Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24873 del 04/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 04/10/2019, (ud. 19/02/2019, dep. 04/10/2019), n.24873

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1222-2015 proposto da:

M.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI GRACCHI

123, presso lo studio dell’avvocato RAIMONDO DETTORI, rappresentato

e difeso dall’avvocato CESARE BOSCHI;

– ricorrente –

contro

P.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE G. MAZZINI

140, presso lo studio dell’avvocato PIERLUIGI LUCATTONI, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato PIERLUIGI OLIVIERI;

– controricorrente –

avverso la sentenza non definitiva n. 291/2013 della CORTE D’APPELLO

CAGLIARI – SEZ. DIST. DI SASSARI, depositata il 19/12/2013 R.G.N.

52/2013;

avverso la sentenza n. 304/2014 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI

SEZ.DIST. DI SASSARI, depositata il 11/12/2014 R.G.N. 52/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

19/02/2019 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELENTANO CARMELO, che ha concluso per l’accoglimento del terzo

motivo;

udito l’Avvocato CESARE BOSCHI;

udito l’Avvocato ROBERTO MARINEO per delega verbale Avvocato

PIERLUIGI LUCATTONI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Cagliari – sez. distaccata di Sassari – con sentenza n. 291 in data 11 / 19 dicembre 2013, non definitivamente pronunciando sul gravame interposto da P.M. contro M.G., avverso la decisione n. 264, pronunciata il 28 febbraio 2012 dal locale giudice del lavoro, dichiarava intercorso tra costoro un rapporto di lavoro subordinato dal gennaio 1996 sino al 31 maggio 2002, per una mansione inquadrabile nel terzo livello di cui al c.c.n.l. studi professionali.

La Corte distrettuale, dopo aver dato atto delle difese svolte nell’interesse anche dell’appellato (secondo cui l’appellante con lui intratteneva sporadiche collaborazioni anche con terzi; che non aveva mai percepito un compenso fisso, ciò che non risultava neppure provato; che il contratto di lavoro subordinato non corrispondeva alla realtà; che non erano state mai espletate le mansioni indicate al capo C del ricorso introduttivo; che in ogni caso non erano stati forniti gli elementi necessari per dimostrare un rapporto di lavoro subordinato e che non era stata provata l’asserita mansioni superiore), giudicava fondato l’interposto gravame, evidenziando soprattutto che nel giugno del 2002 intervenne tra le parti un contratto di lavoro subordinato. Era risibile la giustificazione fornita dal convenuto, secondo cui si era trattato di un favore fatto al collaboratore mediante la finzione di un rapporto di subordinazione, che tuttavia obbligava l’ingegner M. all’erogazione di una retribuzione e della relativa contribuzione, ciò che non aveva trovato alcun riscontro. Secondo la Corte sassarese, con la stipula del contratto in questione e la erogazione di retribuzione con busta paga era stato evidentemente ammesso un rapporto subordinato dalla data indicata sino alle dimissioni. Peraltro, detto rapporto non appariva diverso in alcun modo da quello precedente, risultando concordemente da tutte le deposizioni, sia di parte attrice che convenuta, che la modalità della prestazione non era cambiata dopo il giugno del 2002. Di conseguenza, se da tale epoca era stato intrattenuto un rapporto subordinato era evidente che anche prima lo stesso tipo di rapporto intercorreva tra le due parti.

D’altronde, la teste R. aveva riferito che il P. tutti i giorni prestava la sua attività mattina e pomeriggio, che egli se si assentava doveva avvertire e che il M. lo inviava in vari cantieri. Anche il teste D. aveva dichiarato che l’appellante restava tutto il giorno in studio perchè faceva tutto lui. La teste B. aveva a sua volta dichiarato di averlo visto tutti i giorni allo studio eseguire gli incarichi conferitigli dal M.. Tutti questi testi erano stati tirocinanti nello studio dell’appellato per diversi anni durante il periodo indicato, sicchè erano particolarmente qualificati, in quanto oltre alla frequentazione giornaliera del luogo di lavoro avevano avuto diretta percezione dei rapporti tra l’una e l’altra delle parti in lite ed avevano tutti riferito che il P. aveva lavorato per M., confermando così ciò che risultava dalla documentazione.

Le deposizioni degli altri testi non erano, invece, sufficienti ad inficiare la validità dell’anzidetta ricostruzione: il Ma. potrebbe avere avuto interessi propri, visto che alcune volte aveva incaricato il P. di piccole attività. Comunque, aveva soltanto lo studio allo stesso stabile, di modo che non poteva certo affermarsi che avesse una conoscenza e una frequentazione continua. Il teste C. aveva dichiarato che non sempre aveva trovato il P. allo studio, dovendosi però ricordare che il predetto veniva inviato ai cantieri e agli uffici dal M.. Il teste aveva inoltre riferito di conoscere, ma non risultando la fonte di tale sapere, che il P. faceva lavori per conto suo e che per lui aveva eseguito alcune planimetrie integrative di un impianto di itticoltura, nonchè che aveva curato una sanatoria di un garage per un tale m. su indicazione del M..

