Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24848 del 04/10/2019

Cassazione civile sez. II, 04/10/2019, (ud. 15/02/2019, dep. 04/10/2019), n.24848

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12036-2015 proposto da:

A.F., A.T., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA A. BAFILE 5, presso lo studio dell’avvocato LUCA

FIORMONTE, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

C.T.S., DECEDUTA, elettivamente domiciliata in ROMA,

VIALE PARIOLI 41, presso lo studio dell’avvocato ANNA MARIA

MANFREDI, rappresentata e difesa dall’avvocato ELISA CORSI;

– controricorrente –

e contro

S.S.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 140/2015 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA,

depositata il 26/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

15/02/2019 dal Consigliere CHIARA GESSO MARCHEIS.

Fatto

PREMESSO

CHE:

1. Con atto di citazione del 13/10/2009, A.T. e F. convenivano in giudizio C.S.T. e S.S.M., chiedendo che venisse accertato e dichiarato in loro favore l’acquisto della proprietà per usucapione di un complesso immobiliare sito in (OMISSIS), in origine acquistato dalla madre delle convenute A.L. attraverso il fratello A.A. (in qualità di procuratore), padre degli attori.

Il Tribunale di Terni, con sentenza n. 79/2013, accoglieva la domanda principale degli attori e rigettava le domande riconvenzionali delle convenute, di rilascio degli immobili e di condanna degli attori al pagamento di un indennizzo per l’occupazione senza titolo del complesso.

2. Avverso la sentenza proponeva appello C.S.T.. La Corte d’appello di Perugia – con sentenza non definitiva 26 febbraio 2015, n. 140 – in riforma della gravata sentenza rigettava la domanda di acquisto della proprietà per usucapione e accoglieva quella di rilascio, disponendo con separata ordinanza la prosecuzione del giudizio per la determinazione dell’indennizzo dovuto per l’occupazione senza titolo dei beni.

3. Contro la sentenza ricorrono in cassazione A.T. e F..

Resiste con controricorso C.S.T..

L’intimata S.S.M. non ha proposto difese.

La ricorrente ha depositato memoria, in cui anzitutto eccepisce l’inammissibilità della comparsa di intervento volontario di C.E., in qualità di erede della ricorrente, deceduta il 1 agosto 2018.

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

I. Preliminarmente, circa l’eccezione di inammissibilità dell’atto di intervento dell’erede della ricorrente C.E., va ricordato che “al giudizio innanzi alla Corte di Cassazione, in considerazione della particolare struttura e della disciplina del procedimento di legittimità, non è applicabile l’istituto dell’interruzione del processo, con la conseguenza che la morte di una delle parti, intervenuta – come nel caso in esame – dopo la rituale instaurazione del giudizio, non assume alcun rilievo, nè consente agli eredi di tale parte l’ingresso nel processo” (così, da ultimo, Cass. 1757/2016), così che l’atto di intervento va dichiarato inammissibile.

II. Il ricorso è articolato in sei motivi.

a) Con il primo motivo – che riporta violazione o falsa applicazione di norme di legge con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – i ricorrenti contestano la nullità della notificazione dell’atto di appello alla controparte S., per essere tale notificazione avvenuta, a fronte del decesso del difensore domiciliatario (e residente nel circondario del Tribunale adito), non alla parte personalmente, ma all’altro difensore residente in un circondario diverso da quello in cui si era svolto il giudizio di primo grado.

Il motivo è inammissibile: i ricorrenti si dolgono di una modalità della notificazione che concerne non loro, ma una delle due controparti, così che essi sono privi dell’interesse a proporre la doglianza (per l’applicazione del principio alla nullità della notificazione cfr. Cass. 1136/1963).

b) Il secondo motivo denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 345 e 112 c.p.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: anzitutto C., violando l’art. 345, avrebbe introdotto nel giudizio di appello una nuova eccezione, ossia l’inidoneità di atti di mera tolleranza a configurare possesso valido ad usucapionem, e il giudice d’appello poi, in mancanza di un motivo d’appello, ha considerato, violando l’art. 112, l’ipotesi che la detenzione fosse scaturita da un rapporto di comodato.

