Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24894 del 09/10/2018

Cassazione civile sez. II, 09/10/2018, (ud. 27/06/2018, dep. 09/10/2018), n.24894

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17737-2014 proposto da:

STELLA SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TAGLIAMENTO 55, presso lo

studio dell’avvocato NICOLA DI PIERRO, che lo rappresenta e difende

unitamente all’avvocato MARIA TERESA BORGATO PAGOTTO;

– ricorrente –

contro

SACCHERIA PIAVE SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIOSUE’ BORSI 4, presso lo

studio dell’avvocato FEDERICA SCAFARELLI, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato MASSIMO CARLIN;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2496/2013 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA;

dep. il 17/10/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

27/06/2018 dal Consigliere GIUSEPPE GRASSO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ALBERTO CELESTE che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato CARLIN Massimo difensore del resistente che ha

chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Per quel che è ancora di utilità, i fatti processuali salienti possono sintetizzarsi nei termini seguenti:

a) il Tribunale di Venezia, accolta la domanda della Saccheria Piave s.r.l., pronunziò sentenza ai sensi dell’art. 2932 c.c., nei confronti dell’immobiliare Marmolada s.r.l., che si era resa promittente alienante di una porzione di terreno sito in territorio di (OMISSIS);

b) la Corte d’appello di Venezia, investita dell’impugnazione della convenuta, la quale aveva prospettato la nullità del contratto per violazione di norma imperativa, dovendosi configurare l’ipotesi della lottizzazione abusiva negoziale, nonchè la consumazione del termine essenziale apposto al contratto, riformò la sentenza di primo grado, ritenendo essere rimasto violato il D.P.R. n. 380 del 2001, art. 30;

c) la Corte di cassazione, con la sentenza n. 1643/2009, cassò con rinvio la decisione d’appello, in particolare motivando nei termini seguenti: “(…) deve dirsi che il perimetro applicativo del T.U. edilizia del 2001, art. 30 può ricomprendere solo un’attività che non sia solo univocamente diretta alla deroga di prescrizioni urbanistiche che allora potrebbe trovare la sua sanzione anche nella sola disciplina attinente alle condizioni per il rilascio del permesso di costruire – ma che sia altresì idonea – per le forme negoziali scelte – ad incidere sull’assetto urbanistico. Essenziale dunque appare il concreto frazionamento negoziale che non può rinvenirsi nel mero scorporo di un appezzamento minore da uno maggiore, pur con la previsione del futuro – e sperato – inserimento nella urbanizzazione di cui era pendente l’approvazione – perchè la direzione della volontà a porre in essere una condotta potenzialmente lesiva (vendita di più lotti) deve essere indagata nelle sue manifestazioni concrete e soprattutto nel suo carattere univoco. Erra dunque il Giudice dell’appello allorchè interpreta l’area di applicazione della fattispecie astratta di cui all’art. 30 T. U. cit. attribuendole una tale latitudine applicativa da farvi rientrare la semplice promessa di vendere un appezzamento di terreno da scorporare da altro di dimensioni maggiori, pur nella previsione della destinazione edificatoria del lotto stesso, senza che ex actis fossero risultati altri clementi sintomatici della idoneità della vendita, che in esecuzione del preliminare fosse stata stipulata, ad incidere sull’assetto urbanistico del territorio nel senso diffusivo sopra delineato”;

d) la Corte di Venezia, decidendo in sede di rinvio, rigettato l’appello, trasferì, ai sensi dell’art. 2932 c.c., alla Saccheria Piave il cespite di cui detto, subordinando il verificarsi dell’effetto traslativo “alla prova dell’avvenuto pagamento (…) del saldo prezzo”.

Avverso la statuizione del Giudice del rinvio propone ricorso per cassazione la s.r.l. Stella, subentrata alla primigenia convenuta già in sede di rinvio, illustrando cinque motivi di doglianza.

