Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24891 del 15/09/2021

Cassazione civile sez. III, 15/09/2021, (ud. 28/01/2021, dep. 15/09/2021), n.24891

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 33568-2018 proposto da:

M.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL BABUINO

107, presso lo studio legale S. & PARTNERS, rappresentata e

difesa dagli Avvocati GIACOMO QUAGLIARELLA, e MARIO GERUNDO;

– ricorrente –

contro

BPER BANCA SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COLA DI

RIENZO, 149, presso lo studio dell’Avvocato ROCCO MACCARONE, che la

rappresenta e difende unitamente all’Avvocato GIORGIO GIUSTI;

– controricorrenti –

nonché contro

MA.LE.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 4065/2018 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 11/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

28/01/2021 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

PEPE ALESSANDRO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. M.S. ricorre, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 4065/18, dell’11 settembre 2018, della Corte di Appello di Milano, che – accogliendo il gravame esperito dalla società BPER BANCA S.p.a. (già Banca popolare dell’Emilia-Romagna società cooperativa, d’ora in poi, “BPER”) avverso l’ordinanza resa dal Tribunale di Milano il 21 febbraio 2017, ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c., che aveva dichiarato l’avvenuta prescrizione ex art. 2903 c.c. dell’azione revocatoria esperita dall’istituto di credito – ha escluso l’intervenuta prescrizione ed ha dichiarato l’inefficacia sia dell’atto del 7 ottobre 2010, col quale la M. e il di lei coniuge, Ma.Le., avevano costituito un fondo patrimoniale, conferendovi i beni di proprietà esclusiva del marito, sia dell’atto del 9 luglio 2013, col quale il Ma. aveva svincolato uno degli immobili conferiti nel fondo e l’aveva trasferito all’odierna ricorrente.

2. In punto di fatto, la M. riferisce di essere stata convenuta in giudizio, unitamente al Ma., affinché l’adito giudicante – individuato in origine nel Tribunale di Modena – pronunciasse l’inefficacia, ai sensi dell’art. 2901 c.c., degli atti di disposizione suddetti. Nella contumacia del Ma., il Tribunale modenese declinava, tuttavia, la propria competenza, tanto che il giudizio veniva riassunto da BPER innanzi al Tribunale di Milano, il quale accoglieva, però, la preliminare eccezione della Ma. di prescrizione dell’azione. Rilevava, infatti, che, sebbene il deposito del ricorso ex art. 702-bis c.p.c., presso la cancelleria del giudice, fosse avvenuto in data 28 settembre 2015, lo stesso – unitamente al pedissequo decreto di fissazione di udienza – era stato notificato solo in data 10 novembre 2015, e dunque oltre il quinquennio dal compimento dell’atto “revocando”, risalente al 7 ottobre 2005.

Esperito gravame dall’attrice soccombente, il giudice di appello l’accoglieva, rigettando – in riforma della sentenza impugnata – l’eccezione di prescrizione, sul rilievo che dovessero trovare applicazione, nella specie, i principi della “scissione” degli effetti della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio ex art. 2901 c.c., sanciti dalle Sezioni Unite di questa Corte (veniva richiamata, espressamente, Cass. Sez. Un., sent. 9 dicembre 2015, n. 24822).

In base ad essi, invero, rileverebbe, ai fini ed agli effetti dell’interruzione della prescrizione, il momento del deposito del ricorso presso il giudice adito, e non quello della notificazione dello stesso e del decreto di fissazione di udienza. Esclusa, dunque, l’applicazione dell’art. 2903 c.c., il secondo giudice ritenuti sussistenti i presupposti, oggettivo e soggettivo, della proposta “actio pauliana”, l’accoglieva.

