Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24883 del 06/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 06/11/2020, (ud. 09/07/2020, dep. 06/11/2020), n.24883

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO M. G. – rel. Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al numero 18504 del ruolo generale dell’anno

2014, proposto da:

M.S., titolare dell’omonima ditta individuale,

rappresentato e difeso, giusta procura speciale in calce al ricorso,

dall’avv.to Salvatore Papa, elettivamente domiciliato presso lo

studio dell’Avv.to Domenico Siciliano, in Roma, Via Antonio Gramsci

n. 14;

– ricorrente –

Contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore,

domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura

Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale della Sicilia, sezione staccata di Caltanissetta, n.

76/21/2014, depositata il 13 gennaio 2014, non notificata;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 9

luglio 2020 dal Relatore Cons. Putaturo Donati Viscido di Nocera

Maria Giulia.

 

Fatto

RILEVATO

che:

– con sentenza n. 76/21/2014, depositata il 13 gennaio 2014, non notificata, la Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Caltanissetta, rigettava l’appello proposto da M.S., titolare della omonima ditta individuale, nei confronti dell’Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, avverso la sentenza n. 440/01/2012 della Commissione tributaria provinciale di Enna che, previa riunione, aveva rigettato i ricorsi proposti dal contribuente avverso gli avvisi di accertamento n. (OMISSIS) con i quali l’Ufficio, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, commi 2, lett. d) e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, aveva contestato nei confronti di quest’ultimo, quale titolare della ditta individuale omonima, per gli anni 2006-2008, maggiori ricavi non dichiarati ai fini Irpef, Irap e Iva, in ragione della rilevata anomalia della contabilità del magazzino, le cui rimanenze di inventario, contabilizzate senza la dovuta differenziazione per categorie omogenee, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 15, comma 2, avevano evidenziato una “rilevante discontinuità” tra quanto risultante dai bilanci di chiusura e quanto indicato quali rimanenze iniziali negli anni successivi;

– in punto di fatto, il giudice di appello ha premesso che: 1) avverso gli avvisi di accertamento n. (OMISSIS) con i quali l’Ufficio, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, commi 2, lett. d) e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, aveva ripreso a tassazione nei confronti di M.S., quale titolare della ditta individuale omonima, per gli anni 2006-2008, maggiori ricavi non dichiarati, stante la emersa discontinuità nei valori delle rimanenze di inventario contabilizzate ad inizio anno rispetto alle esistenze finali degli anni precedenti, il contribuente aveva proposto ricorso alla CTP di Enna che con sentenza n. 440/1/12, previa riunione, li aveva rigettati disattendendo sia l’eccezione di violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7 – essendo stati gli avvisi di accertamento notificati dopo il decorso del termine di sessanta giorni dalla chiusura delle operazioni di verifica – sia la censura relativa al difetto di motivazione degli atti medesimi; 2) avverso la sentenza della CTP, il contribuente aveva proposto appello reiterando i motivi di censura articolati in primo grado; 3) aveva controdedotto l’Ufficio chiedendo la conferma della sentenza di primo grado;

– in punto di diritto, la CTR, per quanto di interesse, ha affermato che: 1) l’accertamento induttivo dell’Ufficio D.P.R. n. 600 del 1973 ex art. 39, comma 2, lett. d) – con ricostruzione del valore della merce presumibilmente venduta in evasione di imposta, applicando una percentuale di ricarico minima e riconoscendo le voci di spesa relative alla realizzazione dei prodotti- aveva avuto origine dalla rilevata “discontinuità tra i valori delle rimanenze di inventario contabilizzate a inizio anno e le esistenti finali degli anni precedenti”, il che aveva legittimato l’approfondimento istruttorio da parte dell’Ufficio e la richiesta di chiarimenti circa il prospetto analitico delle rimanenze, alla quale il contribuente non aveva dato corso; 2) il contribuente non aveva fornito adeguate giustificazioni in sede giurisdizionale e anche la documentazione prodotta in sede di gravame in ordine all’avvenuta spedizione al macero, nel 2013, di capi di biancheria dichiarati “invendibili” confermava indirettamente la validità della presunzione dell’Ufficio di vendite non contabilizzate negli anni di imposta in questione, non potendo in ogni caso, avallarsi una affermazione del contribuente “fatta ora per allora” circa l’oggettiva inidoneità al commercio di una merce mai esibita la momento del controllo fiscale;

