Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24838 del 09/10/2018

Cassazione civile sez. lav., 09/10/2018, (ud. 12/06/2018, dep. 09/10/2018), n.24838

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 11803-2017 proposto da:

O.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA F VALESIO 1,

presso lo studio dell’avvocato EUGENIO PACE, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato CARMELA ROSARIA DI SALVO;

– ricorrente –

contro

COMUNE MILANO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POLIBIO 15,

presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE LEPORE, che lo rappresenta e

difende unitamente agli avvocati ANTONELLO MANDARANO, ANTONELLA

FRASCHINI, PAOLO RADAELLI, PAOLA MARIA CECCOLI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1518/2016 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 23/11/2016 R.G.N. 930/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

12/06/2018 dal Consigliere Dott.ssa IRENE TRICOMI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa

MASTROBERARDINO PAOLA che ha concluso per inammissibilità;

udito l’Avvocato PAOLO RADAELLI.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL FATTO

1. La Corte d’Appello di Milano, con la sentenza n. 930 del 2014, rigettava l’impugnazione proposta da O.A. nei confronti del Comune di Milano, avverso la sentenza resa tra le parti dal Tribunale di Milano.

2. Il lavoratore aveva chiesto dichiararsi, per i motivi indicati in ricorso e per la violazione del termine perentorio di 60 giorni di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-ter, comma 4, l’illegittimità, la nullità, l’inefficacia e/o l’invalidità della sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso irrogatogli dal Comune di Milano in data 29 ottobre 2013, e per l’effetto revocare la relativa sanzione, con condanna del Comune a reintegrarlo nel proprio posto di agente di polizia locale presso il medesimo Comune, nonchè al pagamento dell’importo corrispondente alle retribuzioni perdute per il mese di novembre 2013 e per le mensilità che allo stesso sarebbero state dovute dal 30 gennaio 2013 fino all’esito della causa, nella misura accertata nel corso del giudizio o ritenuta di giustizia.

3. Il Tribunale rigettava la domanda e, ancor prima, le questioni di natura formale sollevate dal lavoratore. In particolare, il giudice di primo grado ha affermato che il termine per la ripresa del procedimento disciplinare che era stato sospeso decorreva dalla comunicazione della sentenza all’Amministrazione, fatto che avveniva il 20 agosto 2013 (comunicazione sentenza GIP passata in giudicato il 14 giugno 2013) e il procedimento disciplinare era stato riaperto tempestivamente il 12 settembre 2013.

Il Tribunale affermava che nella specie, comunque, avrebbe potuto trovare spazio solo la tutela economica che non costituiva oggetto della domanda.

4. La Corte d’Appello ha ricordato che il lavoratore era rimasto coinvolto in un’indagine penale per fatti delittuosi collegati all’esercizio delle funzioni e al rapporto di lavoro con il Comune, per cui in data 20 febbraio 2012 veniva avviato il procedimento disciplinare. Il lavoratore esponeva le proprie difese il 12 aprile 2012.

Il 24 gennaio 2013 il GIP pronunciava sentenza di condanna ex art. 444 cod. proc. pen. a due anni di reclusione, con sospensione condizionale della pena. In data 30 gennaio 2013 il Comune procedeva alla sospensione cautelare dal servizio del lavoratore e il 12 settembre 2013 riavviava il procedimento disciplinare. Il 29 ottobre 2013 intimava il licenziamento per giusta causa, con decorrenza 1 febbraio 2013, data di inizio della sospensione cautelare.

5. La Corte di Appello riporta, quindi, le censure prospettate con l’impugnazione: illegittimità della sospensione del procedimento disciplinare e tardiva riattivazione del procedimento disciplinare, atteso che la sentenza penale era stata depositata il 24 gennaio 2013.

Il giudice di appello, nel rigettare l’impugnazione, afferma la legittimità della sospensione, in ragione delle previsioni normative, in quanto non vi era stata piena ammissione da parte del lavoratore della commissione dei fatti addebitatigli e le vicende erano complesse. La riattivazione del procedimento disciplinare era intervenuta tempestivamente, atteso che la sentenza, passata in giudicato il 14 giugno 2013, come da relativa attestazione, veniva comunicata in data 20 agosto 2013.