3. Avverso la pronuncia della Corte ambrosiana ricorre per cassazione la M., sulla base – come detto – di due motivi.

3.1. Il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2903 e 2943 c.c.

Sottolinea la ricorrente come la prescrizione quinquennale dell’azione revocatoria, di cui all’art. 2903 c.c., decorra ai sensi dell’art. 2943 del medesimo codice – dalla “notificazione dell’atto con il quale si inizia un giudizio”, non potendo, dunque, rilevare, nel caso di specie, il momento dell’avvenuto deposito del ricorso in cancelleria. Sono citate, a sostegno di tale tesi, diverse pronunce di questa Corte, relative all’ipotesi di deposito – prima della scadenza del “dies ad quem” del termine prescrizionale – del ricorso ex art. 414 c.p.c., con successiva notifica dello stesso e del decreto di fissazione di udienza, però, dopo la scadenza di tale termine (in particolare, viene citata Cass. Sez. 6-3, ord. 15 febbraio 2017, n. 4034, Rv. 642840-01).

Ne’ in senso contrario, secondo la ricorrente potrebbe, invocarsi l’arresto delle Sezioni Unite richiamato nella sentenza impugnata. Difatti, esso estende alla decorrenza (anche) degli effetti sostanziali della notificazione il principio della “scissione” del suo momento perfezionativo, per il richiedente la notificazione e il destinatario della stessa, ma alla condizione che il diritto azionato non possa farsi valere se non con un atto processuale; ipotesi, questa, nella quale non può rientrare un caso – come quello presente – in cui l’attore aveva facoltà di scelta tra due diversi atti processuali, ovvero la citazione per l’ordinario processo di cognizione e il ricorso ex art. 702-bis. c.p.c.

3.2. Il secondo motivo – proposto, in via subordinata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2, oltre che nullità della sentenza per assenza di motivazione sulla condanna della Ma. alle spese di lite.

Difatti, l’esistenza del richiamato indirizzo giurisprudenziale avrebbe dovuto indurre il giudice di appello almeno a disporre la compensazione delle spese giudiziali, per “assoluta novità della questione trattata o mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti”, risultando, pertanto, la condanna comminata non solo viziata da errori di diritto (oltre che ingiusta e ingiustificata), ma pure priva di motivazione in relazione al mancato rilievo delle circostanze suddette.

4. Ha resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione la società BPER, chiedendone il rigetto.

5. E’ rimasto intimato il Ma..

6. Già fissata adunanza camerale della Sesta Sezione di questa Corte, per la discussione del presente ricorso, il collegio – dopo che le parti avevano entrambe presentato memoria, insistendo nelle rispettive argomentazioni (nonché richiamando la ricorrente Cass. Sez. 1, sent. 12 settembre 2019, n. 22827, Rv. 655301-01, secondo cui, in caso di azione revocatoria ordinaria mediante ricorso ex art. 702-bis c.p.c., il termine di prescrizione non è validamente interrotto dal solo deposito del ricorso nella cancelleria del giudice adito) disponeva, con ordinanza interlocutoria, lil rinvio a pubblica udienza, per il rilievo nomofilattico della questione.

7. La controricorrente ha presentato memoria ex art. 378 c.p.c., insistendo nelle proprie argomentazioni e richiamando diversi arresti della giurisprudenza di merito che reputano idoneo, ai fini dell’interruzione della prescrizione, il mero deposito del ricorso ex art. 702-bis c.p.c.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

8. Il ricorso va rigettato.

8.1. Il primo motivo, infatti, non è fondato.

8.1.1. Nel procedere al suo scrutinio, tuttavia, non si può prescindere dal considerare il recente arresto di questa Corte sopravvenuto rispetto alla pendenza del presente giudizio di legittimità, ma richiamato dalla ricorrente nella memoria già depositata ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., comma 2, che ha escluso l’idoneità del mero deposito(del ricorso ex art. 702-bis c.p.c. ad interrompere il corso della prescrizione di cui all’art. 2903 c.c. (si tratta, come detto, di Cass. Sez. 1, sent. 12 settembre 2019, n. 22827, Rv. 655301-01).

Orbene, gli argomenti posti a fondamento di tale decisione – dalle quali, per le ragioni di cui si dirà meglio di seguito, questo collegio intende, invece, discostarsi – possono essere così riassunti.