– avverso la sentenza della CTR, il contribuente propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, cui resiste, con controricorso, l’Agenzia delle entrate;

– il ricorso è stato fissato in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2, e dell’art. 380-bis.1 c.p.c., introdotti dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Diritto

CONSIDERATO

che:

– in data 3 luglio 2020 si tiene l’adunanza camerale nell’aula d’udienza della sezione V civile del palazzo della Corte di Cassazione alla presenza dei magistrati pres. del collegio Giacinto Bisogni, cons. Enrico Manzon, cons. Salvatore Saija e con la presenza in collegamento remoto attraverso la piattaforma Microsoft Teams individuata con D.Dirig. adottato ai sensi del D.L. n. 18 del 2020, art. 83, convertito in L. n. 24 del 2020 dal direttore generale per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia e pubblicato sul portale dei servizi telematici in data 20 marzo 2020 – dei magistrati cons. Giacomo Maria Nonno e cons. Maria Giulia Putaturo Donati Viscido Di Nocera, ai quali è assicurata la disponibilità agli atti attraverso la medesima piattaforma;

– con il primo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, in combinato disposto con l’art. 111 Cost., comma 6, per avere la CTR omesso qualsiasi motivazione in ordine al motivo di appello con cui il contribuente aveva dedotto la violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, per essere stati gli avvisi di accertamento notificati prima del decorso del termine dilatorio di sessanta giorni dalla comunicazione del p.v. di chiusura delle operazioni istruttorie – che nella specie era stata omessa- senza esplicitare, quindi, le ragioni logico-giuridiche sottese alla condivisione delle conclusioni del giudice di primo grado – che sul punto aveva rigettato la censura – in spregio anche ai principi della giurisprudenza di legittimità sulla motivazione per relationem;

– il motivo è infondato;

– le sezioni unite di questa Corte hanno difatti già avuto occasione di chiarire (per tutte, Cass., sez. un., 7 aprile 2014, n. 8053) che in relazione a sentenze, come quella in esame, soggette al regime delineato dal testo novellato dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, che si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione;

– va precisato, in particolare, che costituisce ius receptum (in termini, Cass. n. 2876 del 2017) il principio secondo cui il vizio di motivazione meramente apparente della sentenza ricorre allorquando il giudice, in violazione di un preciso obbligo di legge, costituzionalmente imposto (art. 111 Cost., comma 6), e cioè dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 (in materia di processo civile ordinario) e dell’omologo D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4 (in materia di processo tributario), omette di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione, di specificare o illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, e cioè di chiarire su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo anche di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata; invero, l’obbligo del giudice “di specificare le ragioni del suo convincimento”, quale “elemento essenziale di ogni decisione di carattere giurisdizionale” è affermazione che ha origine lontane nella giurisprudenza di questa Corte e precisamente alla sentenza delle Sezioni unite n. 1093 del 1947, in cui la Corte precisò che “l’omissione di qualsiasi motivazione in fatto e in diritto costituisce una violazione di legge di particolare gravità” e che “le decisioni di carattere giurisdizionale senza motivazione alcuna sono da considerarsi come non esistenti”. Pertanto, la sanzione di nullità colpisce non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione dal punto di vista grafico (che sembra potersi ritenere mera ipotesi di scuola) o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e che presentano una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. Cass. S.U. n. 8053 del 2014; conf. Cass. n. 21257 del 2014), ma anche quelle che contengono una motivazione meramente apparente, del tutto equiparabile alla prima più grave forma di vizio, perchè dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione addotta dal giudice è tale da non consentire “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato” (cfr. Cass. n. 4448 del 2014), venendo quindi meno alla finalità sua propria, che è quella di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si perviene sulla res decidendi” (Cass. cit.; v. anche Cass., Sez. un., n. 22232 del 2016 e la giurisprudenza ivi richiamata; v. da ultimo Cass. 22949 del 2018). Come da ultimo precisato da questa Corte, “ricorre il vizio di omessa o apparente motivazione della sentenza allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento” (Cass. n. 9105 del 07/04/2017; Cass. 25456 del 2018);