Pertanto, il rapporto doveva ritenersi di natura subordinata tra le parti sin dal suo inizio. Circa l’inquadramento, non risultava adeguato il quarto livello, essendovi inseriti soltanto i lavoratori con mansioni meramente di ordine, mentre poteva riconoscersi il diritto al terzo livello, poichè non si occupava di coordinamento di guida di altri lavoratori, ma solo di guida dei tirocinanti, risultando d’altro canto certamente provato lo svolgimento di mansioni di concetto o di attività polivalenti, mediante misurazioni, con tutti i medici, progettazioni e calcoli strutturali, ancorchè sotto la supervisione la responsabilità del M., nonchè di pratiche catastali e dei tirocinanti da lui seguiti costantemente e che a lui si rivolgevano per qualunque dubbio o problema.

Andava, pertanto, riconosciuto un rapporto di lavoro subordinato, come domandato, ma con inquadramento al terzo livello e diritto alle differenze retributive da determinarsi tramite c.t.u.. Quindi, la medesima Corte territoriale, definitivamente pronunciando sull’anzidetta impugnazione, con sentenza n. 304 in data 26 novembre – 11 dicembre 2014, non notificata, condannava il convenuto appellato M.G. al pagamento, in favore del P., della complessiva somma di Euro 88.542,40 per differenze retributive, oltre accessori di legge e spese di lite, relative al doppio grado del giudizio, all’esito di apposita c.t.u. contabile concernente l’arco temporale gennaio 1996 – 9 marzo 2005, data questa di cessazione del rapporto a causa delle dimissioni rassegnate dal P..

Entrambe le due sentenze sono state, quindi, impugnate dal M. con ricorso per cassazione in data 18-12-2014 (giudizio di primo grado risalente all’anno 2006), affidato a tre motivi, cui ha resistito P.M., mediante controricorso del 27 gennaio 2015.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 il ricorrente ha lamentato violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2094 c.c. in ordine alla natura subordinata del rapporto de quo, ritenuta dalla Corte territoriale, nonchè dell’art. 2697 c.c. per violazione delle regole concernenti l’onere della prova in relazione agli elementi della subordinazione, ed ancora dell’art. 115 c.p.c. sulla disponibilità delle prove. Con lo stesso motivo, inoltre, il ricorrente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ha denunciato omissione della motivazione per violazione dell’art. 132 dello stesso codice di rito.

Si è sostenuto, in particolare, che era preciso onere del geometra P. dimostrare resistenza di tutti gli elementi della subordinazione: l’inserimento nell’organizzazione datoriale, l’assenza di rischio, l’assoggettamento al potere direttivo e disciplinare, l’esistenza di un vincolo orario, l’esistenza di una retribuzione fissa e quant’altro caratterizzante la dipendenza. L’attore in primo grado non solo non aveva positivamente assolto tale onere probatorio, ma non aveva mai neppure allegato l’esistenza di alcuno di detti elementi. Infatti, con il ricorso introduttivo del giudizio degli aveva dedotto esclusivamente l’esistenza di mansioni di geometra disegnatore, rilevatore e coordinatore del personale dello studio (capo A del ricorso), l’orario di lavoro osservato (capo D, senza neppure indicare se fosse a lui imposto e se egli fosse obbligato a rispettarlo), la retribuzione (capo E prima di Lire 400.000 e poi di Euro 300). Il P. aveva soltanto chiesto di provare le prime due circostanze, nonchè il periodo di lavoro, articolando prova per testi sull’attività svolta e sugli orari osservati in determinati periodi (in via istruttoria aveva chiesto interrogatorio formale del convenuto ingegner M.G. sui capi da a) a f) del ricorso, nonchè prova per testi sui capi a-b-c-d). Non vi era stato, dunque, alcun riferimento all’eterorganizzazione e all’eterodirezione della dedotta attività di lavoro, all’esistenza di un preciso vincolo orario da rispettare e all’esistenza di un potere direttivo e disciplinare su di lui esercitato, nè di un compenso fisso.

Tali carenze avevano caratterizzato anche l’atto di appello proposto dal medesimo a seguito di rigetto della propria domanda da parte del tribunale.

Il ricorrente si era meramente attardato ad allegare quale tipo di lavoro svolgesse per l’ingegner M., ma senza minimamente nè dedurre nè dimostrare gli elementi della subordinazione, neppure quelli sussidiari.

Il convenuto, titolare di studio professionale in Sassari, aveva invece dedotto che l’attività allegata dalla controparte si era svolta sempre in forma autonoma, che non rispondeva a verità il fatto che il P. avesse lavorato alle sue dipendenze da gennaio 1996 sino al 31 maggio 2002, epoca anteriore all’instaurazione del rapporto di lavoro subordinato, nè che avesse mai rispettato alcun orario o esplicato mansioni indicate nel ricorso introduttivo, neanche durante il successivo periodo di lavoro, dipendente, dal giugno dell’anno 2002 sino al 9 marzo 2005.

Peraltro, il geometra P., mantenendo la sua autonomia professionale, risultava titolare di un proprio personale domicilio professionale fiscale in (OMISSIS), ben distinto dallo studio dell’ingegner M., situato in (OMISSIS).

