Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24877 del 06/11/2013


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 24877 Anno 2013
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: CARRATO ALDO

processo ai sensi
della legge n. 89
del 2001

SENTENZA
sul ricorso proposto da:

PEDA’ GIUSEPPE (C.F: PDE GPP 52L26 H224U), rappresentato e difeso, in virtù di
procura speciale in calce al ricorso, dall’Avv. Fiorella Megale ed elettivamente
domiciliato presso lo studio dell’Avv. Antonio Zumbo (c/o studio legale Pessi), in
Roma, alla v. Po, n. 25/b;

– ricorrente –

contro
MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE (C.F.:80207790587), in persona
del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso “ex lege” dall’Avvocatura generale
dello Stato e domiciliato presso il suoi Uffici, in Roma, alla v. dei Portoghesi, n. 12;
– contro ricorrente —

avverso il decreto della Corte d’appello di Catanzaro relativo al proc. n. 1295/’11
V.G., depositato in data 27 marzo 2012 (e non notificato).

V58(4

(

Data pubblicazione: 06/11/2013

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 4 ottobre 2013
dal Consigliere relatore Dott. Aldo Carrato;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.
Ignazio Patrone, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Il sig. Pedà Giuseppe chiedeva alla Corte d’appello di Catanzaro, con ricorso
depositato il 13 settembre 2011, il riconoscimento dell’equa riparazione, ai sensi
della legge 24 marzo 2001, n. 89, per la irragionevole durata di un giudizio
amministrativo instaurato con ricorso depositato nel marzo 2000 dinanzi al TAR
Calabria-sez. staccata di Reggio Calabria e conclusosi, in primo grado, con sentenza
dello giudice amministrativo depositata 1’11 aprile 2011, invocando la condanna del
Ministero dell’Economia e delle Finanze al risarcimento dei danni non patrimoniali
subiti per la irragionevole durata del predetto giudizio.
Nella costituzione del resistente Ministero, l’adita Corte di appello accertava
l’irragionevole ritardo del giudizio nella durata di circa otto anni e condannava
l’Amministrazione convenuta al pagamento della somma di euro 1.300,00 (liquidando
l’importo di euro 100,00 per ciascuno dei primi tre anni e di euro 200,00 per i
successivi), oltre interessi dalla notifica originaria del ricorso, compensando per la
metà le spese giudiziali, che poneva, per la residua metà a carico del convenuto
Ministero.
Avverso il suddetto decreto (non notificato) ha proposto ricorso per cassazione il
Pedà Giuseppe, con atto notificato il 14 novembre 2012, sulla base di due motivi,
illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c. . L’intimato Ministero ha resistito con
controricorso.

Considerato in diritto

Ritenuto in fatto

1. Con il primo motivo dedotto il ricorrente ha denunciato (ai sensi dell’art. 360, nn. 3
e 5, c.p.c.) il vizio di carente e contraddittoria motivazione del decreto impugnato e di
violazione dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001, con riferimento all’illegittima
liquidazione dell’indennizzo riconosciuto nella ridimensionata misura di euro

100,00 per ciascuno dei primi tre anni e di euro 200,00 per i successivi, in difformità
dai parametri individuati dalla giurisprudenza della CE.D.U. e recepiti dalla
giurisprudenza di questa Corte, riconducibili alla misura di euro 750,00 per ognuno
dei primi tre anni e di euro 1000,00 per quelli seguenti.
2. Con il secondo motivo il ricorrente ha dedotto la violazione e falsa applicazione
dell’art. 2 della legge n. 89 del 2001 e dell’art. 111, comma 2, Cost., nonché degli
artt. 2056 e 1226 c.c., il tutto in relazione all’art. 360, n. 3, c.p.c. .
3. Rileva il collegio che i due motivi — esaminabili congiuntamente, siccome
strettamente connessi – sono fondati e devono, perciò, essere accolti nei termini che
seguono.
Deve, peraltro, essere, in primo luogo, respinta l’eccezione di inammissibilità del
ricorso proposta dal Ministero controricorrente, poiché, alla stregua dello svolgimento
delle riportare censure, risultano individuabili le due ragioni di doglianza —
contestualmente dedotte – ricondotte alla prospettate violazioni di legge e carenze
motivazionali (cfr., da ultimo, Cass. n. 9793 del 2013).
Ciò posto, sul piano generale si osserva che nel giudizio per l’equa riparazione per la
violazione del termine di durata ragionevole del processo, a norma dell’art. 2, comma
secondo, della legge n. 89 del 2001, la parte assolve all’onere di allegazione dei fatti
costitutivi della domanda esponendo gli elementi utili a determinare la durata
complessiva del giudizio presupposto, salvi i poteri della Corte d’appello adita di