– in tema di processo tributario, è nulla, per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 36 e 61, nonchè dell’art. 118 disp. att. c.p.c., la sentenza della commissione tributaria regionale completamente carente dell’illustrazione delle critiche mosse dall’appellante alla statuizione di primo grado e delle considerazioni che hanno indotto la commissione a disattenderle e che si sia limitata a motivare “per relationem” alla sentenza impugnata mediante la mera adesione ad essa, atteso che, in tal modo, resta impossibile l’individuazione del “thema decidendum” e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo e non può ritenersi che la condivisione della motivazione impugnata sia stata raggiunta attraverso l’esame e la valutazione dell’infondatezza dei motivi di gravame (Cass. n. 15884 del 2017). Deve considerarsi nulla la sentenza di appello motivata “per relationem” alla sentenza di primo grado, qualora la laconicità della motivazione non consenta di appurare che alla condivisione della decisione di prime cure il giudice d’appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame, previa specifica ed adeguata considerazione delle allegazioni difensive, degli elementi di prova e dei motivi di appello (Cass. n. 22022 del 2017);

-nel caso di specie, la CTR dopo avere premesso, nella parte in fatto della pronuncia, che la CTP aveva rigettato l’eccezione di violazione dell’art. 12, comma 7, dello Statuto sollevata dal contribuente – per essere stati gli avvisi di accertamento ritualmente notificati dopo il decorso del termine di sessanta giorni dalla chiusura delle operazioni di verifica – e che il contribuente aveva, in sede di gravame, reiterato la medesima censura, ha confermato, in dispositivo, la decisione del giudice di primo grado con ciò facendo proprie le già richiamate argomentazioni e conclusioni di quest’ultimo sul punto; risultano, dunque, rispettati i requisiti minimi per la configurabilità di una valida motivazione per relationem, essendo le ragioni, sul punto, poste a fondamento della pronuncia impugnata le stesse di quelle richiamate e condivise dalla medesima CTR, e dunque le considerazioni che hanno indotto la commissione a disattendere la specifica censura riproposta appello le medesime poste a fondamento della decisione di primo grado; con ciò, risultando chiara l’evidenziazione del nucleo fondante del ragionamento e dell’iter logico giuridico seguito per pervenire al risultato enunciato;

– con il secondo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, della L. n. 4 del 1929, art. 24, per avere la CTR – nel condividere la tesi della CTP circa l’avvenuta emissione degli atti impositivi nel rispetto del termine dilatorio di sessanta giorni tra la data del 16.6.2011 di redazione del verbale di accesso e consegna documenti e quella del 10.11.2011 di notifica degli avvisi – ritenuto, in contrasto con la lettera dell’art. 12, comma 7, che la ratio di tale disposizione fosse garantita ammettendo la decorrenza del termine di sessanta giorni dalla data di redazione di un mero verbale di accesso e consegna documenti e non già dalla comunicazione al contribuente del verbale di chiusura delle operazioni di verifica che, nella specie, era mancata, con evidente violazione del diritto del contribuente al contraddittorio procedimentale;

– il motivo è inammissibile per le ragioni di seguito indicate;

– va ricordato che, a far tempo dalla pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte n. 18184/13 – ripresa e confermata dalla sentenza S.U. n. 24823/15 – si è affermato l’orientamento per cui la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, “deve essere interpretato nel senso che l’inosservanza del temine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento – decorrente dal rilascio al contribuente, nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, di copia del processo verbale di chiusura delle operazioni” (ed “indipendentemente dal fatto che l’operazione abbia o non comportato constatazione di violazioni fiscali: (Cass. n. 15010/14; 9424/14, 5374/14, 20770/13, 10381/14, come si ha cura di precisare in Cass., sez. un., n. 24823 del 2015) -“determina di per sè, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus, poichè detto termine è posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva”; con la precisazione che “il vizio invalidante non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata, bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativi dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’ufficio” (ex multis, da ultimo, Cass. nn. 7897 del 2016, 7601 del 2016, 7218 del 2016, 5365 del 2015, 14287 del 2014, 1563 del 2014, 25118 del 2014, 25759 del 2014);