Inoltre, l’appellato aveva immediatamente eccepito l’inconferenza dell’allegazione avversaria, peraltro del tutto nuova siccome non dedotta in primo grado, secondo cui si trattava del classico caso di falsa partita IVA, aperta al solo scopo di mascherare un rapporto subordinato con un rapporto di collaborazione o d’opera esterno, ciò con riferimento alle due fatture versate in atti dal convenuto in primo grado, fatture che l’ingegner M. ribadiva essere state prodotte a campione. Dette fatture dimostravano che il P. fatturava in proprio nell’anno 2001, quand’era ancora collaboratore autonomo dell’ingegner M., e aveva continuato a fatturare in proprio nell’anno 2005, quando certamente non lavorava più nello studio del M. ed aveva ripreso le sporadiche collaborazioni autonome. Infatti, la seconda di dette fatture, la n. (OMISSIS), era stata emessa ben oltre due mesi dopo le dimissioni rassegnate il 9 marzo 2005. L’ingegner M. anche in appello aveva ribadito come il geometra P., oltre alla collaborazione intrattenuta con lui, intrattenesse propri rapporti professionali con suoi clienti esclusivi, incassando direttamente da costoro il compenso per l’opera resa. Nello stesso ricorso d’appello a pagina 3 era stato dedotto come non potesse rilevare il fatto che esso P. avesse potuto svolgere in tutti quegli anni dal 1996 sino a 2005 qualche prestazione professionale a terzi. Restava così fatto imprescindibile che il P. aveva confessato la circostanza.

Alla stregua delle anzidette e di altre analoghe circostanze, secondo il ricorrente M., in base all’esposto quadro probatorio, l’aver ignorato la Corte d’Appello gli addotti elementi rendeva le sentenze impugnate prive di esposizioni in ordine alle ragioni della decisione, con particolare riguardo alla valutazione delle prove offerte. Nel caso di specie non era stato esplicitato il percorso logico – argomentativo delle decisioni impugnate, poichè la motivazione aveva omesso di considerare argomenti prospettati e/o le prove addotte da parte appellata e/o addirittura parziali confessioni dell’appellante, o sue palesi carenze in termini di allegazioni e prove, elementi tutti che, in quanto suscettibili di condurre a ben diversa soluzione, avrebbero potuto essere decisivi e avrebbero dovuto formare oggetto di maggiore ponderazione, sicchè la motivazione illustrata nelle sentenze de quibus si rivelava meramente apparente. In realtà, obliterando completamente l’onere della prova gravante sull’attore e financo gli elementi sui quali tale prova doveva essere raggiunta, il giudice d’appello aveva fondato la sua pronuncia su di una mera personalistica presunzione, peraltro contrastata espressamente dalle prove in causa, presunzione sintetizzata nel fatto che nel giugno del 2002 tra le parti intervenne un contratto rapporto di natura subordinata, sicchè se da tale data si intratteneva un rapporto subordinato era evidente che anche prima lo stesso tipo di rapporto interconnesse tra le parti. Per contro, nulla il P. aveva dedotto e anche provato sulla natura subordinata del rapporto dall’anno 1996 al maggio 2002 e anzi vi era l’antinomica testimonianza di CO.An., il quale aveva potuto constatare che l’attività svolta dal P. era rimasta invariata dopo la sua formale assunzione, nel senso che aveva continuato ad operare in autonomia. La presunzione – preconcetto – della Corte territoriale poggiava, quindi, sul nulla. Anche per il resto la Corte aveva dato una lettura scorretta, parziale e fuorviante delle prove testimoniali acquisite, senza cogliere gli aspetti messi in rilievo dal tribunale e senza tener conto delle stesse ammissioni del P., con motivazione che nei fatti si rivelava meramente apparente e certamente affetta da vizi logici e giuridici.

Contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d’Appello, in realtà la prova offerta dalla teste R.P.M. all’udienza del 26 settembre 2008 fu del seguente tenore: “Credo che il P. e il M. si fossero accordate sull’orario di lavoro. Se si assentava, il P. doveva avvertire il convenuto. Alcune volte il convenuto diceva ricorrente di recarsi nei vari cantieri. Per il resto nulla so”. Questa era stata l’unica testimonianza che aveva riportato tali fatti, però contraddetta da altre testimonianze, laddove per giunta la teste si era espressa in termini di probabilità, e non di certezza, avendo usato il verbo credere.

In ogni caso, avvertire la propria assenza costituiva segno di civiltà all’interno di uno studio professionale in cui operavano vari soggetti, mentre neppure dalle allegazioni del diretto interessato emergeva che costui dovesse chiedere il permesso di assentarsi, prima di farlo, nè che dovesse poi giustificare l’assenza il fatto che il M. chiedesse al P. a volte di recarsi in qualche cantiere non rappresentava certo sicuro elemento di subordinazione, trattandosi di attività oggettivamente neutra, perciò svolgibile anche nelle forme della collaborazione autonoma. Anche teste D.F. non aveva confermato l’esistenza di un vincolo di orario, avendo soltanto dichiarato che il P. era costretto a rimanere in studio soltanto in ragione delle molte cose da fare e non per un preciso obbligo impostogli dal M.. La teste B.M. aveva dichiarato di aver visto il P. eseguire al computer progettazione sulla base delle direttive che gli dava il convenuto, sicchè anche in questo caso appariva arduo voler inferirne l’esistenza di un potere direttivo del M., neppure adombrato dal ricorrente nei suoi stessi atti e che neppure egli aveva chiesto di provare. Gli anzidetti elementi erano stati gli unici analizzati dalla Corte d’Appello per pervenire al giudizio finale di riconoscimento della subordinazione, Corte che peraltro non aveva in alcun modo valutato la totale assenza di ogni elemento, anche sussidiario, della pretesa subordinazione. Sulla scorta del preconcetto iniziale aveva, invece, reputato sufficiente la mera prova dell’attività svolta dal P. per concludere che essa avesse natura subordinata. Aveva, per contro, totalmente pretermesso i motivi per i quali, pur in assenza di elementi specifici della subordinazione, aveva optato per la sussistenza di questa.

