Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24873 del 06/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 06/11/2020, (ud. 31/01/2020, dep. 06/11/2020), n.24873

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – rel. Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A. P. – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22962-2013 proposto da:

P.S. & C. S.A.S., in persona del legale rappresentante

pro tempore, B.S. E P.S., in proprio e in

qualità di soci della P.S. & C. S.A.S., elettivamente

domiciliati in ROMA VIA VIGLIENA 2, presso lo studio dell’avvocato

MARIO DI BIAGIO, rappresentati e difesi dall’avvocato FRANCO MASSIMO

BAMBAGIONI;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 8/2013 della COMM. TRIB. REG. di FIRENZE,

depositata il 25/02/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

31/01/2020 dal Consigliere Dott. ROSITA D’ANGIOLELLA.

 

Fatto

RITENUTO

che:

Con distinti avvisi di accertamento, per l’anno 2005, l’Agenzia delle entrate accertava, in capo alla società P.S. & C. s.a.s., maggiori imposte fini Irap ed Iva, ed accertava, di conseguenza, in capo ai soci, P.S. e B.S., maggiori redditi ai fini delle imposte dirette, oltre interessi e sanzioni.

La società contribuente ed i soci, con separati ricorsi, proponevano ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Firenze deducendo l’illegittimità e l’erroneità degli avvisi, in quanto basati su di una serie di presunzioni e prove logiche infondate. In tale giudizio, l’Amministrazione controdeduceva che l’accertamento era del tutto legittimo e fondato.

La Commissione tributaria provinciale, riuniti i ricorsi, li rigettava.

La società ed i soci proponevano appello innanzi alla Commissione tributaria regionale della Toscana, che, con la sentenza in epigrafe, respingeva integralmente l’appello.

La società ed i soci hanno proposto ricorso per Cassazione avverso tale sentenza deducendo tre motivi.

Resiste con controricorso l’Amministrazione finanziaria.

La società ed i soci hanno presentato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

Con il primo motivo di ricorso, i ricorrenti deducono la nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 112 c.p.c., e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omessa pronuncia sulla domanda svolta in appello dai contribuenti relativamente all’errata applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d, del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 25, e del D.Lgs. n. 633 del 1972, art. 54.

In disparte la considerazione che una sentenza che abbia una motivazione incompleta o implicita non è nulla qualora dal complesso della motivazione se ne tragga (come nella specie) l’iter logico e giuridico seguito dal giudice per la decisione finale e sempre che vi sia coerenza e conseguenzialità tra motivazione e dispositivo, nella specie, il motivo in esame, nelle sue complessive doglianze, appare sottendere una richiesta di revisione delle valutazioni e delle conclusioni raggiunte dal giudice di merito, che, tuttavia, sono insindacabili in questa sede, rendendo il mezzo inammissibile in quanto implicante “una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito” (così, Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 8758 del 04/04/2017, Rv. 643690-01).

I ricorrenti richiedono, nella sostanza, una rivalutazione della sussistenza di presunzioni gravi, precise e concordanti di maggior reddito, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d), poichè nel motivo insistono sulla regolarità scritture contabili e ciò nonostante, secondo i principi affermati da ampia giurisprudenza di questa Corte, in tema d’imposte sui redditi, è legittimo il ricorso all’accertamento analitico-induttivo del reddito d’impresa, D.P.R. n. 29 settembre 1973, n. 600, ex art. 39, comma 1, lett. d), anche in presenza di una contabilità formalmente corretta ma complessivamente inattendibile, potendosi, in tale ipotesi, evincere l’esistenza di maggiori ricavi o minori costi in base a presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente (cfr., ex plurimis, Sez. 5, Sentenza n. 23550 del 05/11/2014, Rv. 632959-01).

Con il secondo motivo di ricorso, i ricorrenti deducono nuovamente la nullità della sentenza e del procedimento per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, e dell’art. 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per carenza assoluta di motivazione sulla domanda svolta in appello dai contribuenti laddove respinge, nel merito, l’appello proposto dai contribuenti motivando la propria decisione con un semplice richiamo letterale al testo del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32.

Il motivo è infondato.