La controparte resiste con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Con i primi due motivi, osmotici fra loro, la ricorrente denunzia violazione per errata applicazione del D.P.R. n. 380 del 2001, art. 30 art. 384 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4; nonchè violazione degli artt. 1346 e 1418 c.c.; nonchè omesso esame di un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Questi gli assunti censuratori:

a) la sentenza di rinvio non aveva fatta applicazione del principio di diritto enunciato nella sentenza cassatoria, escludendo la lottizzazione negoziale facendo riferimento semplicistico e inappagante alla circostanza che si era in presenza di una sola cessione, essendo rimasta disattesa, per contro, la ricerca e verifica degli indici rivelatori demandati dal Giudice della legittimità;

b) nella comparsa di risposta della Stella si era, in particolare, evidenziato che l’area era destinata ad insediamenti produttivi, che la porzione promessa in vendita era stata individuata quale superficie fondiaria (3.195 mq.), della quale “copribile” solo una parte (1.670 mq.), il lotto era stato dichiarato “edificabile a fini produttivi”, il prezzo teneva conto degli oneri di urbanizzazione su diverso sito, l’art. 11 del contratto faceva riferimento all’ipotesi di vendite di ulteriori stacchi a terzi, “compresi nella lottizzazione”, l’art. 12, regolava il sopravvenire di modifiche alla normativa urbanistica, l’art. 3 specificava che il terreno promesso in vendita, di mq. 3195 era “computato al netto dei vari standards suddetti i quali occupano il 36,18% della superficie territoriale e che verranno realizzati altrove nella lottizzazione”, l’art. 9 disponeva che “Saccheria Piave corrisponderà alla promittente venditrice… la quota proporzionale alla proprietà fondiaria oggi promessa in vendita delle opere di urbanizzazione necessarie per la lottizzazione”;

c) non costituiva corretto argomento assumere, come aveva fatto la sentenza gravata, che la prova dello scopo lottizzatorio perseguito per via negoziale si dovesse ricavare dalla intrapresa di opere materiali;

d) in assenza di lottizzazione la superficie fondiaria promessa in vendita non era determinabile, con le conseguenze di cui agli artt. 1346 e 1418 c.c..

1.1. La critica mossa con le due censure sopra sintetizzate è infondata.

1.1.1. Al contrario di quel che assume il ricorso la Corte d’appello risulta avere osservato il principio di diritto enunciato in sede di legittimità.

Alle pagg. 9 e 10 la sentenza di rinvio esclude la sussistenza d’indici univoci dello scopo di lottizzazione abusiva, attraverso l’elusione della normativa urbanistica: a) si trattava di un unico appezzamento di terreno; b) non risultava la vendita di altri stacchi; c) non si riscontravano altri elementi sintomatici; d) la destinazione urbanistica (zona D, destinata ad insediamenti industriali, turistici e commerciali) consentiva l’edificazione vincolata al piano; e) non emergeva la predisposizione di opere d’urbanizzazione funzionali ad una pluralità d’insediamenti.

Le considerazioni di cui al complesso censuratorio al vaglio, peraltro largamente aspecifiche in quanto evocanti atti e circostanze non conoscibili in questa sede, attribuiscono alla sentenza un percorso motivazionale diverso da quello reale. La predetta statuizione, infatti, non ricollega la lottizzazione “negoziale” o “indiziaria” alla prova del compimento di atti materiali, ma, restando nel perimetro del principio enunciato dalla sentenza cassatoria, ha escluso la sussistenza della ipotesi, sulla base dell’esame dei plurimi indici probatori sopra riportati, nessuno dei quali richiama la necessità di condotte materiali.

Nel resto la critica propone una lettura alternativa dei fatti di causa, che in questa sede non può trovare legittimazione.

1.1.2. Inammissibilmente, inoltre, al fine di sostenere l’indeterminatezza dell’oggetto e la violazione di norme imperative, la ricorrente evoca il contenuto del regolamento negoziale, non conoscibile da questa Corte.

Per la stessa ragione non è scrutinabile il dedotto omesso esame di fatti controversi e decisivi.

L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. In definitiva la norma in parola consente il ricorso solo in presenza di omissione della motivazione su un punto controverso e decisivo (dovendosi assimilare alla vera e propria omissione le ipotesi di “motivazione apparente”, di “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e di “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione) – S.U., n. 8053, 7/4/2014, Rv. 629830; S.U. n. 8054, 7/4/2014, Rv. 629833; Sez. 6-2, ord., n. 21257, 8/10/2014, Rv. 632914), omissione che qui non si rileva affatto, avendo la Corte territoriale preso in considerazione gli elementi salienti e significanti del fatto.