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1.300,00, sul presupposto dell’avvenuto computo incongruo dell’importo di euro

accertare, d’ufficio o su sollecitazione dell’Amministrazione convenuta, le cause che
abbiano giustificato in tutto o in parte la durata del procedimento (cfr. Cass. n. 2207
del 2010). E’ anche risaputo che il danno patrimoniale indennizzabile come
conseguenza della violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi

immediata e diretta” del fatto causativo (art. 1223 c.c. richiamato dall’art. 2, comma 3,
legge cit. attraverso il rinvio all’art. 2056 stesso codice), in quanto sia collegabile al
superamento del termine ragionevole e trovi appunto causa nel non ragionevole
ritardo della definizione del processo presupposto. Si è, altresì, puntualizzato che, in
tema di equa riparazione per il mancato rispetto del termine di ragionevole durata del
processo, ai sensi della legge 24 marzo 2001, n. 89, solo il danno patrimoniale,
diversamente da quello non patrimoniale (per il quale occorre soltanto l’allegazione
quale conseguenza dell’irragionevole durata del processo presupposto), deve essere
oggetto di prova piena e rigorosa, occorrendo che ne siano specificati tutti gli
estremi, fra l’altro variabili da caso a caso, ovvero che ne sia possibile
l’individuazione sulla base del contesto complessivo dell’atto (cfr. Cass. n. 5213 del
2007 e, da ultimo, Cass. n. 14775 del 2013).
Quanto ai criteri di liquidazione dell’indennizzo in questione, la giurisprudenza

di questa Corte (cfr. Cass. n. 21840 del 2009 e, da ultimo, Cass. n. 8471 del
2012) ha statuito (con riferimento alla formulazione anteriore dell’art. 2 della
legge n. 89 del 2001, rispetto alle modifiche apportate dal d.l. n. 83 del 2012,
convertito nella legge n. 134 del 2012 e all’introduzione dei parametri
individuati con il nuovo art. 2 bis della stessa “legge Pinto”), che, in tema di
equa riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo,
i criteri di liquidazione applicati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non

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della legge 24 marzo 2001, n. 89, è soltanto quello che costituisce “conseguenza

possono essere ignorati dal giudice nazionale, il quale può tuttavia apportare
le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda, purché
motivate e non irragionevoli, con la conseguenza che la quantificazione del
danno non patrimoniale deve essere, di regola, non inferiore a euro 750,00 per

ragionevole, e non inferiore a euro 1.000,00 per quelli successivi, in quanto
l’irragionevole durata eccedente tale periodo comporta un evidente
aggravamento del danno.
Orbene, malgrado il corretto riferimento a questi criteri liquidatori e alla ricognizione
complessiva sia della giurisprudenza della C.E.D.U. che di quella di questa Corte, il
giudice territoriale è pervenuto, con un percorso argomentativo illogico e
contraddittorio oltre che in violazione del dedotto art. 2 della legge n. 89 del 2001
(nella versione “ratione temporis” applicabile), ad un ingiustificato ridimensionamento
della quantificazione dell’indennizzo, computandolo nella predetta misura di euro
1.300,00, per otto anni di accertata (e non contestata) irragionevolezza del giudizio
presupposto (durata certamente significativa ai fini della sussistenza del prospettato
danno non patrimoniale: cfr., da ultimo, Cass. n. 5317 del 2013). A tal riguardo, la
Corte territoriale ha ritenuto, in considerazione della scarsa entità della “posta in
gioco” (corrispondente ad euro 900,00), che, nella specie, il patema d’animo si
potesse considerare ampiamente scemato, desumendosi, altresì, una minore
sofferenza della parte interessata alla celere definizione del giudizio presupposto.
Senonché, se è pur vero (cfr., ad es., Cass. n. 15268 del 2011) che il giudice di
merito può legittimamente discostarsi dai parametri indennitari CEDU qualora accerti
la modestia della “posta in gioco” per il valore della causa, che può indurre ad una
minore personalizzazione della controversia e, di conseguenza, ad una minore

ogni anno di ritardo, in relazione ai primi tre anni eccedenti la durata

sofferenza per il suo prolungarsi, la Corte territoriale ha riconosciuto, in favore della
parte ricorrente, un indennizzo del tutto irrisorio ed incongruo rispetto alla durata
comunque irragionevolmente apprezzabile della controversia presupposta,
correlandolo alla misura di euro 100,00 per i primi tre anni di protrazione