8.1.1.1. In primo luogo, viene valorizzato il dato letterale dell’art. 2943 c.c., che fa dipendere l’interruzione della prescrizione dalla “notificazione dell’atto con il quale si inizia un giudizio”, notificazione rispetto alla quale il deposito del ricorso si pone come adempimento certamente preliminare, ma in ogni caso destinato ad operare “a monte” del procedimento notificatorio, rimanendo, così, estraneo ad esso.

8.1.1.2. In secondo luogo, si esclude la necessità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma suddetta, sulla scorta di quanto affermato dalla Corte delle leggi nella sentenza con cui ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 112, comma 1, nella parte in cui non prevedeva che il termine triennale di prescrizione dell’azione, per conseguire le prestazioni assicurative da essa contemplate, fosse interrotto a far tempo dalla data del deposito del ricorso introduttivo della controversia, effettuato nella cancelleria dell’adito giudicante, e seguito dalla notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza di discussione (Corte Cost., sent. 21 maggio 1986, n. 129).

Difatti, quella norma, sebbene – fino all’intervento del giudice costituzionale – fosse stata “interpretata dalla prevalente giurisprudenza nel senso che il termine triennale di prescrizione in essa contemplato può essere interrotto solo dalla notificazione dell’atto con il quale si inizia il giudizio e non da ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore”, aveva rivelato profili di criticità sul piano costituzionale solo dopo l’introduzione del rito speciale lavoristico, giacché, fino a quando quel contenzioso poteva radicarsi con il rito ordinario “ben sarebbesi potuto replicare all’infortunato sul lavoro e all’affetto da malattia professionale che lasciasse trascorrere il triennio senza proporre domanda giudiziale: “chi è causa del suo mal pianga se stesso””; è stato, dunque, solo dopo l’avvento del “rito speciale del lavoro introdotto dalla L. 11 agosto 1973, n. 533” – e con la scelta legislativa di “separare l’implorati iudicis offici dalla vocatio in ius” e di “subordinare la notificazione al convenuto del ricorso introduttivo del giudizio alla prolazione del decreto pretorile di fissazione dell’udienza di discussione” – che si è venuta determinando la ragione che “vieta di addossare all’infortunato sul lavoro e all’affetto da malattia professionale i tempi della prolazione del decreto pretorile di fissazione dell’udienza di discussione, in difetto del quale non si può effettuare la vocatio in ius” (Corte Cost., sent. n. 129 del 1986, cit.).

Ciò premesso, pertanto, osserva l’arresto di questa Corte che qui si esamina, poiché l’azione revocatoria esercitata con l’instaurazione del processo sommario di cognizione non si pone come “l’unica via processuale percorribile, costituendo invece una via alternativa all’ordinaria introduzione del giudizio con atto di citazione”, questa circostanza impedirebbe ogni parallelismo con il caso oggetto della pronuncia della Corte costituzionale, visto che “proprio l’unicità della strada processuale percorribile mediante ricorso, conseguente alla riforma del rito del lavoro del 1973, ha costituito lo snodo centrale della pronuncia di illegittimità invocata” (nuovamente Cass. Sez. 1, sent. n. 22827 del 2019, cit.).

8.1.1.3. In terzo luogo, infine, la pronuncia di questa Corte che qui si riassume ha escluso che, ai fini dell’interruzione della prescrizione per effetto del mero deposito del ricorso ex art. 702-bis c.p.c., possa valorizzarsi Ila previsione di cui all’art. 39 c.p.c., comma 3, secondo cui – per i giudizi introdotti con ricorso – la litispendenza si determina con il deposito del ricorso stesso.

Difatti, si tratta di norma che “si riferisce espressamente al (solo) tema della prevenzione dei giudizi”, sicché essa “ha contenuto ed effetti meramente processuali e, dunque, non è rilevante in tema di prescrizione alla quale conseguono effetti sostanziali” (così, nuovamente, Cass. Sez. 1, sent. n. 22827 del 2019, cit.).