Poichè, peraltro, esistevano testimonianze assolutamente certe nell’escludere il vincolo di subordinazione, per seguire la sua tesi la Corte aveva inteso smontarle con affermazione del tutto aprioristiche e altrettanto preconcette, quale ad esempio l’ipotizzata inattendibilità di teste Ma., architetto che invece aveva lo studio nello stesso appartamento dell’ingegner M. come ricordato dalla teste R., sicchè il predetto aveva invece piena conoscenza diretta di quanto avveniva nello studio. Parimenti inconferente appariva il non chiaro iter logico – giuridico in base al quale era stata ritenuta inattendibile la testimonianza resa da C.A. all’udienza del 14 luglio 2009, il quale aveva però dichiarato che negli anni dal 1995 al 2000 si era recato spesso nello studio del M., quasi tutte le sere dopo le 17 e alle volte di mattina, ma non sempre vi aveva trovato il ricorrente, sicchè trattandosi prevalentemente di visite dopo le ore 17, quindi dopo la consueta chiusura dei cantieri, l’assenza del P. in tali orari pomeridiani non poteva di certo attribuirsi al fatto che fosse stato inviato dal M. in attività esterne.

Di tutte le altre testimonianze, contrarie alle tesi dell’attore la Corte non aveva fatto minimamente menzione in sentenza, donde quantomeno una situazione di oggettiva incertezza probatoria, nel cui ambito il giudice doveva ritenere che l’onere della prova a carico dell’attore non fosse stato assolto, non potendosi quindi propendere per la natura subordinata del rapporto (giusta la pronuncia di Cassazione sezione lavoro 28 settembre 2006 n. 21028 (invero così massimata – Rv. 592396 – 01, cassando con rinvio l’impugnata sentenza risalente 4 Agosto 2003, perciò applicando anche il vecchio testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ben diverso da quello attualmente vigente:

“L’elemento che contraddistingue il rapporto di lavoro subordinato rispetto al rapporto di lavoro autonomo, è l’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo e disciplinare del datore di lavoro, con conseguente limitazione della sua autonomia ed inserimento nell’organizzazione aziendale, mentre altri elementi, quali l’assenza di rischio, la continuità della prestazione, l’osservanza di un orario e la forma della retribuzione assumono natura meramente sussidiaria e di per se non decisiva; sicchè qualora vi sia una situazione oggettiva di incertezza probatoria, il giudice deve ritenere che l’onere della prova a carico dell’attore non sia stato assolto e non già propendere per la natura subordinata del rapporto”. Nella specie, quindi, veniva cassata, per contraddittorietà della motivazione, la sentenza di merito che, in un giudizio di opposizione avverso un’ordinanza-ingiunzione emessa dall’I.N.P.S. per il pagamento di oneri contributivi omessi in relazione a rapporti di lavoro non regolarizzati con riguardo ad alcune operatrici telefoniche dell’associazione “S.O.S. Infanzia. Il Telefono Azzurro”, aveva valorizzato, onde ritenere la natura, subordinata dei rapporti di lavoro, meri elementi di contorno, di per se non decisivi, quali la misura dell’orario, la modalità di determinazione del compenso, i limiti dell’autonomia delle collaboratrici e la circostanza che il presidente dell’associazione impartisse delle direttive e desse delle regole, senza tener conto dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa e della volontà di costituire rapporti di lavoro autonomo espressa dalle parti negli accordi negoziali)).

Con il secondo motivo di ricorso è stato dedotto l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 in relazione all’assenza di un compenso fisso, in stretta connessione con il precedente motivo. Infatti, il P. dal gennaio 1996 al 31 maggio 2002 non ha mai percepito alcun compenso fisso, laddove con il suo ricorso introduttivo egli aveva semplicemente enunciato l’esistenza di un tale compenso fisso, ma il relativo capo era stato escluso nella richiesta prova testimoniale, sicchè la circostanza era rimasta a livello di mero assunto. Al riguardo erano stati sentiti vari testimoni, ma uno solo era stato categorico in senso negativo, laddove la – teste R.P.M., indicata dall’attore, aveva così dichiarato: “sapevo che il P. non percepiva un compenso fisso prima del giugno 2002. Alcune volte mi chiamava sua madre lamentandosi proprio di ciò”. In termini analoghi si era espresso il teste C. all’udienza del 14 luglio 2009. Era stato pertanto dimostrato che dal gennaio 1996 al 31 maggio 2002 il P. non aveva ricevuto alcun compenso fisso, fatto che valutato pure alla stregua di quanto menzionato nella giurisprudenza citata dalla controparte risultava estremamente decisivo al fine di escludere che l’attività in parola fosse di natura subordinata, ma in ordine a tale circostanza la Corte territoriale aveva omesso ogni valutazione in motivazione. Tale fatto, considerato unitamente alla prova della sola attività svolta dal P. in assenza di altri elementi della subordinazione, avrebbe dovuto determinare il giudice di appello al rigetto della domanda, conformemente alla decisione assunta dal tribunale in primo grado, che anche tale circostanza negativa aveva debitamente preso in considerazione.

