Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24875 del 04/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 04/10/2019, (ud. 20/02/2019, dep. 04/10/2019), n.24875

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24610-2017 proposto da:

C.S., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA

CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato GIOVANNA COGO;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato FIORILLO LUIGI,

rappresentata e difesa dall’avvocato GRANOZZI GAETANO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1066/2016 della CORTE D’APPELLO di CATANIA,

depositata il 20/10/2016 R.G.N. 854/12.

LA CORTE, visti gli atti e sentito il consigliere relatore:

Fatto

RILEVA

che:

con ricorso depositato in data 5 novembre 2008 il sig. C.S. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Ragusa POSTE ITALIANE S.p.A., instando per la declaratoria di nullità dei termini finali apposti ai contratti stipulati con la società convenuta dal 2 aprile al 29 settembre 2007 nonchè al 26 novembre 2007 al 31 gennaio 2008, con conseguente accertamento di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato e la condanna della società al risarcimento del danno da quantificarsi in relazione alle retribuzioni maturate dalla messa in mora sino all’invocato reinserimento dell’organizzazione aziendale di provenienza, laddove aveva operato come operatore di sportello presso l’ufficio postale di (OMISSIS);

il giudice adito all’esito dell’espletata prova testimoniale rigettava la domanda compensando le spese di lite. La relativa sentenza veniva appellata dal C. come da ricorso depositato il 27 luglio 2012, poi disatteso dalla Corte d’Appello di Catania con sentenza numero 1066 in data 13 – 20 ottobre 2016, secondo cui, premessa la formazione di giudicato interno, circa l’asserita violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 3 per effetto di mancata specifica impugnazione sul punto, nel caso in esame correttamente risultava applicato il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis osservandosi tra l’altro che neppure aveva errato il primo giudicante laddove aveva ritenuto non richiesto per i relativi contratti l’onere di indicare sotto il profilo formale e di rispettare sul piano sostanziale la causale oggettiva e di natura temporanea giustificatrice dell’apposizione di un termine al rapporto (in tal sensi citando la sentenza di Cass. lav. Sez. L, Sentenza n. 13221/12, in data 7/6 – 26/07/2012, invero così motivata: “… Con il primo motivo di ricorso il B…, denunciando violazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, comma 2 in relazione al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, nonchè al considerando n. 6 e alla clausola 8.3. della Direttiva 1999/70 CE (art. 360 c.p.c., n. 3), lamenta che la sentenza impugnata abbia ritenuto la norma contenuta nel menzionato D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis – e, conseguentemente, il contratto a termine in oggetto – conforme alla normativa interna e comunitaria (e in particolare alle previsioni della Direttiva 1999/70/CE). Secondo il ricorrente “il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis come introdotto dalla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 558 deve essere interpretato come aggiuntivo e complementare rispetto alla norma di carattere generale prevista dall’art. 1 D.Lgs. n. citato e non in termini alternativi”, dovendo ricorrere, nel caso concreto, le condizioni di liceità del contratto previste da entrambe le norme, con la conseguenza che anche per i contratti a termine stipulati dalla società convenuta rimane fermo l’onere di indicare sotto il profilo formale (e di rispettare sul piano sostanziale) la causale, oggettiva e di natura temporanea, giustificativa dell’apposizione di un termine al rapporto di lavoro subordinato.

La tesi è priva di fondamento.