6. Ricorre per la cassazione della sentenza di appello il lavoratore prospettando tre motivi di ricorso.

7. Resiste con controricorso il Comune di Milano.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione di norme di diritto. Violazione dei principi generali in tema di contestazione enunciati nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 e nell’art. 24 CCNL enti locali.

Il ricorrente ricorda il principio della tempestività della contestazione ed il rilievo che assume il passaggio del tempo tra la contestazione e I’ irrogazione della sanzione come indice della mancanza di interesse del datore di lavoro a quest’ultima.

Nella specie, il Comune già dal 2011 sapeva di un procedimento penale e il 12 aprile 2012, in sede di audizione difensiva, sarebbe intervenuta la confessione. Pertanto, da tale data l’Amministrazione avrebbe dovuto avviare il procedimento disciplinare e applicare la sanzione disciplinare.

Da ciò emergeva, espone il ricorrente, che l’Amministrazione aveva preferito soprassedere benchè in presenza dell’ammissione di fatti penalmente gravi.

2. Con il secondo motivo di ricorso è prospettato omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio. Insufficiente e inesistente motivazione su punti decisivi della controversia.

Assume il ricorrente che il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-ter stabilisce alcune condizioni per procedere alla sospensione del procedimento disciplinare: particolare complessità dell’accertamento ed insufficienza degli elementi probatori.

Nella specie tali condizioni non sussistevano, come si evinceva sia dalle dichiarazioni rese dal lavoratore nel corso del giudizio di primo grado, sia dalle dichiarazioni rese dalla procuratrice speciale della controparte in sede di interrogatorio libero, che dava atto della conferma della commissione dei fatti addebitatigli da parte del lavoratore. Pertanto il comportamento dell’Amministrazione era contrario a correttezza e buona fede.

3. I suddetti motivi devono essere trattati congiuntamente in ragione della loro connessione. Gli stessi, sono in parte inammissibili, con riguardo al secondo motivo di ricorso laddove di deduce vizio di motivazione, e per il resto non sono fondati.

3.1. E’ applicabile alla fattispecie l’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo modificato dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, che consente di denunciare in sede di legittimità unicamente l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti.

Hanno osservato le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. n. 19881 del 2014 e Cass. S.U. n. 8053 del 2014) che la ratio del recente intervento normativo è ben espressa dai lavori parlamentari lì dove si afferma che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ha la finalità di evitare l’abuso dei ricorsi per cassazione basati sul vizio di motivazione, non strettamente necessitati dai precetti costituzionali, e, quindi, di supportare la funzione nomofilattica propria della Corte di cassazione, quale giudice dello ius constitutionis e non dello ius litigatoris, se non nei limiti della violazione di legge. Il vizio di motivazione, quindi, rileva solo allorquando l’anomalia si tramuta in violazione della legge costituzionale, “in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.

Pertanto, poichè ciò non ricorre con riguardo alla sentenza di appello in esame, che è argomentata in modo articolato, ed è esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”, va dichiarato inammissibile il profilo di censura di vizio di motivazione.

3.2. Tanto premesso, si osserva che in tema di procedimento disciplinare nei confronti di dipendente in regime di pubblico impiego contrattualizzato, la nuova disciplina procedurale, di cui al D.Lgs. n. 150 del 2009, si applica ai fatti disciplinarmente rilevanti per i quali la notizia dell’infrazione risulti acquisita dagli organi dell’azione disciplinare dopo l’entrata in vigore della riforma, ossia dal 16 novembre 2009 (Cass., n. 11985 del 2016).

Pertanto nella specie, benchè i fatti che davano luogo al procedimento penale e a quello disciplinare, siano anteriori al luglio 2009, poichè la relativa segnalazione della Procura della Repubblica all’Amministrazione interveniva il 9 febbraio 2012, come riportato in sentenza e non contestato, trovano applicazione il D.Lgs. n. 165 del 2001, artt. 55 e ss..