Con il terzo motivo, infine, parte ricorrente ha denunciato violazione e/o falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., del principio della domanda, del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, del principio tantum devolutum quantum appellatum – extrapetizione – nonchè dell’art. 2909 c.c., tanto in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Inoltre, parte ricorrente ha contestualmente eccepito nullità delle sentenze impugnate per totale omissione della motivazione in violazione dell’art. 132 c.p.c. – violazione del procedimento – tanto con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4.

I suddetti vizi inficiavano irrimediabilmente la sentenza definitiva, n. 304 del 2014, con la quale si era preso atto delle risultanze della c.t.u., disposta a seguito della pronuncia parziale. Infatti, nelle conclusioni dell’atto di appello era stato chiesto di accertare il rapporto di lavoro subordinato alle dipendenze del M. dal 1 gennaio 1996 al 31 maggio del 2002, arco temporale in relazione al quale era stato altresì chiesto l’inquadramento con riferimento al secondo livello previsto dal contratto collettivo nazione di lavoro. In appello l’ingegner M. aveva preliminarmente osservato, nel costituirsi in giudizio, che l’appellante P., chiedendo di accettare il vincolo di dipendenza dal gennaio 1996 al 31 maggio 2002, aveva così esplicitamente abbandonato ogni rivendicazione relativa alle asserite superiori mansioni svolte nel diverso periodo giugno 2002 – 9 marzo 2005, di modo che sul punto si era anche formato conseguente giudicato negativo per l’appellante. Il difetto di ogni domanda relativamente al secondo periodo era stato inizialmente valutato dalla Corte d’Appello nella sentenza parziale n. 291/2013, sebbene implicitamente, laddove erano state altresì riportate le conclusioni dell’appellante concernenti l’arco temporale gennaio 1996 – maggio 2002, con riferimento alla somma di Euro 101.394,09 per differenze retributive, oltre accessori e regolarizzazione della posizione contributiva. Risultava così evidente che la Corte territoriale esaminava l’appello nei limiti di quanto devolutole, ovvero con riferimento soltanto al periodo compreso tra gennaio 1996 e il maggio 2002. Tuttavia, in prosieguo di giudizio il quesito posto al c.t.u. faceva riferimento a tutto il periodo lavorativo di cui al ricorso, senza precisare se si trattasse di quello introduttivo del giudizio o di quello di appello. Il consulente, quindi, aveva predisposto una bozza di relazione che conteggiava le differenze retributive per l’intero periodo, ivi compreso quindi quello successivo alla stipula del contratto di lavoro subordinato dal giugno 2002 al 9 marzo 2005. Quindi, l’ausiliare aveva tenuto conto delle osservazioni proposito presentate nell’interesse dell’appellato, avuto riguardo alle conclusioni dell’atto di appello ed a quanto per l’effetto deciso con la sentenza parziale, che aveva accertato la natura subordinata del rapporto limitatamente al periodo compreso tra gennaio 1996 e maggio 2002, mentre nulla aveva invece detto la sentenza riguardo al periodo successivo fino al marzo 2005. Tuttavia, il c.t.u. aveva ritenuto congruo considerare l’intero periodo rivendicato nell’atto introduttivo del giudizio ovvero da gennaio 1996 al 9 marzo 2005. La Corte d’Appello aveva pedissequamente accolto le indicazioni finali del c.t.u., osservando che le conclusioni di quest’ultimo non erano state sostanzialmente contestate dei procuratori delle parti, sicchè andavano fatte proprie dal collegio, in quanto frutto di una corretta applicazione delle previsioni del c.c.n.l.. Senonchè le statuizioni contenute nella sentenza non definitiva non potevano essere modificate o revocate con quella definitiva, poichè i singoli punti della sentenza che non definisce il processo possono essere sottoposti all’esame soltanto mediante impugnazioni, mentre la non definitività concerne soltanto la non integralità della decisione della controversia, ma non anche la mutabilità da parte dello stesso giudice di ciò che è stato deciso. Era evidente, dunque, che la Corte territoriale con la sentenza definitiva aveva disatteso gli anzidetti principi, con palesi violazioni del procedimento, per di più in totale assenza di motivazione che spiegasse le ragioni per le quali da ultimo aveva ritenuto di discostarsi dalla sentenza parziale.

Peraltro, nell’ipotesi in cui si fosse ritenuto, così come ipotizzato in proposito dal c.t.u., che la sentenza parziale non avesse escluso l’analisi dell’intero periodo indicato in primo grado, in tal caso entrambe le sentenze, e non solo la seconda, sarebbero risultate affette dai vizi denunciati come in rubrica.

Tanto premesso, i primi due motivi, peraltro tra loro evidentemente connessi e perciò esaminabili congiuntamente, vanno disattesi, mentre va accolta la terza doglianza, nei termini seguenti.