Giova preliminarmente riportare il testo della normativa di riferimento, nella parte avente diretta attinenza alla fattispecie in esame. Il D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 dispone che:…

Al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, dopo il comma 1 è aggiunto dalla L. n. 266 del 2005, art. 1, comma 558 il seguente: “1-bis. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano anche quando l’assunzione sia effettuata da imprese concessionarie di servizi nei settori delle poste per un periodo massimo complessivo di sei mesi, compresi tra aprile ed ottobre di ogni anno, e di quattro mesi per periodi diversamente distribuiti e nella percentuale non superiore al 15 per cento dell’organico aziendale, riferito al 1 gennaio dell’anno cui le assunzioni si riferiscono. Le organizzazioni sindacali provinciali di categoria ricevono comunicazione delle richieste di assunzione da parte delle aziende di cui al presente comma.” Sul piano interpretativo occorre osservare che la formulazione dell’art. 1 (rubricato “apposizione del termine”) e quella dell’art. 2 (rubricato “disciplina aggiuntiva per il trasporto aereo ed i servizi aeroportuali”) sono identiche, iniziando con la locuzione “è consentita l’apposizione di un termine alla durata del contratto…”;

entrambe le norme sono quindi chiaramente destinate ad individuare i casi in cui la stipulazione di un contratto di lavoro a tempo determinato è legittima. La differenza, che emerge nell’immediatezza, è data dal fatto che nella prima ipotesi la stipulazione del contratto è consentita a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo e sostitutivo che devono essere specificate per iscritto, mentre nella seconda tale requisito non risulta richiesto, sicchè può ben ipotizzarsi che la sussistenza delle ragioni che legittimano l’apposizione del termine sia già presuntivamente valutata dal legislatore in considerazione delle caratteristiche peculiari dei tre settori coinvolti ed i requisiti per la legittimità del termine sono quindi diversi (arco temporale definito, rispetto della percentuale e comunicazione alle organizzazioni sindacali provinciali).

Tale ipotesi interpretativa è avvalorata dalla scarsa forza persuasiva della opposta tesi – propugnata dal ricorrente – della necessaria compresenza tanto dei requisiti di cui all’art. 1 quanto di quelli di cui all’art. 2 perchè, qualora volesse ritenersi che la causalità del contratto costituisca la regola indefettibile, non vi sarebbe stata alcuna ragione di disciplinare in modo differenziato il settore trasporto aereo, servizi aeroportuali e postale e comunque il trattamento riservato ai tre settori sarebbe deteriore rispetto a quello riservato alle altre aziende dovendo le prime rispettare tanto il limite causale quanto quello temporale e percentuale. L’assunto del ricorrente contrasta inoltre con l’interpretazione letterale della normativa di riferimento, se si considera che l’incipit dell’art. 2 (“è consentita l’apposizione del termine…”), identico a quello dell’art. 1, comma 1, non può che essere interpretato nel senso della volontà del legislatore di stabilire una (nuova) ipotesi di valida apposizione del termine, del tutto autonoma rispetto a quelle previste dal precedente art. 1, comma 1. La tesi fin qui accolta ha trovato, peraltro, conferma nella sentenza della Corte Costituzionale n. 214/09, che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, sollevate con riferimento all’art. 3 Cost., comma 1, artt. 101,102 e 104 Cost., rilevando in particolare che “la norma censurata costituisce la tipizzazione legislativa di un’ipotesi di valida apposizione del termine….. Neppure può condividersi l’ulteriore censura alla sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso la violazione da parte del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis, del “considerando n. 6” e della “clausola c.d. di non regresso” contenuta nell’art. 8 dell’Accordo quadro allegato alla Direttiva 99/70/CE. Va in proposito osservato che la Corte di Giustizia U.E. ha chiarito che “… la clausola 8, n. 3 dell’accordo quadro non soddisfa i requisiti per essere direttamente produttiva di effetti” (cfr. sentenza 24.6.2010 nel procedimento C-98/09 Sorge), sicchè in questa prospettiva vanno analizzate le argomentazioni del ricorrente in ordine alla presunta violazione del divieto di regresso, sancito dalla clausola 8, n. 3 dell’Accordo Quadro allegato alla Direttiva, la quale consente espressamente al legislatore nazionale “di tener conto della situazione di ciascun stato membro e delle circostanze relative a particolari settori e occupazioni, comprese le attività stagionali” (cfr. 10 considerando dell’Accordo quadro CES-UNICE-CEEP sul lavoro a tempo determinato). Pacificamente, per la Corte di Giustizia il divieto di regresso è stabilito al solo fine di impedire che i legislatori nazionali profittino dell’attuazione della direttiva o anche, successivamente, della manutenzione della disciplina attuativa della direttiva per abbassare (pur restando sopra il limite stabilito come minimale dalla direttiva stessa) il livello di tutela anteriore (cfr. Corte di Giustizia, Mangold, 22 novembre 2005, C144/04). Ora, la previsione in esame non appare affatto dettata profittando dell’attuazione della direttiva o della manutenzione della disciplina attuativa della Direttiva, ma è stata dettata per introdurre una ipotesi speciale accanto ad un’altra ipotesi speciale. In realtà, al di là del decimo considerando, una previsione speciale come quella contenuta nell’originario D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2 non può comunque considerarsi incompatibile con la direttiva giacchè i contratti a termine stipulati dalle aziende di trasporto aereo sono assoggettati all’intera disciplina stabilita dalla legislazione di riforma del 2001 ed il legislatore si limita ad operare una tipizzazione della ricorrenza di esigenze oggettive secondo una propria valutazione di tipicità sociale. Una volta esclusa la violazione del divieto di regresso, anche la previsione introdotta dalla L. n. 266 del 2005 presenta allora gli identici caratteri di quella originariamente inserita nell’art. 2: in conformità alle indicazioni del decimo considerando della Direttiva, costituisce una tipizzazione legislativa della ricorrenza di esigenze oggettive operata dal legislatore alla stregua di una valutazione social-tipica di tali esigenze, come peraltro confermato da ultimo dal Giudice delle leggi nella sentenza 214/2009 sopra citata. Ad ulteriore conferma della conformità della norma nazionale con la disciplina dell’U.E. anche per quanto riguarda il divieto di non regresso, giova richiamare quanto affermato dalla Corte di Giustizia nelle recenti pronunce Angelidaki, 23 aprile 2009, nei procedimenti riuniti da C-378/07 a C-380/07, e Vino, 11 novembre 2010, nel procedimento C-20/10. (C-20110 Vino e. Poste Italiane S.p.A., cit., punti 32-49).