Il motivo è infondato: a prescindere dal fatto che la questione della tolleranza di A.L. nei confronti del godimento degli immobili da parte del fratello A.L. e poi dei suoi eredi era questione non certo emersa nel giudizio d’appello (cfr. p. 7 del ricorso, ove si afferma che il giudice di primo grado, “nella precisa motivazione della sentenza, analizzava anche l’ipotesi della tolleranza”), si tratta non di una eccezione in senso proprio, ma di una difesa, negatoria del fatto costitutivo (il possesso del bene) allegato dagli attori a fondamento della loro domanda. Quanto poi alla alternativa prospettazione, da parte del giudice d’appello, della conclusione di un contratto di comodato, questa non determina violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo il giudice posto in essere una possibile qualificazione giuridica dei fatti dalle parti allegati.

c) Con il terzo motivo – che lamenta contraddittorietà ed illogicità della sentenza sulla statuizione relativa alla pretesa insussistenza dei requisiti per la dichiarazione di usucapione; omesso e/o distorto esame degli esiti dell’istruttoria dibattimentale e della documentazione prodotta; violazione o falsa applicazione degli artt. 1388 e 1141 c.c. – i ricorrenti lamentano che la Corte d’appello abbia ricavato l’insussistenza dei requisiti per l’acquisto per usucapione degli immobili da presupposti fattuali e giuridici “del tutto fallaci e per nulla coerenti con le risultanze dell’esperita istruttoria dibattimentale e della documentazione in atti”.

Il motivo è inammissibile, in quanto contesta la valutazione degli elementi di prova operata dal giudice d’appello, chiedendo a questa Corte di legittimità di operare una inammissibile rivalutazione di tali elementi (elencati alle pp. 15-18 del ricorso).

d) Il quarto motivo denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 1803,1804,1809 e 1141 c.c.: la Corte d’appello, nel prospettare la conclusione di un contratto di comodato gratuito, avrebbe erroneamente ritenuto sussistenti i requisiti richiesti dall’art. 1803 c.c., con operato “del tutto illogico e carente sotto il profilo motivazionale”.

Il motivo è inammissibile: quella che la Corte d’appello pone in essere è una mera prospettazione, autonoma e alternativa a quella della tolleranza di A.L. nei confronti del godimento degli immobili da parte del fratello A.L., così che eventuali errori nella riconduzione della fattispecie alla categoria di cui all’art. 1803 non risultano decisivi rispetto alla negazione da parte del giudice d’appello di un godimento dei beni idoneo all’acquisto della proprietà dei medesimi per usucapione.

e) Il quinto motivo lamenta violazione o falsa applicazione degli artt. 2943 e 2944 c.c. circa “la pretesa richiesta di restituzione degli immobili”, per avere la Corte d’appello, ribaltando la portata dell’art. 2943 c.c., sostenuto che i ricorrenti “non avrebbero ottemperato ad una richiesta di restituzione degli immobili che sarebbe stata effettuata ai legali degli A.”, così non considerando che la mera diffida a riconsegnare la res non è atto idoneo a sospendere o interrompere il possesso ai fini dell’usucapione.

Il motivo non può essere accolto: il giudice d’appello non ha considerato la lettera indirizzata ai legali degli attori quale atto sospensivo o interruttivo del possesso, ma ha escluso che la mancata restituzione degli immobili sia stata sufficiente a integrare l’acquisto del possesso.

f) Con il sesto ed ultimo motivo – che riporta “ancora sull’interversione del possesso; violazione o falsa applicazione dell’art. 1164 c.c.” – i ricorrenti si dolgono del fatto che la Corte d’appello abbia ritenuto gli interventi edilizi operati dal loro dante causa sugli immobili, per i quali era anche stato richiesto un condono edilizio, non idonei a provare il possesso uti dominus.

Il motivo è infondato. Il giudice d’appello ha ritenuto, con apprezzamento in fatto incensurabile da questa Corte in quanto motivato, che i lavori di ristrutturazione non siano valsi ad operare l’interversione della detenzione in possesso: A.A., nel richiedere la sanatoria per le opere realizzate, aveva dichiarato di avere la disponibilità degli immobili “a titolo gratuito”, escludendo così che le opere realizzate a partire dal 1975 fossero segno della volontà di comportarsi uti dominus.

II. Il ricorso va quindi rigettato.

Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio in favore della controricorrente che liquida in Euro 6.200, di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.

Sussistono, D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-bis i presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella adunanza camerale della sezione seconda civile, il 15 febbraio 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2019

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