In primo luogo, tuttavia, deve rigettarsi la censura concernente il preteso difetto di motivazione, relativamente in effetti alla sentenza, parziale non definitiva, n. 291/13, atteso che come si evince agevolmente dalle anzidette argomentazioni la Corte di merito ha chiaramente esplicitato la ratio decidendi circa la ritenuta natura subordinata del rapporto di lavoro intercorso tra le parti dal gennaio 1996 sino al 31 maggio 2002. Ed invero, la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da “error in procedendo”, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dai giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. sez. un. civ. n. 22232 del 03/11/2016). Sul punto, inoltre, occorre richiamare il principio, ormai consolidato, affermato dalle Sezioni unite civili di questa Corte con le sentenze nn. 8053 e 8054 in data 7/4/2014, secondo cui la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134 – qui ratione temporis applicabile, essendo stata la sentenza de qua pubblicata nel dicembre dell’anno 2013 – deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione soltanto l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze Processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. altresì Cass. VI civ. – 3, n. 21257 in data 8/10/2014, secondo cui dopo la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, l’omessa pronunzia continua a sostanziarsi nella totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente perfino di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto; al contrario, il vizio motivazionale previsto dall’art. 360 c.p.c., n. 5 presuppone che un esame della questione oggetto di doglianza vi sia pur sempre stato da parte del giudice di merito, ma che esso sia affetto dalla totale pretermissione di uno specifico fatto storico, oppure che si sia tradotto nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa, invece, qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. Conforme Cass. Sez. 6 – 3 n. 23828 del 20/11/2015.

V. ancora Cass. III civ. n. 23940 del 12/10/2017: in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 con. con modi., dalla L. n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6, individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia. Parimenti, secondo Cass. sez. 6 – 3, Ordinanza n. 22598 del 25/09/2018, in seguito alla riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 non è più deducibile quale vizio di legittimità il semplice difetto di sufficienza della motivazione, ma i provvedimenti giudiziari non si sottraggono all’obbligo di motivazione previsto in via generale dall’art. 111 Cost., comma 6, e, nel processo civile, dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Tale obbligo è violato qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione – per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile – e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

Pertanto, avuto riguardo ai succitati principio di diritto, va escluso che nella specie sia stato violato il c.d. minimo costituzionale nella motivazione della sentenza n. 291/13, tenuto conto delle lineari ed univoche nonchè coerenti argomentazioni svolte a sostegno della decisione ivi assunta, delle quali si è già detto nella precedente narrativa, non risultando per di più omesso l’esame di alcun fatto decisivo (nella sentenza impugnata, inoltre, si legge tra l’altro che il convenuto, appellato M., aveva evidenziato che il P. aveva intrattenuto anche con terzi sporadiche collaborazioni, per cui anche tale C. lo aveva pagato, e che l’attore non aveva mai percepito alcun compenso fisso, peraltro nemmeno dimostrato. Di conseguenza, è anche infondato il secondo motivo di ricorso, risultando chiaramente smentita l’asserita pretermissione dell’assenza di un compenso fisso, visto che tale circostanza era stata dedotta appunto dal M. e che quindi è stata, evidentemente, considerata dalla Corte di merito nel valutare pure questa difesa di parte appellata, tant’è che risulta espressamente menzionata in sentenza).

Esclusa, dunque, la sussistenza di vizi rilevanti ex art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, non resta che prendere atto di quanto accertato in punto di fatto dalla Corte di merito, e conseguentemente di quanto ritenuto, ai fini del proprio convincimento, nell’ambito del suo discrezionale prudente apprezzamento, secondo cui le prestazioni fornite dal P. prima della sua formale assunzione alle dipendenze del M. (giugno 2002) erano pressochè identiche a quelle successivamente rese dal medesimo, donde la connotazione in termini di subordinazione ex art. 2094 c.c. anche della precedente attività, risultando altresì inverosimile la difesa del convenuto, secondo il quale tale assunzione sarebbe stata meramente simulata per favorire il P., cosa che non aveva trovato alcun riscontro probatorio, e che appariva per di più smentita dalla stipula del contratto di lavoro subordinato e dalla erogazione di retribuzione con busta paga, con conseguente ammissione di un tale rapporto sino alle successive dimissioni (cfr. Cass. lav. n. 5526 del 17/04/2002, secondo cui le presunzioni semplici consistono nel ragionamento del giudice, il quale, una volta acquisita, tramite fonti materiali di prova – o anche tramite il notorio o a seguito della non contestazione – la conoscenza di un fatto secondario, deduce da questo l’esistenza del fatto principale ignoto; l’apprezzamento del giudice di merito circa il ricorso a tale mezzo di prova e la valutazione della ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge per valorizzare elementi di fatto come fonti di produzione, sono incensurabili in sede di legittimità, l’unico sindacato in proposito riservato al giudice di legittimità essendo quello sulla coerenza della relativa motivazione. Conformi Cass. III civ. n. 3983 del 18/03/2003 e I civ. n. 6970 in data 08/05/2003, nonchè II civ. n. 1667 del 29/01/2004.

V. peraltro Cass. sez. un. civ. n. 9961 del 13/11/1996, secondo cui nella prova per presunzioni, ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità. Infatti, è sufficiente che il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto sia accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza. In senso conforme Cass. n. 9717 del 1991 e I civ. n. 2700 del 26/03/1997, secondo la quale in tema di prova per presunzioni – che rappresenta uno strumento, normativamente concesso al giudice, che permette di arrivare alla conoscenza di un fatto per il quale non sia possibile dare una diretta dimostrazione, attraverso un procedimento logico – giacchè non occorre che i fatti su cui si fonda la presunzione siano tali da far apparire l’esistenza del fatto ignoto come l’unica conseguenza possibile dei fatti accertati in giudizio, è sufficiente che il fatto ignoto sia desunto alla stregua di un canone di probabilità, con riferimento ad una connessione di avvenimenti possibile e verosimile secondo un criterio di normalità. A tal riguardo, l’apprezzamento del giudice di merito circa l’esistenza degli elementi assunti a fonte della presunzione e circa la rispondenza di questi ai requisiti di idoneità, gravità e concordanza richiesti dalla legge, non è sindacabile in sede di legittimità, salvo che risulti viziato da illogicità o da errori nei criteri giuridici.