Il motivo, dunque, pur esaminato sotto i diversi offerti profili, va rigettato.

Privo di fondamento è anche il secondo motivo di ricorso con cui il ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 420 c.p.c. sostenendo di avere provveduto a contestare, con il ricorso introduttivo, il mancato rispetto da parte della società convenuta dei limiti numerici previsti dal D.lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis e che, a fronte delle allegazioni effettuate da Poste nella propria memoria, non sarebbe stata necessaria “una verbalizzazione scritta, nel verbale d’udienza redatto dal giudice di primo grado, di quanto già dedotto per iscritto nel ricorso”….

La Corte territoriale, adeguandosi al condiviso orientamento di questa Corte, ha fatto corretta applicazione della regola processuale secondo la quale, nel processo civile (così come nel rito del lavoro) non occorre la prova dei fatti che, allegati da una parte, non siano stati espressamente contestati dalla controparte (Cass. n. 25269/2007). E’ stato affermato infatti dalla giurisprudenza di legittimità che in base all’art. 416 c.p.c. nel processo del lavoro, il convenuto ha l’onere di contestare specificamente i fatti affermati dagli attori; con l’ulteriore puntualizzazione che l’onere di contestazione tempestiva riguarda però anche il ricorrente, perchè tale onere è desumibile non solo dagli artt. 167 e 416 c.p.c. ma deriva da tutto il sistema processuale come risulta: dal carattere dispositivo del processo, che comporta una struttura dialettica a catena; dal sistema delle preclusioni, che comporta per entrambe le parti l’onere di collaborare, fin dalle prime battute processuali, a circoscrivere la materia controversa; dai principi di lealtà e probità posti a carico delle parti e, soprattutto, dal generale principio di economia che deve informare il processo, avuto riguardo al novellato art. 111 Cost (giusto processo). Conseguentemente, ogni volta che sia posto a carico di una delle parti (attore o convenuto) un onere di allegazione (e prova), l’altra ha l’onere di contestare il fatto allegato nella prima difesa utile, dovendo in mancanza, ritenersi tale fatto pacifico e non più gravata controparte del relativo onere probatorio, senza che rilevi la natura di tale fatto, potendo trattarsi di un fatto la cui esistenza incide sull’andamento del processo e non sulla pretesa in esso azionata” (ex plurimis, Cass. 4 dicembre 2007 n. 25269). Per quanto precede il ricorso in esame va rigettato, mentre va dichiarato assorbito quello incidentale condizionato proposto dalla società….”);