8.1.2. Ritiene, tuttavia, questo collegio di doversi discostare da tale precedente, per le ragioni di seguito indicate.

8.1.2.1. Innanzitutto, deve osservarsi che, sebbene l’art. 2943 c.c. dia rilievo, “letteralmente”, alla “notificazione dell’atto con il quale si inizia un giudizio”, tale formula deve essere intesa – anche in ragione della necessità di assicurare, come si dirà, un’interpretazione della norma che faccia salvo il diritto all’effettività della tutela giurisdizionale – come sostanzialmente corrispondente al binomio proposizione della domanda/pendenza del giudizio.

Invero, in tale prospettiva, alcuni elementi possono essere già tratti, sul piano della ricostruzione storica, dalla stessa relazione illustrativa del Ministro Guardasigilli al Re sul vigente codice civile, laddove si afferma (p. 1203) che la scelta compiuta dai codificatori consistette, tra l’altro, nell’avere “conservato efficacia interruttiva della prescrizione (…) all’atto col quale sia pure il giudice adito incompetente – s’inizia un giudizio”. I codificatori del 1942, in altri termini, intesero valorizzare questo collegamento, appunto, con la pendenza del giudizio, facendo di tale scelta lo strumento grazie al quale, con “maggiore chiarezza e con più razionale criterio”, si “sono nel nuovo codice disciplinati gli effetti dell’interruzione della prescrizione” (p. 1204).

Corrobora questa prospettiva, del resto, la constatazione che nell’impianto originario del codice di rito civile (come delineato nel 1940), al modello del processo ordinario di cognizione – caratterizzato, quanto alle modalità della sua instaurazione, dalla notificazione dell’atto di citazione – non si contrapponeva quella eterogenea pluralità di riti speciali ai quali ha dato vita, negli anni a seguire, il legislatore, sicché la notificazione dell’atto con cui si esso veniva introdotto costituiva la modalità con cui, “naturaliter”, risultava proposta la domanda e determinata la pendenza del giudizio. Se ne evince, dunque, che la locuzione “notificazione dell’atto introduttivo del giudizio” deve essere intesa alla stregua quasi di una sineddoche di quella “pendenza del giudizio”.

In altri termini, già negli intenti dei codificatori del 1942, era la proposizione della domanda (più che la modalità con cui essa viene portata conoscenza della controparte), nonché la conseguente pendenza del giudizio, a porsi come “baricentro” della disciplina degli effetti interruttivi della prescrizione, come confermato, oltre che dalla già ricordata scelta del legislatore di rendere irrilevante il difetto di competenza del giudice adito (art. 2943 c.p.c., comma 3), anche dalla previsione dell’art. 2945 medesimo codice, comma 3 norma concernente l’ipotesi in cui “il processo si estingua” e che “anche in questo caso – con notevole divario dal codice del 1865 che negava efficacia interruttiva alla domanda se il processo si fosse estinto per perenzione (art. 2128, 3 cpv) – conserva efficacia interruttiva all’atto con cui il giudizio è stato iniziato e alla domanda che nel corso del giudizio è stata proposta, arrestando però l’effetto interruttivo alla data dell’atto o della domanda” (p. 1204).

8.1.2.2. In questa prospettiva, dunque, che valorizza il collegamento tra la proposizione della domanda e l’interruzione della prescrizione, deve riconsiderarsi – secondo questo collegio – la già illustrata affermazione compiuta dalla giurisprudenza di legittimità (il riferimento e’, nuovamente, a Cass. Sez. 1, sent. n. 22827 del 2019, cit.) che nega rilievo, ai fini dell’effetto interruttivo del termine prescrizionale, alla disciplina della litispendenza, di cui all’art. 39 c.p.c., comma 3.