V. parimenti Cass. lav. n. 3981 del 21/04/1999, I civ. n. 5057 del 25/05/1999, sez. lav. n. 14125 del 15/12/1999, II civ. n. 12296 del 05/10/2001, I civ. n. 15238 del 3/12/2001, III civ. n. 8216 del 06/06/2002, III civ. n. 26081 del 30/11/2005, II civ. n. 22656 del 31/10/2011, nonchè II civ. n. 3513 del 6/2/2019).

Pertanto, avuto riguardo all’anzidetta ratio decidendi, appaiono inconferenti le diverse doglianze mosse dal ricorrente, siccome non pertinenti con specifiche confutazioni rispetto all’essenza del ragionamento decisorio seguito dalla Corte distrettuale, oltre che inammissibili, in questa sede di legittimità, per la parte in cui tendono in effetti a fornire una ricostruzione della vicenda in termini diversi da quelli, per contro, operati dalla Corte di merito, la cui decisione, d’altro canto, è l’unica processualmente rilevante, in quanto pronunciata dal giudice di grado superiore, e che, sostituendosi a quella gravata, mediante la riforma della stessa, resta la sola pronuncia contro la quale è dato il rimedio del ricorso ex 360 c.p.c. (cfr. del resto Cass. lav. n. 1238 del 20/01/2011: spetta al giudice del merito accertare il comportamento tenuto dalle parti nell’attuazione del rapporto di lavoro al fine della conseguente qualificazione dello stesso come lavoro autonomo ovvero come lavoro subordinato e la relativa valutazione non è censurabile in cassazione ove correttamente ed adeguatamente motivata).

Da tanto deriva anche l’infondatezza, se non la radicale inammissibilità, di tutte le censure svolte, concernenti le denunciate violazioni di legge, le quali invero presuppongono una ricostruzione in punto di fatto della vicenda in questione diversa da quanto ritenuto dalla Corte di merito, sul punto competente in vi esclusiva. Una volta, pertanto, acclarati i fatti di causa, secondo quanto pur motivatamente appurato in sede di merito, le censure consentite ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 non possono prescindere dall’accertamento compiuto dai giudici esclusivamente competenti al riguardo. Infatti, in tema di ricorso per cassazione, la deduzione del vizio di violazione di legge, consistente nella erronea riconduzione del fatto materiale nella fattispecie legale deputata a dettarne la disciplina (c.d. vizio di sussunzione), postula che l’accertamento in fatto operato dal giudice di merito sia considerato fermo ed indiscusso, sicchè è estranea alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investa la ricostruzione del fatto materiale, esclusivamente riservata al potere del giudice di merito (in tal sensi v. tra le altre Cass. III civ., ordinanza n. 6035 del 13/03/2018, che in motivazione così risulta, in particolare, motivata: “…Tutto ciò rende, altresì, evidente quanto innanzi accennato circa l’insussistenza di una effettiva denuncia di error in iudicando.

La ricorrente, infatti, si duole non tanto dell’erronea interpretazione delle norme che presiedono al governo della fattispecie di diffamazione a mezzo stampa o dei principi giuridici a tal riguardo enucleati dalla giurisprudenza di legittimità, quanto della cattiva applicazione degli stessi rispetto ai fatti allegati siccome integranti l’ipotesi dell’anzidetto illecito… Tuttavia, una siffatta doglianza – veicolabile in base all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e da qualificarsi come “vizio di sussunzione”, in quanto attinente all’erronea riconduzione della fattispecie materiale in quella legale (e, dunque, del fatto alla norma che è deputata a dettarne la disciplina e regolarne gli effetti) – non può che essere costruita se non assumendo l’accertamento di fatto, così come operato dal giudice del merito, in guisa di termine obbligato, indefettibile e non modificabile del sillogismo tipico del paradigma dell’operazione giuridica di sussunzione, là dove, diversamente (ossia ponendo in discussione detto accertamento), si verrebbe a trasmodare nella revisione della quaestio facti e, dunque, ad esercitarsi poteri di cognizione esclusivamente riservati al giudice del merito (cfr. in tale prospettiva, tra le altre, Cass., 23 settembre 2016, n. 18715 e Cass., 14 febbraio 2017, n. 3965). E dunque estraneo alla denuncia del vizio di sussunzione ogni critica che investe la ricostruzione e l’accertamento del fatto materiale, da cui, invece, nella sua portata, come giudizialmente definita, deve muovere la censura di erronea riconduzione di esso alla norma di riferimento. Sicchè, nella specie, come già posto in risalto, ciò che viene criticato è anzitutto e proprio l’accertamento del giudice del merito sulla realtà materiale che le risultanze di causa, secondo la prospettiva della stessa parte ricorrente, avrebbero dimostrato come “vera”…”.