inoltre, secondo la Corte catanese, la sentenza gravata risultava immune da censure anche in ordine alla questione concernente il superamento della clausola di contingentamento, nel senso che le imprese del settore postale possono assumere a tempo determinato in misura non superiore al 15% dell’organico aziendale, riferito al 1 gennaio dell’anno cui le assunzioni si riferiscono, avendo il primo giudicante fotografato correttamente le scansioni processuali che avevano caratterizzato lo scambio delle difese delle parti in ordine alla prova di tale elemento fattuale, il tutto così come precisato alle pagg. 3 e 4 della sentenza impugnata, visto in particolare che a seguito di apposita documentazione prodotta da parte convenuta nella successiva udienza la difesa di parte ricorrente non aveva formulato alcuna specifica contestazione in ordine ai dati numerici indicati in tale documento, mentre parte appellante aveva mosso contestazioni soltanto in sede di gravame in ordine alle modalità e ai criteri di calcolo del limite percentuale di contingentamento, con conseguente tardività evidenziata altresì da parte appellata. Per giunta secondo la corte territoriale neppure poteva dubitarsi dell’assolvimento dell’onere probatorio da parte della società in considerazione delle deposizioni rese dai testi escussi, i quali pur avendo precisato di non aver contribuito alla redazione dell’anzidetto documento, prodotto da Poste Italiane, lo avevano comunque confermato nel suo contenuto, donde l’attendibilità della loro deposizione, al contempo varando la genuinità di tale documento;

ugualmente secondo la Corte distrettuale immune da censure doveva ritenersi il secondo contratto a tempo determinato, laddove era stata indicata come causale lo svolgimento di attività di carattere produttivo in particolare per picchi di più intensa attività, posto che a fronte del concreto riscontro di tale causale – come da deposizioni dei testi escussi con riferimento all’attività dell’ufficio postale di (OMISSIS) ed in considerazione della specifica esigenza dell’attività durante il periodo natalizio – neanche poteva dubitarsi della illegittimità del contratto con riferimento all’osservanza del limite temporale nel caso di successione di contratti a termine, che comunque poteva ritenersi superata anche dalla previsione di cui alla L. n. 247 del 2007, art. 5, comma 4 bis;

avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il signor C.S. come da atto notificato a mezzo posta, di cui è stata chiesta la spedizione in data 20 ottobre 2017, affidato a un solo articolato motivo, cui ha resistito Poste italiane S.p.A. mediante controricorso, notificato a mezzo posta elettronica in data 17 novembre 2017, in seguito illustrato da memoria depositata per la società controricorrente in vista dell’adunanza fissata in camera di consiglio per il 20 febbraio 2019, di cui è stato dato rituale tempestivo avviso alle parti.

