Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24883 del 04/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 04/10/2019, (ud. 08/05/2019, dep. 04/10/2019), n.24883

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Eduardo – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8270-2017 proposto da:

P.D., domiciliata ope legis presso la Cancelleria della

Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’Avvocato MICHELA

PERONACE;

– ricorrente –

contro

FALK & ROSS GROUP ITALIA S.R.L., in persona del legale

rappresentante pro tempore elettivamente domiciliata in ROMA, VIA XX

SETTEMBRE 1, presso lo studio dell’avvocato PAOLO VITALI, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato RENATO OSCAR

SCORCELLI;

INAIL – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI

SUL LAVORO, C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro

tempore elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IV NOVEMBRE 144,

presso lo studio dell’avvocato LUCIANA ROMEO, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato EMILIA FAVATA;

– controricorrenti – avverso la sentenza n. 1020/2016 della CORTE

D’APPELLO di MILANO, depositata il 20/09/2016 R.G.N. 428/2014.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. con sentenza del 20.9.2016, la Corte d’appello di Milano respingeva il gravame proposto da P.D. avverso la decisione del Tribunale meneghino che aveva rigettato il ricorso della predetta, inteso all’accertamento delle condotte di mobbing e/o straining e di demansionamento asseritamente poste in essere dalla società Falk & Ross Group Italia nei suoi confronti ed al risarcimento dei danni patiti, patrimoniali e non, nonchè, in relazione al dedotto svolgimento di mansioni superiori rispetto ai livelli di inquadramento formalmente riconosciutile, all’accertamento del diritto alla qualifica dirigenziale, con connesse differenze retributive;

2. la Corte di Milano, ritenuta l’ammissibilità dell’atto di gravame in quanto rispondente ai requisiti prescritti dall’art. 434 c.p.c., comma 1, rilevava, con riguardo alla domanda di inquadramento in superiore qualifica, che l’appellante non aveva prodotto il contratto collettivo in astratto applicabile e neanche posto a raffronto le mansioni che dichiarava di avere svolto con la declaratoria astrattamente corrispondente alle stesse, rendendo impossibile di fatto l’accertamento dell’invocato superiore livello di inquadramento contrattuale, ed osservava che le dette carenze non potevano essere colmate dal giudice sopperendo all’onere di allegazione incombente alla parte;

3. con riferimento al mancato risarcimento del danno conseguente a presunta condotta di mobbing, rilevava che l’omesso riconoscimento del superiore livello di inquadramento rivendicato non poteva essere considerato una condotta di tipo vessatorio e/o persecutorio e che anche sul punto le deduzioni erano generiche e riguardanti esclusivamente un periodo successivo alle assunzioni da parte della società di due dipendenti, avvenute nel febbraio 2011; non erano, poi, dirimenti le conclusioni cui erano pervenuti i medici ai quali si era rivolta la ricorrente, mancando, peraltro, nelle relazioni dagli stessi redatte, l’indicazione della percentuale del danno biologico, sia permanente che temporaneo, sia quella del danno morale, ed essendo stato esiguo il periodo di dedotto mobbing, dovendo, altresì, negarsi il diritto al risarcimento del danno da dequalificazione professionale, per la mancanza di allegazioni idonee a supportarne la richiesta di riconoscimento;

4. di tale decisione domanda la cassazione la P., affidando l’impugnazione a due motivi, cui resistono, con separati controricorsi, la società e l’Inail.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

1. con il primo motivo, si denunziano insufficiente e contraddittoria motivazione, violazione e falsa applicazione di norme di diritto con riferimento agli artt. 414 e 415 c.p.c., nonchè all’art. 421 c.p.c., assumendosi che non sussisteva alcuna incertezza sulla contrattazione collettiva di riferimento, essendo incontestata tra le parti l’applicabilità del CCNL Commercio e sostenendosi che il c.c.n.l. non rientri tra i mezzi di prova ed i documenti che il ricorrente deve, a pena di decadenza, indicare nel ricorso e depositare unitamente allo stesso, sicchè gli accertamenti sulla debenza delle somme richieste con riferimento all’attribuzione di qualifiche superiori dovevano essere compiuti dal giudicante in base agli elementi in atti;

2. insufficiente e/o contraddittoria motivazione, violazione e falsa applicazione degli artt. 2087,2049 e 2043 c.c., nonchè dell’art. 421 c.p.c. sono ascritte, con il secondo motivo, alla decisione impugnata, sostenendosi che la Corte del merito abbia ignorato che, ai sensi dell’art. 2087 c.c., la dequalificazione può essere configurata come elemento di mobbing se viene fornita la prova dell’esistenza di un intento persecutorio da parte del datore di lavoro, e che abbia inquadrato la condotta in un arco temporale ingiustificatamente ristretto riconducendo a tale circostanza la motivazione del mancato accoglimento della domanda, con illegittima applicazione delle disposizioni di cui all’art. 421 c.p.c. e disattendendo gli elementi indicati che non erano stati oggetto di specifica contestazione ex adverso; anche la condanna alle spese è censurata in ragione della erroneità di una ritenuta soccombenza, non sussistente;