V. anche Cass. III civ. n. 3205 del 18/03/1995: il vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quale motivo di ricorso per cassazione – dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – ricorre quando si prospetta l’errata applicazione di una norma ad un fatto sulla cui fissazione non c’è discussione, mentre quello di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione – art. 360 c.p.c., n. 5 – si risolve in una doglianza che investe la ricostruzione della fattispecie concreta. Conforme id. n. 1624 del 16/02/1998. Analogamente, secondo Cass. III civ. n. 1430 del 20/02/1999, l’espressione normativa, di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 si riferisce all’accertamento dei punti di fatto che hanno assunto rilevanza per la decisione e non a quelli riguardanti l’affermazione e l’applicazione dei principi giuridici, posto che in questo secondo caso è configurabile una falsa applicazione di norme di diritto ai sensi dell’art. 360, n. 3. Parimenti, secondo Cass. II civ. n. 6224 del 29/04/2002, non può ricondursi nell’ambito del vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quale motivo di ricorso per cassazione “ex” art. 360 c.p.c., n. 3), la deduzione con la quale si contesti al giudice di merito, non di aver errato nella individuazione della norma regolatrice della controversia, bensì di avere erroneamente ravvisato, nella situazione di fatto in concreto accertata, la ricorrenza degli elementi costitutivi d’una determinata fattispecie normativamente regolata, giacchè siffatta valutazione comporta, non un giudizio di diritto, ma un giudizio di fatto, da impugnarsi, se del caso, sotto il profilo del vizio di motivazione. Cfr. ancora Cass. I civ. n. 15499 in data 11/08/2004: il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa, di qui la funzione di assicurare l’uniforme interpretazione della legge assegnata alla Corte di cassazione dall’art. 65 Ord. Giud.; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione -secondo il testo dell’art. 360 c.p.c., n. 5 vigente all’epoca di tale pronuncia- Conforme, tra le altre Cass. sez. un. civ. n. 10313 del 5/5/2006, secondo cui, di conseguenza, il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa. In senso analogo Cass. lav. n. 7394 del 26/03/2010 e n. 16698 del 16/07/2010, nonchè Sez. 6 – 2 con ordinanza n. 24054 del 12/10/2017. V. altresì Cass. II civ. n. 6653 del 30/03/2005: non può ricondursi nell’ambito del vizio di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, quale motivo di ricorso per cassazione “ex” art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la deduzione con la quale si contesti al giudice di merito non di aver errato nella individuazione della norma regolatrice della controversia, bensì di avere erroneamente ravvisato, nella situazione di fatto in concreto accertata, la ricorrenza degli elementi costitutivi d’una determinata fattispecie normativamente regolata, giacchè siffatta valutazione comporta un giudizio non già di diritto bensì di fatto, eventualmente impugnabile sotto il profilo del vizio di motivazione – anche qui ex art. 360, n. 5 vecchio testo. Ancora, similmente v. Cass. n. 8315 del 04/04/2013: il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione. Conformi Cass. V civ. n. 26110 del 30/12/2015 e sez. lav. n. 195 in data 11/01/2016. Ancor più recentemente Cass. I civ. n. 24155 del 13/10/2017 ha confermato che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità).

Appaiono invece fondate, in base alle riscontrate univoche emergenze processuali, le censure di cui al terzo motivo di ricorso, ascrivibili evidentemente alla sola sentenza definitiva, pronunciata in data 26 novembre – 11 dicembre 2014, laddove in effetti, contrariamente a quanto richiesto nelle conclusioni da parte appellante ed a quanto ritenuto pure con la sentenza non definitiva, che pronunciava di conseguenza parzialmente sulla domanda, limitatamente all’arco temporale (gennaio 1996/maggio 2002) anteriore all’assunzione di giugno 2002, la Corte distrettuale ha provveduto alla liquidazione delle rivendicate differenze retributive anche per il periodo successivo, perciò fino a marzo 2005 (cfr. tra l’altro Cass. lav. n. 13621 del 16/06/2014, secondo cui le statuizioni contenute nella sentenza non definitiva non possono essere modificate o revocate con la sentenza definitiva, in quanto i singoli punti della prima possono essere sottoposti a riesame solo con le impugnazioni, mentre la non definitività concerne soltanto la non integralità della decisione della controversia, e non anche la modificabilità, da parte dello stesso giudice, di ciò che è già stato deciso. Conformi, tra le altre, Cass. n. 2332 del 2001, nonchè Cass. I civ. n. 17038 in data 11/08/2016, nonchè III civ. n. 4720 del 05/11/1977).

Pertanto, disattesi i primi due motivi di ricorso, va accolto il terzo con conseguente cassazione della impugnata sentenza definitiva, pubblicata l’undici dicembre 2014. Occorrendo, quindi, ulteriori accertamenti in punto di fatto, la causa va rinviata alla Corte distrettuale, in diversa composizione, che terrà conto, quindi, delle ragioni in punto di diritto in base alle quali viene accolta la terza censura, provvedendo quindi all’esito anche al regolamento delle spese dell’intero processo, ivi comprese quelle relative a questo giudizio di legittimità.

Essendo risultata, infine, fondata l’impugnazione de qua, sebbene in parte, non ricorrono i presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

la Corte RIGETTA I PRIMI DUE MOTIVI di ricorso e ACCOGLIE il TERZO. In relazione a quest’ultimo CASSA, per l’effetto, l’impugnata sentenza, pronunciata in via definitiva in data 26 novembre – 11 dicembre 2014, e RINVIA, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Cagliari in diversa composizione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della NON sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 19 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2019

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