Diritto

CONSIDERATO

che:

con l’anzidetto motivo parte ricorrente ha denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c. comma 1, nn. 3 e 5, violazione falsa applicazione degli artt. 416,244,115 nonchè 116 c.p.c. in relazione all’art. 2697 c.c., nonchè vizio di motivazione con riferimento ad un fatto decisivo per il giudizio, limitatamente in ordine al secondo contratto di lavoro a tempo determinato stipulato il 24 novembre 2007 per il periodo 26 novembre 2007 – 31 gennaio 2008 in base a ragioni di carattere produttivo in particolare per picchi di più intensa attività, sostenendosi che l’impugnata sentenza è viziata da palese error in iudicando laddove ha ritenuto che la società avesse “dimostrato l’esistenza della esigenza produttiva posta a fondamento dell’assunzione del signor Ca.”, tenuto conto che l’allegazione di Poste Italiane riportata nella memoria di costituzione del giudizio di primo grado non dimostrava l’effettivo collegamento tra l’assunzione del ricorrente e la suddetta causale, non avendo la società resistente fornito alcuna specifica indicazione sulla situazione di fatto delle attività produttiva presso l’ufficio postale di (OMISSIS) prima, durante e dopo l’assunzione del ricorrente, nonchè della situazione del personale di applicato. Per contro, la società convenuta aveva chiesto soltanto di provare al riguardo l’esigenza di far fronte presso l’ufficio postale di (OMISSIS) ad un incremento – anche conseguente volumi di traffico registrati con l’approssimarsi delle festività natalizie e per tutto il periodo ad esso immediatamente successivo- delle attività di sportello afferenti la raccolta degli invii e pacchi postali di tutti i servizi relativi agli invii impieghi raccomandati ed assicurati, allegazioni pertanto assolutamente generiche in mancanza di precisi riferimenti. Inoltre, la Corte d’Appello aveva ritenuto dimostrata la dedotta esigenza produttiva sulla base di una prova testimoniale resa su di un relativo capitolo che doveva essere dichiarato inammissibile, attesa la genericità dei fatti ivi indicati comportante altresì apprezzamenti e valutazioni da parte del teste, con conseguente violazione dell’art. 244 c.p.c.. Per altro verso, contrariamente a quanto ritenuto con l’impugnata sentenza, la causale non era stata confermata dalle dichiarazioni dei testi escussi, nessuno dei quali aveva confermato il succitato generico capitolo di prova (anche come da verbali di udienza, integralmente allegati al ricorso per cassazione – v. pagine da 12 a 23), laddove tra l’altro il direttore dell’ufficio postale, anch’egli sentito, aveva dichiarato di aver applicato il ricorrente agli sportelli finanziari, e non avendo la società convenuta mai allegato una situazione di scorrimento tra il personale dell’ufficio postale di (OMISSIS), doveva ritenersi che volumi di traffico delle raccomandate, dei pacchi e delle assicurate presso l’ufficio in questione non avevano subito picchi nel corso della durata del contratto in parola, donde la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonchè art. 2697 c.c.. Da ultimo, parte ricorrente ha eccepito che la motivazione, a prescindere dal fatto che non trovava riscontro nelle risultanze processuali, era anche illogica ed apparente, poichè la Corte distrettuale non aveva illustrato l’iter logico giuridico in base al quale aveva ritenuto provata l’esistenza della dedotta esigenza produttiva, nonostante ricorrente nell’atto di appello avesse eccepito il contrario ossia che per il secondo contratto concernente gli asseriti picchi di più intensa attività sussistevano violazioni dell’art. 1362 c.c., degli artt. 112,115 e 116c.p.c. nonchè dell’art. 5 della direttiva comunitaria (cfr. in part. pagine 10 e 11 del ricorso per cassazione);

tanto premesso, le anzidette doglianze vanno disattese in base alle seguenti ragioni;

