cui gli atti di accertamento disposti dall’Agenzia delle entrate costituiscono atti di esercizio anche del rapporto previdenziale, rispondendo al fine di semplificare ed uniformare le procedure di iscrizione a ruolo delle somme a qualunque titolo dovute all’INPS, nonchè di assicurare l’unitarietà nella gestione operativa della riscossione coattiva di tutte le somme dovute all’Istituto (cfr. anche D.L. n. 70 del 2011, conv., con modificazioni, in L. n. 106 del 2011, art. 7, comma 2, lett. t);

6.10. del resto, già con Cass. n. 8379 del 2014, questa Corte aveva chiarito che, in materia di iscrizione a ruolo dei crediti degli enti previdenziali (D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 3), l’accertamento, cui la norma si riferisce, non è solo quello eseguito dall’ente previdenziale, ma anche quello operato da altro ufficio pubblico come l’Agenzia delle Entrate;

6.11. la giurisprudenza di questa Corte ha, inoltre, affermato, in ordine alla valenza probatoria degli accertamenti tributari (v., fra le tante, Cass. n. 14237 del 2017), che in tema di accertamento tributario relativo sia all’imposizione diretta che all’IVA, la legge – rispettivamente del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1 (richiamato dal successivo art. 4, per quanto riguarda la rettifica delle dichiarazioni di soggetti diversi dalle persone fisiche) ed D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 – dispone che l’inesistenza di passività dichiarate, nel primo caso, o le false indicazioni, nel secondo, possono essere desunte anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti;

6.12. in definitiva, dalla portata presuntiva dell’accertamento tributario si desume la necessità che lo stesso venga resistito da colui che intenda, invece, evitare il consolidamento dell’accertamento stesso (id est: dei fatti oggetto dell’accertamento stesso);

6.13. in mancanza di tale resistenza di segno negativo offerta dall’obbligato, evidentemente, l’atto di accertamento dovrà ritenersi idoneo a rendere definitivo l’avveramento del fatto nello stesso contenuto;

6.14. nel caso di specie, l’odierna parte ricorrente ha trascurato di specificare, in questa sede, le contestazioni mosse, nelle fasi di merito, avverso l’accertamento fiscale (cfr. pag. 10 ricorso in cassazione), limitandosi, nella sostanza, ad invocare a proprio favore la regola di riparto dell’onere probatorio, quale conseguenza della irrilevanza, ai fini contributivi, della definizione agevolata ai sensi del D.L. n. 98 del 2011, art. 39, comma 12; ne consegue che i fatti, oggetto dell’accertamento, devono ritenersi definitivi, con ogni consequenziale riflesso sull’obbligazione contributiva;

6.15. i motivi, pur correggendosi nei sensi di cui sopra la motivazione ai sensi dell’art. 384 c.p.c., vanno dunque rigettati;

7. con l’unico motivo del ricorso incidentale – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – è dedotta violazione e/o falsa applicazione degli artt. 287,288,429 e 437 c.p.c.; la parte controricorrente chiede procedersi alla correzione degli errori materiali riportati in sentenza;

7.1. il motivo è inammissibile;

7.2. ed invero, secondo il costante insegnamento di questa Corte, anche quando sia stato già proposto ricorso per cassazione avverso una sentenza viziata da errore materiale, l’istanza di correzione non può essere proposta dinanzi la Corte di legittimità, ma rivolta unicamente al giudice del merito (vedi ex plurimis, Cass. n. 4677 del 1998, Cass. n. 12409 del 1999, Cass. n. 158 del 2003), atteso che sul giudice di legittimità non può gravare una attività correttiva o integrativa estranea alla attività propria della Suprema Corte, e coerente con le competenze proprie del giudice di merito (vedi in motivazione, Cass. n. 16415 del 2018). Tale orientamento è confortato anche dagli approdi ai quali è pervenuto il Giudice delle leggi con la sentenza n. 335 del 2004 la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 287 c.p.c., limitatamente alle parole “contro le quali non sia stato proposto appello”, avvalorando ulteriormente la competenza esclusiva del giudice che ha emesso la sentenza a correggerne gli eventuali errori materiali (Cass., Ordinanza n. 5727 del 2015, Cass. n. 9968 del 2005; in motivazione, Cass. n. 8216 del 2019);

8. in conclusione, va respinto il ricorso principale e dichiarato inammissibile quello incidentale;

9. quanto alle spese del presente giudizio, la valutazione delle proporzioni della reciproca soccombenza ne giustifica la compensazione nella misura di 1/3; per il resto, le spese del giudizio di legittimità si pongono a carico della ricorrente principale e si liquidano come da dispositivo;

10. ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e dei ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, ex art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile il ricorso incidentale; condanna il ricorrente principale al pagamento delle spese del giudizio di legittimità nella misura di 2/3, liquidata in Euro 2000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e dei ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale, ex art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 27 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2019

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