– da ultimo, questa Corte, nelle sentenze n. 701 e 702 del 2019, ha espresso i condivisibili principi (v. anche in tal senso, Cass. n. 4564 del 2019)- secondo cui “1) la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, prevede, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, una valutazione ex ante in merito al rispetto del contraddittorio operata dal legislatore, attraverso la previsione di nullità dell’atto impositivo per mancato rispetto del termine dilatorio, che già, a monte, assorbe la “prova di resistenza” e, volutamente, la norma dello Statuto del contribuente non distingue tra tributi armonizzati e non; 2) il principio di strumentalità delle forme ai fini del rispetto del contraddittorio, principio generale desumibile dall’ordinamento civile, amministrativo e tributario, viene meno in presenza di una sanzione di nullità comminata per la violazione, e questo vale anche ai fini del contraddittorio endoprocedimentale tributario; 3) per i tributi armonizzati la necessità della “prova di resistenza”, ai fini della verifica del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, scatta solo se la normativa interna non preveda già la sanzione della nullità.”;

– premessi i suddetti principi, va osservato che, nella specie, non risulta contestata dal contribuente la consegna del verbale del 16.6.2011 ma la natura dello stesso di verbale di chiusura delle operazioni – per essere, ad avviso dello stesso – un mero verbale di accesso e consegna documenti a fronte di una istruttoria che sarebbe proseguita fino alla conclusione, presumibilmente, in data 19 ottobre 2011, giorno in cui era stata restituita al contribuente tutta la documentazione acquisita dall’Ufficio; invero, tale ricostruzione in termini fattuali del ricorrente contrasta con un accertamento di merito – non sindacabile in sede di legittimità – operato dalla CTP e condiviso dalla CTR – nell’avere confermato la decisione di primo grado – circa l’avvenuta notifica degli avvisi di accertamento dopo il decorso del termine di sessanta giorni dalla chiusura delle operazioni di verifica, con ciò attribuendo evidentemente al p.v.c. del 16.6.2011 (la cui specifica consegna al contribuente non risulta contestata) valenza di verbale di chiusura delle indagini istruttorie dell’Ufficio – potendo, queste esaurirsi anche in un mero accesso istantaneo finalizzato ad acquisire documentazione (Cass. n. 15624 del 2014, da ultimo Cass. n. 19259 del 2017) -; la CTR risulta, dunque, avere fatto buon governo dei principi di diritto sopra richiamati, tendendo le argomentazioni sottese al motivo ad una inammissibile rivisitazione da parte di questa Corte di apprezzamenti in fatto operati dal giudice di merito; va, al riguardo, ribadito l’orientamento di questa Corte secondo cui “E’ inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito” (Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 8758 del 04/04/2017; Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 18721 del 13/07/2018);

– con il terzo motivo, il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 53 Cost., quanto alla capacità contributiva del soggetto verificato, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, lett. d) per avere la CTR confermato la legittimità degli atti impositivi ancorchè difettassero, nella specie, i presupposti di legge per l’accertamento induttivo ex art. 39, comma 2, lett. d) cit., non sussistendo la asserita discontinuità tra le rimanenze finali degli anni di imposta contestati e quelle inziali degli anni successivi, avendo il giudice di appello trascurato di avere preso in considerazione 1) la rilevanza – eccepita in sede di gravame – di sopravvenienze passive costituite da merce invendibile – inviata al macero nel 2013 – che per mero errore materiale era stata contabilizzata nel 2007 in luogo che nel 2006; 2) la movimentazione delle merci negli anni 2007 e 2008 pienamente evincibile dal libro degli inventari – messo dal contribuente a disposizione dei verificatori- e contenente già la rappresentazione, per categorie omogenee, delle merci in rimanenza, senza che fosse configurabile alcun obbligo di esibizione del dettaglio delle rimanenze la cui mancata consegna da parte del contribuente era stata indebitamente evidenziata dal giudice di appello;