pur potendosi discostare dai parametri generali ordinari come precedentemente
richiamati, ha riconosciuto — in favore della parte istante — un indennizzo
oggettivamente quasi insignificante ed eccessivamente ridimensionato rispetto ai
predetti criteri di riferimento (considerandosi, in via interpretativa, anche i limiti
inferiore e superiore delineati dal nuovo art. 2 bis della stessa legge n. 89 del 2001,
come introdotto dall’art. 55, comma 1, del d.l. m. 83 del 2012, convertito, con
modificazioni, nella legge n. 134 del 2012, individuati, rispettivamente, in euro 500,00
ed in euro 1.500,00, modulabili in dipendenza della valorizzazione degli elementi
indicati nel comma 2 dello stesso articolo).
Pertanto, avuto riguardo al computo totale del predetto periodo e considerato che, in
ordine alla quantificazione del danno non patrimoniale e facendosi applicazione del
criterio di liquidazione solitamente applicato (nella misura di un indennizzo pari ad
euro 500,00 per ogni anno eccedente la durata ragionevole) da questa Corte con
riferimento ai giudizi amministrativi di durata irragionevole (cfr. Cass. n. 14753 del
2010 e Cass. n. 5914 del 2012), ne consegue che l’indennizzo riconoscibile al
ricorrente deve essere congruamente quantificato nell’importo di euro 4.000,00 (euro
500,00 per anni otto), a cui devono aggiungersi gli interessi legali con decorrenza
dalla proposizione della domanda giudiziale e fino al soddisfo.
Occorre, inoltre, rilevare l’inammissibilità della censura concernente la mancata
pronuncia in ordine alla richiesta del “bonus” di euro 2.000,00, in ragione della natura

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irragionevole e di euro 200,00 per i successivi. In tal modo, perciò, la stessa Corte,

della controversia, atteso che, nelle conclusioni formulate in ricorso anche nella
prospettiva di una decisione di merito, a tale “bonus” non è stato fatto alcun
riferimento. Peraltro, bisogna evidenziare che questa Corte (cfr., ad es., cass. n.
22869 del 2009 e, da ultimo, Cass. n. 2388 del 2011) ha, comunque, precisato che

determinazione dell’indennizzo dovuto per il danno non patrimoniale, la durata
della ingiustificata protrazione del processo è un elemento obiettivo che si
presta a misurare e a riparare un pregiudizio sempre presente ed uguale,
mentre l’attribuzione di una somma ulteriore (cosiddetto “bonus”) postula che
nel caso concreto quel pregiudizio, a causa di particolari circostanze
specifiche, sia stato maggiore; conseguentemente, nel caso in cui il giudice di
merito abbia negato il riconoscimento di tale pregiudizio, la critica della
decisione sul punto non può fondarsi sulla circostanza che il “bonus” spetta
“ratione materiae”, era stato richiesto e la decisione negativa non è stata
motivata, ma deve avere riguardo alle concrete allegazioni ed alle prove
addotte nel giudizio di merito”. Da ciò consegue che neanche da questo punto di

vista la censura si appalesa ammissibile, stante l’assoluta sua genericità.
4. Conseguentemente, in accoglimento — per quanto di ragione – del formulati)
motivp, può, previa cassazione del decreto impugnato e non essendo necessari
ulteriori accertamenti di fatto (ai sensi dell’ari. 384, comma 2, c.p.c.), provvedersi a
decidere direttamente la causa nel merito in questa sede, con il riconoscimento della
parziale fondatezza della domanda proposta nell’interesse del ricorrente dinanzi alla
Corte di appello di Catanzaro, con la conseguente condanna del Ministero
dell’Economia e delle Finanze al pagamento, a titolo di indennizzo per la causale

“in tema di equa riparazione ai sensi dell’art. 2 della I. n. 89 del 2001, ai fini della

dedotta in giudizio, della somma di euro 4.000,00, oltre agli interessi legali dalla
domanda al saldo.
5. Alla suddetta pronuncia consegue, altresì, la condanna dello stesso Ministero al
pagamento delle spese dell’intero giudizio (v. Cass. n. 6938 del 2003), che si

dovuto alla parte ricorrente, con distrazione in favore del difensore della stessa, per
dichiarato anticipo.

PER QUESTI MOTIVI
La Corte accoglie, per quanto di ragione, il ricorso; cassa il decreto impugnato e,
decidendo nel merito, accoglie la domanda proposta nell’interesse di PEDA’
GIUSEPPE e, per l’effetto, condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze al
pagamento, in favore del ricorrente, della somma di euro 4.000,00 a titolo di equa
riparazione, oltre interessi legali dalla domanda al saldo; condanna, altresì, lo stesso
Ministero al pagamento delle spese dell’intero giudizio, che liquida, quanto al grado
di merito, in euro 873,00, di cui euro 50,00 per esborsi, euro 445,00 per diritti ed euro
378,00 per onorari, oltre alle spese generali e agli accessori di legge, e, quanto al
giudizio di cassazione, in euro 606,25, di cui euro 506,25 per compensi, oltre
accessori di legge. Dispone la distrazione delle spese, come liquidate, in favore del
difensore del ricorrente, Avv. Fiorella Megale, per dichiarato anticipo.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione Civile della Corte
suprema di Cassazione, in data 4 ottobre 2013.

liquidano come in dispositivo, avuto riguardo all’operata rideterminazione dell’importo

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