Difatti, è principio consolidato nel rito del lavoro – che al pari del processo sommario di cognizione risulta instaurato con ricorso, sebbene per quello ex art. 702-bis c.p.c. manchi una specifica norma che assegni al giudice un termine, ancorché di natura solo ordinatoria, per la fissazione dell’udienza di trattazione (essendo, dunque, il ricorrente, quanto alla tempistica della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, molto più esposto al rischio che i carichi di lavoro dei singoli uffici giudiziari, se non dei singoli magistrati, condizionino la tempestività di tale adempimento) – quello secondo cui “per individuare, ai fini della litispendenza (e della continenza) il giudice preventivamente adito, deve farsi riferimento al deposito del ricorso presso la cancelleria”. E’, infatti, “in tale momento, con l’adizione del giudice”, che si realizza “l’instaurazione del rapporto fra due dei tre soggetti fra i quali si svolge il processo”, e non con la “successiva notificazione del ricorso medesimo con in calce il decreto di fissazione dell’udienza, secondo il criterio dell’art. 39 c.p.c., comma 3 la cui applicazione comporta la dipendenza dal giudice (ed in particolare dalla tempestività o meno dell’emanazione del decreto di fissazione dell’udienza ai sensi dell’art. 415 c.p.c., comma 2) della possibilità per il ricorrente di notificare l’atto introduttivo del giudizio e di determinare la pendenza della lite ai sensi del citato art. 39″ (cfr. Cass. Sez. Lav., sent. 10 marzo 1990, n. 1945, Rv. 465810-01; in senso analogo Cass. Sez. Lav., sent. 17 marzo 1992, n. 3271, Rv. 476303-01; Cass. Sez. Un., sent. 16 aprile 1992, n. 4676, Rv. 476841-01; cfr. anche Cass. Sez. 6-Lav., ord. 10 novembre 2016, n. 22947, Rv. 641508-01 che conferisce rilievo alla data di fissazione dell’udienza di discussione, in caso di ricorsi depositati nello stesso giorno, ed in assenza di prova della data di notifica degli atti introduttivi).

Da quanto precede, dunque, emerge che – così come ai fini dell’individuazione del giudice previamente adito si attribuisce rilievo al fatto dell’instaurazione, mediante il solo deposito del ricorso, di quell’actus trium personarum” (sebbene ancora limitato ai soli attore e giudice) in cui si sostanzia il rapporto giuridico processuale – ad esso non può negarsi carattere espressivo della volontà, in chi agisce il giudizio, di dare impulso al processo anche per interrompere quella condizione di inerzia che, protraendosi per il tempo di volta in volta stabilito dalla legge, dà luogo al fenomeno della prescrizione del diritto.

D’altra parte, già in passato, questa Corte, chiamata a decidere, in materia di revocatoria fallimentare, di una censura che assumeva aver “errato la pronuncia” impugnata “nel considerare interrotta la prescrizione dell’azione sin dal deposito” di “due ricorsi in cautelare” (segnatamente, per sequestro giudiziale), ebbe a respingere tale doglianza. Esito al quale, in particolare, essa pervenne sottolineando come, ai fini dell’interruzione della prescrizione conseguente all’esercizio del diritto potestativo oggetto dell’azione revocatoria, ciò che rileva – in uno con “la tipicità dell’atto giudiziale, cioè il ricorso ad atti specificamente enumerati, quali l’atto introduttivo del giudizio ovvero la domanda proposta nel suo corso” – è la circostanza che sia “palese l’intento della parte di avvalersi del citato diritto potestativo mediante una domanda rivolta all’autorità giudiziaria e, si aggiunge, chiara la percezione di tale iniziativa in capo alla controparte” (così, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 26 luglio 2012, n. 13302, Rv. 623392-01).

In quest’ottica, pertanto, ancora una volta non può negarsi che anche il mero deposito del ricorso ex art. 702-bis c.p.c. renda “palese l’intento della parte” di avvalersi del diritto di cui all’art. 2901 c.c.