in primo luogo, va rilevato un difetto di autosufficienza, rilevante ex art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 6, laddove non solo non sono stati integralmente riportati gli atti processuali rilevanti (quali il ricorso introduttivo del giudizio, la successiva memoria ex art. 416 c.p.c., il ricorso d’appello di cui all’art. 434 cit. codice nonchè la memoria difensiva per l’appellata ai sensi dell’art. 436), ma nemmeno per intero il secondo contratto in questione, stipulato il 24 novembre 2007, per il quale espressamente ed esclusivamente è stato proposto il ricorso (v. infatti la premessa a pag. 6 dello stesso ricorso per cassazione, laddove tuttavia alle pagg. 10 e 11 nel riportare il punto tre dell’atto di appello, per la parte concernente il contratto intercorso dal novembre 2007 al gennaio 2008, si accenna da ultimo – v. pag. 11 – ad una delle ragioni del rigetto della domanda da parte del giudice di primo grado, però senza correlativa pertinente ed indispensabile confutazione -“Inopinatamente il giudice di 1 grado ha affermato che poichè questo contratto è stato stipulato ai sensi dell’art. 2, comma 1 bis ciò rende superfluo ogni accertamento circa l’effettiva sussistenza della causale (“punte di più intensa attività”) indicata nel contratto stipulato il 24/11/07″, seguono da pag. 12 al pag. 23 le fotocopie dei verbali di udienza e a pag. 24 le conclusioni del ricorso con l’indice della produzione e le altre dichiarazioni di rito);

la succitata riscontrata omissione è senz’altro rilevante non solo per l’accennata ratio decidendi sul punto da parte del giudice di primo grado, ma anche per quanto osservato in proposito da parte controricorrente, che ha evidenziato in via preliminare la questione, eccependo l’irrilevanza di tutte le censure, essenzialmente di merito, agitate da parte ricorrente, e riproducendo anche in copia la lettera di assunzione in data 24 novembre 2007, sottoscritta pure dal C. (e non dal signor Ca., come peraltro erroneamente citato a pag. 6 del ricorso), nella quale, infatti, premessa la decisione della sua assunzione presso la filiale di (OMISSIS) UP di (OMISSIS), a tempo determinato, con la qualifica di operatore sportello junior per lo svolgimento di attività di “ragioni di carattere produttivo, in particolare, per picchi di più intensa attività”, si aggiungeva subito dopo che l’assunzione veniva effettuata ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis così come modificato dalla L. 23 dicembre 2005, n. 266;

a sua volta, la sentenza d’appello, pur avendo dato atto dell’esistenza dei due distinti contratti a termine, il primo ai sensi dell’art. 2, comma 1 bis cit., ed il secondo per ragioni di carattere produttivo per far fronte a picchi di più intesa attività, ha enunciato le ragioni del rigetto della domanda come da sentenza n. 690/2011, osservando che secondo il primo giudicante la denunciata violazione dell’art. 2, comma 1 bis – norma alla quale erano riconducibili a dire del suddetto giudice entrambi i contratti – non era configurabile, essendo stato provato il rispetto della clausola di contingentamento, che ugualmente alche la doglianza relativa al Decreto n. 368, art. 3 era stata confutata dalla prodotta documentazione e che la disciplina di cui all’art. 2, comma 1 bis non era contraria al diritto comunitario, come affermato anche dalla Corte Costituzionale;

non emerge, pertanto, dagli atti, segnatamente dal ricorso per il C., se sia stata impugnata, con rituale e specifico mezzo di gravame, la ratio decidendi della sentenza di primo grado, di rigetto della domanda dell’attore, secondo cui, risultando entrambi i contratti de quibus stipulati ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 2, comma 1 bis perciò senza bisogno di specifica e rilevante causale, non occorreva di conseguenza fornire alcuna prova al riguardo, non bastando evidentemente l’avverbio inopinatamente adoperato in proposito, come accennato nell’ultimo capoverso di pag. 11 del ricorso per cassazione. Nè la sentenza di appello precisa quali furono i motivi di gravame sul punto addotti dal C., sicchè nemmeno può escludersi che ad abundatiam la motivazione abbia pure fatto riferimento al concreto riscontro testimoniale relativamente al secondo contratto circa i picchi di più intensa attività;