La sentenza della Commissione tributaria regionale non incorre nel vizio di omessa motivazione, in quanto la motivazione, per quanto stringata, rappresenta comunque la sua “ratio decidendi” (sui parametri minimi di motivazione, cfr. Sez. U., 07/04/2014 n. 8053 e 03/11/2016 n. 22232). Leggendo la parte motiva della sentenza, unitamente alla narrazione dei fatti e delle richieste delle parti formulate in entrambi i giudizi di merito e puntualmente descritte nella parte narrativa della sentenza impugnata, emerge chiaramente il procedimento logico-giuridico seguito dal giudice a quo.

Ed infatti, la ratio decidendi della sentenza si coglie attraverso le enunciazioni in essa contenute, quali, in primo luogo, la legittimità dell’accertamento analitico induttivo, enunciazione che si trae implicitamente dal fatto che i secondi giudici riportano tale questione come la prima rilevata e dibattuta tra le parti già in primo grado nonchè dal fatto che la risolvono nel senso del rigetto della tesi degli appellanti; in secondo luogo, i secondi giudici affermano la prevalenza degli elementi indiziari addotti dall’Ufficio rispetto a quelli offerti in controprova dai contribuenti e ciò, sul rilievo, che a mente della L. n. 28 del 1999, art. 25 recante modifiche al D.P.R. n. 600 del 1973 ed al D.P.R. n. 633 del 1972, e segnatamente al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 32, “Le notizie ed i dati non addotti e gli atti, i documenti, i libri ed i registri non esibiti o non trasmessi in risposta agli inviti dell’ufficio non possono essere presi in considerazione a favore del contribuente, ai fini dell’accertamento in sede amministrativa e contenziosa”. Inoltre, seguendo tale iter argomentativo, la Commissione ha ritenuto l’inutilizzabilità degli elementi offerti dagli appellanti a discarico, accogliendo, anche in parte qua, la tesi dell’Ufficio che aveva fondato la sua pretesa anche su tale previsione legislativa, come risulta dalla trascrizione della relativa deduzione che ne fa la Commissione nella parte narrativa della sentenza. Infine, sempre nel merito, la Commissione si sofferma sui costi ritenendo legittimo il metodo di calcolo seguito dall’Ufficio ed attribuendo i costi all’annualità 2004, con scomputo per il 2005. Sul punto, l’Ufficio- come si ricava dalla sentenza e come è pacifico tra le parti – aveva effettuato una ricostruzione presuntiva dei maggiori ricavi dichiarati perchè aveva individuato una diversa percentuale del costo di ricarico negli appalti pubblici rispetto a quelli privati, modalità di calcolo ritenuta corretta dai secondi giudici.

E’ evidente, dunque, che le enunciazioni contenute nella sentenza impugnata soddisfano l’obbligo motivazionale, essendo in essa chiaramente argomentate le ragioni per le quali sono state accolte le contestazioni dell’Ufficio e sono state respinte quelle dei contribuenti nonchè argomentando le ragioni di fatto e di diritto sulle quali si è basata la decisione. Con il terzo motivo i ricorrenti deducono il vizio di legge della sentenza impugnata là dove richiamano l’applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, in merito alla mancata allegazione di atti e documenti da parte dei contribuenti.

Il mezzo è inammissibile perchè con esso i ricorrenti non deducono alcuna violazione di legge, ma contestano un giudizio di fatto del giudice di appello circa la diversità della documentazione prodotta in giudizio rispetto a quella fornita all’Amministrazione in sede di contraddittorio; inoltre, sotto il paradigma della violazione di legge, i ricorrenti propongono, in realtà, una ricostruzione analitico-induttiva del reddito diversa quella ritenuta fondata dal giudice di merito.

Va qui ribadito il principio di diritto affermato da questa Corte secondo cui: “Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione,

contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.” (così, Sez. 6-5, Ordinanza n. 9097 del 07/04/2017, Rv. 643792-01; cfr. altresì, Sez. 6 -3, Ordinanza n. 8758 del 04/04/2017, Rv. 643690-01).

Il ricorso va, dunque, rigettato.

Le spese seguono la soccombenza della società ricorrente e si liquidano come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente che liquida in complessivi Euro 3.500,00, oltre spese prenotate a debito. La parte ricorrente è tenuta al versamento, D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della V sezione civile della Corte di Cassazione, il 31 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 novembre 2020

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