– il motivo è inammissibile;

– ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, lett. d) “In deroga alle disposizioni del comma precedente l’ufficio delle imposte determina il reddito d’impresa sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, con facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze del bilancio e dalle scritture contabili in quanto esistenti e di avvalersi anche di presunzioni prive dei requisiti di cui alla lettera d) del precedente comma: (…) d) quando le omissioni e le false o inesatte indicazioni accertate ai sensi del precedente comma ovvero le irregolarità formali delle scritture contabili risultanti dal verbale di ispezione sono così gravi, numerose e ripetute da rendere inattendibili nel loro complesso le scritture stesse per mancanza delle garanzie proprie di una contabilità sistematica;

– questa Corte – facendo riferimento al discrimine tra l’accertamento con metodo analitico induttivo e quello con metodo induttivo puro ha precisato che nel secondo caso, invece, “le omissioni o le false od inesatte indicazioni” sono così gravi, numerose e ripetute da inficiare l’attendibilità – e dunque l’utilizzabilità, ai fini dell’accertamento anche degli altri dati contabili (apparentemente regolari), sicchè l’amministrazione finanziaria può “prescindere, in tutto o in parte, dalle risultanze del bilancio e delle scritture contabili in quanto esistenti” ed è legittimata a determinare l’imponibile in base ad elementi meramente indiziari, anche se inidonei ad assurgere a prova presuntiva ex artt. 2727 e 2729 c.c.” (Sez. 5 -, Ordinanza n. 33604 del 18/12/2019);

– nella specie, il motivo di ricorso, pur prospettando una violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, lett. d) in realtà tende inammissibilmente ad una nuova interpretazione di questioni di merito, avendo la CTR, con una valutazione in fatto non sindacabile dinanzi al giudice di legittimità, ritenuto sussistente una rilevante discontinuità tra i valori delle rimanenze di inventario contabilizzate a inizio anno e quanto risultante dai bilanci di chiusura; peraltro, da un lato, la CTR risulta avere preso in considerazione la dedotta circostanza dell’invio da parte della ditta al macero nel 2013 di capi di biancheria debitamente raggruppati per categorie omogenee ritenendo – con un apprezzamento in fatto ugualmente insindacabile – che tale operazione di smaltimento della merce costituisse una indiretta conferma della legittimità della presunzione da parte dell’Ufficio di maggiori ricavi non contabilizzati negli anni di imposta in questione, “non potendo in ogni caso avallarsi una affermazione di parte, fatta ora per allora, circa l’oggettiva inidoneità al commercio di una merce mai esibita al momento del controllo fiscale”; dall’altro, la CTR, dopo avere dato atto che era emersa, in fase istruttoria, una anomalia di contabilità del magazzino della ditta sottoposta a verifica le cui rimanenze di inventario erano state contabilizzate senza la dovuta differenziazione per categorie omogenee ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 15, comma 2, ha correttamente evidenziato che, a fronte dell’approfondimento istruttorio da parte dell’Ufficio e della richiesta di chiarimenti circa il prospetto analitico delle rimanenze, il contribuente era rimasto silente; ciò in ossequio al dettato del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 15, comma 2, secondo cui “L’inventario, oltre agli elementi prescritti dal codice civile o da leggi speciali, deve indicare la consistenza dei beni raggruppati in categorie omogenee per natura e valore e il valore attribuito a ciascun gruppo. Ove dall’inventario non si rilevino gli elementi che costituiscono ciascun gruppo e la loro ubicazione, devono essere tenute a disposizione dell’ufficio delle imposte le distinte che sono servite per la compilazione dell’inventario”;

– in conclusione il ricorso va complessivamente rigettato;

– le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 5.600,00 per compensi oltre spese prenotate a debito.

Dà inoltre atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 9 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 novembre 2020

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