del resto, anche sotto il profilo della logica e della ragionevolezza, nemmeno si comprendono le ragioni per le quali la stessa parte datoriale con il primo contratto avrebbe sicuramente fatto ricorso all’art. 2, comma 1 bis e non anche per il secondo, stipulato a distanza di qualche mese, ciò che invece risulta indubbiamente smentito dalle surriferite emergenze processuali;

per altro verso, anche sotto il profilo formale, le doglianze di cui all’anzidetto unico motivo di ricorso risultano inammissibili, laddove l’asserita violazione degli artt. 416 e 244 c.p.c. implica errores in procedendo e non già in iudicando, come invece erroneamente opinato da parte ricorrente, sicchè le relative censure andavano ritualmente ed univocamente dedotte in termini di nullità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; parimenti dicasi per ciò che attiene all’asserito vizio di motivazione, come tale non deducibile ex art. 360 c.p.c., n. 5 (secondo l’attuale sua vigente formulazione, qui ratione temporis applicabile con riferimento alla sentenza de qua, risalente all’anno 2016), vizio di motivazione che, ove in violazione del c.d. minimo costituzionale, perciò degli artt. 111 Cost., art. 132 c.p.c., n. 4 e art. 118 disp. att. codice di rito, integra anch’esso error in procedendo, quindi denunciabile come sopra ex art. 360, n. 4;

invero, la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da “error in procedendo”, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. sez. un. civ. n. 22232 del 03/11/2016). Sul punto, inoltre, occorre richiamare il principio, ormai consolidato, affermato dalle Sezioni unite civili di questa Corte con le sentenze nn. 8053 e 8054 in data 7/4/2014, secondo cui la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134 deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione soltanto l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. altresì Cass. VI civ. – 3, n. 21257 in data 8/10/2014, secondo cui dopo la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, l’omessa pronunzia continua a sostanziarsi nella totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente perfino di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto; al contrario, il vizio motivazionale previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia pur sempre stato da parte del giudice di merito, ma che esso sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico, oppure che si sia tradotto nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa, invece, qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. Conforme Cass. Sez. 6 – 3 n. 23828 del 20/11/2015.

V. ancora Cass. III civ. n. 23940 del 12/10/2017: in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 con. con modi., dalla L. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto” storico, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia. Parimenti, secondo Cass. sez. 6 – 3, Ordinanza n. 22598 del 25/09/2018, in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6, e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione – per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile – e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4);

quanto, poi, agli artt. 115 e 116 c.p.c., la censura non precisa in quali specifici termini tali norme sarebbero state violate, dovendo aversi riguardo soltanto a fatti primari specificamente allegati ma non chiaramente contestati ex adverso con conseguente ammissione, nonchè al libero e prudente apprezzamento da parte del competente giudice di merito, di regola insindacabile in sede di legittimità (v. Cass. lav. n. 17966 del 13/09/2016, secondo cui il principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c. e art. 416 c.p.c., comma 2, riguarda solo i fatti c.d. primari, costitutivi, modificativi od estintivi del diritto azionato, e non si applica alle mere difese.

Cass. Sez. 6 – 3, ordinanza n. 26769 del 23/10/2018: in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c..

Cass. II civ., sentenza n. 11176 – 08/05/2017: nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove – salvo che non abbiano natura di prova legale – il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti. Il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purchè risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati. Cass. III civ. n. 23940 del 12/10/2017: il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012.

Cass. II civ. n. 24434 del 30/11/2016: in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità.