8.1.2.3. Un’ulteriore conferma, poi, della necessità di optare per l’interpretazione che reputa idoneo il semplice deposito del ricorso – ai fini dell’interruzione della prescrizione dell’azione revocatoria che sia esercitata instaurando un processo sommario di cognizione – è offerto dalla pronuncia delle Sezioni Unite richiamata nella sentenza oggi impugnata (Cass. Sez. Un., sent. 9 dicembre 2015, n. 24822, Rv. 637603-01).

Non osta, invero, a tale conclusione il rilievo che tale decisione ebbe ad affrontare soltanto il tema dell’efficacia esclusivamente processuale, ovvero anche sostanziale – della “scissione”, per il richiedente la notifica ed il destinatario della stessa, dei termini di notificazione della domanda ex art. 2901 c.c., pronunciandosi, pertanto, con riferimento ad un’ipotesi in cui il procedimento notificatorio risultava, comunque, già avviato. In altre parole, ciò che le Sezioni Unite furono chiamate allora a stabilire era se, ai fini della produzione dell’effetto interruttivo della prescrizione di un’azione costitutiva necessaria, qual è quella di cui all’art. 2901 c.c., dovesse rilevare il momento di inizio, o piuttosto quello di conclusione del procedimento notificatorio, optando esse per la prima di tali soluzioni.

Tuttavia, la non sovrapponibilità della questione allora trattata, rispetto a quella oggi in esame, non esclude che la ragione giustificativa, posta da quella pronuncia alla base della decisione adottata, possa in ogni caso contribuire pure alla definizione del presente giudizio.

Difatti, come nel caso deciso dalle Sezioni Unite, anche nell’ipotesi che oggi occupa, nel bilanciamento “tra la perdita definitiva del diritto per una parte e un lucro indebito per l’altra parte” (perdita e lucro, ambedue, dipendenti dal comportamento di un terzo, ovvero del giudice adito nel disporre la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione di udienza), va privilegiata la soluzione che eviti di “allocare la perdita sulla parte incolpevole e allocare il guadagno sulla parte immeritevole”. Evenienza, questa, che si verificherebbe se, manifestato dall’attore l’intento di radicare il processo con il deposito del ricorso ex art. 702-bis c.p.c., la sua concreta instaurazione, e con essa l’effetto interruttivo della prescrizione (e quindi l’eventuale estinzione del diritto azionato) restasse, per così dire, “in balia” del perfezionamento di un adempimento – la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione d’udienza – che costui non è in grado, in alcun modo, di controllare.

Affermare il contrario, del resto, come si accennava nelle premesse del presente ragionamento, equivarrebbe a recare un “vulnus” al diritto all’effettività della tutela giurisdizionale, sancito dall’art. 6 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, norma che, se non esclude in senso assoluto la possibilità che siano imposti limiti all’accesso ai tribunali, esige, tuttavia, che tali limiti perseguano uno scopo legittimo e che sussista un ragionevole rapporto di proporzionalità tra i mezzi impiegati e lo scopo perseguito (cfr. Corte EDU, sent. 28 marzo 2006, Melnyk vs. Ukraine; Corte EDU, Grande Camera, sent. 29 giugno 2011, Sabeh El Leil vs. France; Corte EDU, sent. 4 febbraio 2014, Mottola e altri vs. Italia; Corte EDU, Grande Camera, sent. 5 aprile 2018, Zubac vs. Croatia).

8.1.2.4. Infine, neppure convince l’argomento invocato dal già segnalato arresto di questa Corte (si tratta, ancora una volta, di Cass. Sez. 1, sent. n. 22827 del 2019, cit.) che fa leva sulla sentenza n. 129 del 1986 della Corte costituzionale.