2. Con il terzo e il quarto motivo, anch’essi fra loro correlati, si allega violazione e falsa applicazione degli artt. 1457,1362,1366 e 1367 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3; nonchè, anche in questo caso, omesso esame di un fatto controverso e decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Questi gli assunti censuratori:

– non era condivisibile l’interpretazione della clausola negoziale n. 7, con la quale, a dispetto di quanto affermato dalla sentenza della Corte locale, era stato posto un termine avente natura essenziale per la stipula del contratto definitivo, ciò dovendosi trarre dal complessivo tenore della disposizione, la quale subordinava la validità di una eventuale proroga al previo accordo delle parti, anteriore alla scadenza del termine; se la Corte lagunare avesse applicato puntualmente le norme sulla ermeneutica del contratto, non fermandosi al significato letterale delle parole e assegnando alla pattuizione un senso, avrebbe dovuto concludere nel verso auspicato.

2.1. La prospettazione impugnatoria è manifestamene destituita di giuridico fondamento.

Anche in questo caso il ricorso richiama atti del processo, riportati per stralcio, che questa Corte non conosce.

In disparte deve, comunque, osservarsi che L’accertamento in ordine alla essenzialità del termine per l’adempimento, ex art. 1457 c.c., è riservato al giudice di merito e va condotto alla stregua delle espressioni adoperate dai contraenti e, soprattutto, della natura e dell’oggetto del contratto, di modo che risulti inequivocabilmente la volontà delle parti di ritenere perduta l’utilità economica del contratto con l’inutile decorso del termine medesimo, che non può essere desunta solo dall’uso dell’espressione “entro e non oltre”, riferita al tempo di esecuzione della prestazione, se non emerga, dall’oggetto del negozio o da specifiche indicazioni delle parti, che queste hanno inteso considerare perduta, decorso quel lasso di tempo, l’utilità prefissatasi (Sez. 3, n. 14426, 15/7/2016, Rv. 640579).

Qui, sulla base del contenuto dispositivo assegnato dalla ricorrente alla clausola n. 7 del contratto, le parti avrebbero disposto che l’eventuale proroga del termine ultimo per la stipula del contratto definitivo avrebbe dovuto essere concordata dalle parti stesse.

Da una tale previsione non può affatto trarsi il convincimento che i contraenti abbiano individuato un termine per l’adempimento, elasso il quale la prestazione sarebbe divenuta inutile. Nè la prevista necessità di un accordo di proroga imporrebbe l’opposta conclusione: il ritardo nell’adempimento, infatti, è foriero di responsabilità e, se del caso, di addebito di grave inadempimento (art. 1455 c.c.); conseguenze, queste, che la violazione del pattuito termine potrebbe importare e che, solo l’accordo di proroga sopravvenuto avrebbe eliso. Accordo che, per espressa volontà delle parti, non avrebbe potuto trarsi da fatti concludenti.

Ciò, come è evidente, non implica che il termine in esame debba valutarsi essenziale, ai sensi dell’art. 1457 c.c..

3. Con il quinto motivo la ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, “nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 96 c.p.c. in combinato disposto con l’art. 394 c.p.c.”; nonchè violazione o falsa applicazione degli artt. 2652 e 2659 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Questi gli assunti impugnatori:

a) aveva errato la Corte d’appello a giudicare tardiva la domanda di risarcimento danno per l’illegittima trascrizione della domanda giudiziale, in quanto una tale domanda era tempestivamente proponibile anche in sede di giudizio di legittimità;

b) parimenti errato doveva ritenersi il giudizio d’infondatezza, in quanto “il bene su cui è stata compiuta (la trascrizione) è stato individuato erroneamente”.

3.1. La doglianza è inammissibile.

Il preteso nocumento da trascrizione della domanda giudiziale si sarebbe consumato di già con la trascrizione della domanda, poi accolta dal Tribunale e, pertanto, la domanda di risarcimento ex art. 96 c.p.c., avrebbe dovuto essere avanzata alla Corte territoriale in sede d’appello e non di rinvio, appunto perchè il fatto lesivo prospettato era maturato al tempo e non successivamente, davanti ad altro giudice (perciò è inconferente il richiamo alla condivisa sentenza di questa Corte n. 20914/2011).

Questa Corte, poi, non può conoscere del dedotto errore materiale di trascrizione, a sua volta denunziato come foriero di pregiudizio, trattandosi di allegazione congetturale non verificabile in questa sede, in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, richiedendo il vaglio lo scrutinio dei documenti pertinenti.

4. Le spese legali debbono seguire la soccombenza e possono liquidarsi siccome in dispositivo, tenuto conto del valore e della qualità della causa, nonchè delle attività espletate.

5. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1,comma 17) applicabile ratione temporis (essendo stato il ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013), ricorrono i presupposti per il raddoppio del versamento del contributo unificato da parte della ricorrente, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 27 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2018

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