Cfr. ancora Cass. V civ. n. 2090 del 4/2/2004, secondo cui in tema di accertamento dei fatti storici allegati dalle parti a sostegno delle rispettive pretese, i vizi motivazionali deducibili con il ricorso per cassazione non possono consistere nella circostanza che la determinazione o la valutazione delle prove siano state eseguite dal giudice in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè a norma dell’art. 116 c.p.c. rientra nel potere discrezionale – e come tale insindacabile – del giudice di merito individuare le fonti del proprio convincimento, apprezzare all’uopo le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le varie risultanze istruttorie, quelle ritenute idonee e rilevanti con l’unico limite di supportare con adeguata e congrua motivazione l’esito del procedimento accertativo e valutativo seguito. Conformi, tra le altre, Cass. lav. n. 11505 del 21/06/2004, III civ. n. 22985 del 07/12/2004, sez. lav. n. 1380 del 25/01/2006.

V. altresì Cass. III civ. n. 11892 del 10/06/2016, secondo cui pure il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma del vigente art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio – nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4 – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante. Conforme Cass. I civ. n. 23153 del 26/09/2018);

quanto, poi, in particolare all’art. 360 c.p.c., n. 5, parte ricorrente non ha indicato precisamente alcuno specifico fatto, in senso storico, rilevante e decisivo, il cui esame sia stato omesso dai giudici di merito;

circa, infine, l’art. 2697 c.c., detta norma regola esclusivamente l’onere probatorio e non già l’apprezzamento relativo al contenuto delle risultanze processuali prudentemente valutabili dal giudice di merito ai fini del suo convincimento, come tale insindacabile in sede di legittimità, comunque in atti acquisite (v. tra le altre Cass. V civ. n. 739 del 19/01/2010: il principio relativo all’onere della prova, di cui all’art. 2697 c.c., non implica affatto che la dimostrazione dei fatti costitutivi del diritto preteso debba ricavarsi esclusivamente dalle prove offerte da colui che è gravato del relativo onere, senza poter utilizzare altri elementi probatori acquisiti al processo, poichè nel vigente ordinamento processuale, anche tributario, vale il principio di acquisizione, secondo il quale le risultanze istruttorie, comunque ottenute e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale sono formate, concorrono tutte, indistintamente, alla formazione del convincimento del giudice, senza che la diversa provenienza possa condizionare tale formazione in un senso o nell’altro. In senso analogo Cass. III civ. n. 8951 del 18/04/2006, secondo cui nel vigente ordinamento processuale, per il principio di acquisizione, le risultanze istruttorie comunque ottenute, quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale si sono formate, concorrono tutte indistintamente alla formazione del convincimento del giudice. Invero, il principio dell’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c. non comporta che la prova dei fatti costitutivi della domanda debba desumersi unicamente da quanto dimostrato dalla parte onerata, senza potersi utilizzare altri elementi acquisiti al processo, poichè esso assolve alla limitata funzione di individuare la parte che deve risentire delle conseguenze del mancato raggiungimento della prova dei fatti della cui prova è gravata. Conformi, tra le varie, Cass. III civ. n. 10847 in data 11/05/2007. Parimenti, Cass. III civ. n. 362 del 10/02/1972, sebbene più risalente, secondo cui se è vero che, ai sensi dell’art. 2697 c.c. ciascuna delle parti ha l’onere di provare i fatti che allega e dai quali pretende che derivino conseguenze giuridiche a suo favore, tuttavia tale principio non è operante ai fini della decisione della causa quando il giudice può desumere il proprio convincimento sulla verità dei fatti stessi dagli elementi probatori già acquisiti al processo e da chiunque forniti. Conforme Cass. n. 3941 del 1969); la sentenza impugnata, pertanto, va confermata nei sensi di cui sopra, così integrata anche la sua motivazione, mediante il rigetto del ricorso;

di conseguenza, la parte rimasta soccombente va condannata la rimborso delle relative spese;

essendo risultata, infine, l’impugnazione del tutto infondata, ricorrono i presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

PQM

la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle relative spese, che liquida, a favore della società controricorrente, in complessivi Euro =3500,00= (tremilacinquecento/00) per compensi professionali ed in Euro 200,00 (duecento/00) per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza deì presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 20 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2019

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