Difatti, è vero che la pronuncia della Corte delle leggi muoveva dal presupposto che la previsione di cui al D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 112, comma 1, fosse, a quei tempi, “interpretata dalla prevalente giurisprudenza nel senso che il termine triennale di prescrizione in essa contemplato può (recte: poteva) essere interrotto solo dalla notificazione dell’atto con il quale si inizia il giudizio e non da ogni altro atto che valga a costituire in mora il debitore”. Tuttavia, la giurisprudenza successiva di questa Corte, anche a Sezioni Unite, ha affermato il diverso principio secondo cui “la prescrizione delle azioni per conseguire le prestazioni dell’Inail di cui al D.P.R. n. 1124 del 1965, art. 112 può legittimamente essere interrotta, secondo le norme del codice civile, non solo con la proposizione dell’azione in giudizio, ma anche con atti stragiudiziali, senza che l’efficacia sospensiva della prescrizione medesima (prevista dall’art. 111, comma 2 citato decreto) escluda l’efficacia interruttiva, che permane fino alla definizione del procedimento amministrativo di liquidazione” (Cass. Sez. Un., sent. 16 novembre 1999, n. 783, Rv. 53114501). Di conseguenza, rispetto a tali azioni, il principio dell’interruzione della prescrizione conseguente al mero deposito del ricorso – e non alla notifica dello stesso e del decreto di fissazione di udienza – opera, ormai, in un contesto in cui, a differenza di quanto accade per l’azione revocatoria (che e’, e resta, azione costitutiva necessaria), l’interruzione può farsi valere anche in via stragiudiziale.

Siffatta evenienza, dunque, impedisce ormai ogni raffronto tra il caso che qui occupa e quello deciso dalla Corte costituzionale.

8.1.3. In conclusione, il primo motivo di ricorso va rigettato.

8.2. Anche il secondo motivo di ricorso – relativo alle spese di lite – risulta non fondato.

8.2.1. Quanto, infatti, alla censura di violazione di legge, va data continuità al principio secondo cui in “tema di spese processuali, il sindacato della Corte di cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) è limitato ad accertare che non risulti violato il principio secondo il quale le stesse non possono essere poste a carico della parte totalmente vittoriosa, per cui vi esula, rientrando nel potere discrezionale del giudice di merito, la valutazione dell’opportunità di compensarle in tutto o in parte, sia nell’ipotesi di soccombenza reciproca che in quella di concorso di altri giusti motivi” (da ultimo, Cass. Sez. 6-3, ord. 17 ottobre 2017, n. 24502, Rv. 646335-01; nello stesso senso anche Cass. Sez. 1, ord. 4 agosto 2017, n. 19613, Rv. 645187-01).

Analogamente, in merito al supposto difetto di motivazione, va ribadito che proprio perché la facoltà di disporre la compensazione, tra le parti, delle spese di lite “rientra nel potere discrezionale del giudice di merito”, esso “non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione” (Cass. Sez. 6-3, ord. 26 aprile 2019, n. 11329, Rv. 653610-01).

9. In conclusione, il ricorso va rigettato.

10. In ordine alle spese del presente giudizio di legittimità, l’esistenza di orientamenti non univoci – anche nella giurisprudenza di questa Corte – in ordine alla questione affrontata costituisce “giusto motivo” per la loro interale compensazione.

Infatti, trova qui applicazione, “ratione temporis” (risalendo al 28 settembre 2015 la pendenza del primo grado di giudizio), il testo dell’art. 92 c.p.c., comma 2, come sostituito dal D.L. 12 settembre 2014, n. 132, art. 13, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 10 novembre 2014, n. 162, dichiarato, come noto, costituzionalmente illegittimo (Corte Cost., sent. 19 aprile 2018, n. 77) nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni, oltre quelle contemplate dal testo della norma, ovvero l’assoluta novità della questione trattata o il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti.

Orbene, nel caso di specie, è proprio l’assenza di indirizzi giurisprudenziali univoci sulla questione oggetto del presente giudizio, ad integrare tale “analoga” ragione, grave ed eccezionale.

11. In ragione del rigetto del ricorso, a carico della ricorrente sussiste l’obbligo di versare, se dovuto, l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso, compensando integralmente tra le parti le spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente, se dovuto, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, all’esito di pubblica udienza della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, svoltasi – in forma camerale, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis, convertito in L. 18 dicembre 2020, n. 176 -, il 28 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 settembre 2021

 

 

 

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