3. con riguardo a quanto dedotto nel primo motivo, è sufficiente osservare che la conoscibilità “ex officio” di un contratto collettivo si atteggia diversamente a seconda che si versi in un’ipotesi di violazione del contratto collettivo nazionale di lavoro privatistico o di un contratto collettivo nazionale del pubblico impiego, atteso che, mentre nel primo caso il contratto è conoscibile solo con la collaborazione delle parti, la cui iniziativa, sostanziandosi nell’adempimento di un onere di allegazione e produzione, è assoggettata alle regole processuali sulla distribuzione dell’onere della prova e sul contraddittorio (che non vengono meno neppure nell’ipotesi di acquisizione giudiziale ex art. 425 c.p.c., comma 4), nel secondo caso il giudice procede con mezzi propri, secondo il principio “iura novit curia” (cfr., ex aliis, Cass. 5.3.2019 n. 6394, Cass. 16.9.2014 n. 19507);

4. peraltro, vi è a monte un rilevato difetto di allegazioni e prove quanto alla domanda volta all’accertamento del livello di inquadramento superiore, valutazione che non è contrastata da censure idonee a scalfire la rilevanza nel percorso argomentativo che sostiene la decisione;

5. con riferimento alle censure formulate nel secondo motivo, deve osservarsi che, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica, sicchè, alla luce della riscontrata mancanza di elementi idonei a rivelare un tale intento, del tutto corretta, anche sotto il profilo sostanziale, in punto di diritto, appare la decisione qui impugnata, siccome aderente al prevalente indirizzo della giurisprudenza di legittimità, condiviso da questo collegio, secondo cui per “mobbing” si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità; ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio (cfr. Cass. n. 3785 del 17/02/2009, Cass. n. 898 del 17/01/2014 e, in senso analogo, Cass. n. 17698 del 06/08/2014, nonchè, tra le tante, da ultimo, Cass. 10.11.2017, Cass. 21.5.2018 n. 12437);

6. vero è che, ai sensi dell’art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l’adozione di condizioni lavorative “stressogene” (cd. “straining”), e a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l’insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di “mobbing”, è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti – per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto – possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell’esistenza di questo più tenue danno (cfr. Cass. 19.2.2016); tuttavia, nella specie è stata ritenuta carente proprio una compiuta deduzione di circostanze rilevanti anche ai più limitati fini della integrazione della condotta di straining, dovendo ex art. 2087 c.c., ritenersi che incomba al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonchè il nesso tra l’una e l’altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (cfr., da ultimo, Cass. 19.10.2018 n. 26495);

7. in ogni caso, nella specie si palesa come dirimente il rilievo che la ratio decidendi sull’esiguità del periodo utile a verificare la realizzazione delle condotte denunziate come mobbizzanti o rilevanti ai fini del pure dedotto straining costituisce un argomento dotato di autonoma rilevanza idoneo a sorreggere la pronunzia, rispetto al quale difetta ogni contestazione dotata di specificità, senza considerare che manca la trascrizione dei documenti richiamati oltre che dei capitoli di prova articolati, in dispregio del principio di specificità alla cui osservanza deve attenersi il ricorrente;

8. quanto alla dedotta violazione dell’art. 421 c.p.c., è sufficiente osservare che, come affermato da questa Corte (cfr. Cass. 10 gennaio 2006 n. 154), in ogni caso, l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio in grado d’appello presuppone la ricorrenza di alcune circostanze: l’insussistenza di colpevole inerzia della parte interessata, con conseguente preclusione per inottemperanza ad oneri procedurali, l’opportunità di integrare un quadro probatorio tempestivamente delineato dalle parti, l’indispensabilità dell’iniziativa ufficiosa, volta non a superare gli effetti inerenti ad una tardiva richiesta istruttoria o a supplire ad una carenza probatoria totale sui fatti costitutivi della domanda, ma solo a colmare eventuali lacune delle risultanze di causa, che nella specie risultano escluse dalla valutazione del materiale istruttorio acquisito effettuata dal giudice del merito;

9. con riguardo al dedotto vizio di motivazione, la censura è preclusa dall’applicabilità del “principio della doppia conforme” ed è anche mal prospettata in base alla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (cfr. Cass., sez. un., nn. 8053 e 8054 dei 2014), perchè non indica alcun fatto decisivo del quale sia stato omesso l’esame, sollecitando, nella sostanza, un nuovo esame delle risultanze documentali e, come già evidenziato, non richiama, attraverso la relativa trascrizione, i capi di prova articolati ed asseritamente non ammessi;

10. per le svolte considerazioni, il ricorso va respinto;

11. le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e sono liquidate nella misura rispettivamente indicata in dispositivo per ciascuno dei due controricorrenti;

12. sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

PQM

la Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in favore della Falk & Ross Group Italia s.r.l. in Euro 3000,00 per compensi professionali ed in Euro 2000,00 per compensi professionali in favore dell’Inail, Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge, nonchè al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%, in favore di entrambi i controricorrenti.

Ai sensi del D.P.R. n. 30 maggio 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1bis, del citato D.P.R..

Così deciso in Roma, il 8 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2019

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