3.3. Come questa Corte ha già affermato (Cass., n. 8410 del 2018, n. 5284 del 2017), nel pubblico impiego privatizzato, il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-ter come modificato dal D.Lgs. n. 150 del 2009, ha introdotto la regola generale dell’autonomia del procedimento disciplinare da quello penale, contemplandone la possibilità di sospensione, dunque facoltativa e non obbligatoria, come ipotesi eccezionale, nei casi di illeciti di maggiore gravità, qualora ricorra il requisito della particolare complessità nell’accertamento, restando la Pubblica Amministrazione libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di ritenere che essi forniscano, senza necessità di ulteriori acquisizioni e indagini, elementi sufficienti per la contestazione di illecito disciplinare al proprio dipendente.

3.4. Peraltro, già in precedenza, nel diverso quadro normativo antecedente alla riforma di cui al D.Lgs. n. 150 del 2009, questa Corte rilevava che l’abrogazione del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 117, che stabiliva il divieto di avvio o di prosecuzione di un procedimento disciplinare per fatti del dipendente oggetto altresì di un processo penale fino all’esito finale di quest’ultimo, non escludeva la sopravvivenza nell’ambito della disciplina ad esso succeduta di una analoga possibilità di sospensione del procedimento disciplinare, sia pure in un contesto e nell’esercizio di poteri diversi da quelli precedenti (Cass., n. 9458 del 2009).

3.5. L’art 55-ter, introdotto dalla riforma del 2009, nel testo applicabile ratione temporis (ora modificato dal D.Lgs. 25 maggio 2017, n. 75, art. 14), dispone, al comma 1, terzo periodo: “Per le infrazioni di maggiore gravità, di cui all’art. 55-bis, comma 1, secondo periodo, l’ufficio competente, nei casi di particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all’esito dell’istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione, può sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale, salva la possibilità di adottare la sospensione o altri strumenti caute/ari nei confronti del dipendente”.

3.6. La Corte d’Appello ha applicato correttamente tale disposizione, in conformità con i principi sopra richiamati. Ed infatti, tenuto conto: del capo di imputazione del procedimento penale (v. pagg. 6 e 7 della sentenza di appello, in cui quest’ultimo è riportato) a seguito della cui segnalazione veniva iniziato il procedimento disciplinare, da cui emergeva la oggettiva complessità di fatti e reati reiteratamente commessi dall’ O. nel tempo in concorso con altri; del verbale del 12 aprile 2012, da cui non risultava che l’ O. avesse compiutamente ammesso i fatti risultando che lo stesso, pur ammettendo qualche errore, richiamava documentazione medica prospettando elementi di indagine ai fini dell’accertamento della imputabilità delle condotte contestate, la Corte d’Appello affermava che la complessità dei fatti dedotta dall’Amministrazione per giustificare la sospensione del procedimento disciplinare, non appariva pretestuosa e contraria ai canoni di correttezza e buona fede.

In particolare, si osserva che correttamente la Corte d’Appello ha esaminato le dichiarazioni del lavoratore di cui al verbale del 12 aprile 2012 al fine di valutare la legittimità della sospensione del procedimento disciplinare, non potendo assumere rilievo quanto dichiarato successivamente dal lavoratore nel primo grado di giudizio e cioè l’avere indicato in detta sede come confessorie le suddette dichiarazioni. Quanto alla procuratrice del datore di lavoro, come riportato nello stesso ricorso (pag.11 del ricorso) la stessa riferiva nel giudizio di primo grado non solo, come mette in evidenza il ricorrente, che il lavoratore aveva confermato di avere commesso i fatti addebitatigli, ma anche di aver addotto giustificazioni relativamente al proprio stato di salute anche mentale e non, con riferimento alla non commissione dei fatti stessi.

4. Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente si duole della mancata corresponsione delle retribuzioni perdute a titolo di risarcimento del danno e assume che la domanda di dichiarazione dell’illegittimità del licenziamento e di reintegra implicava quella di risarcimento del danno.

4.1. Il motivo è assorbito in ragione del rigetto delle prime due censure.

5. Il ricorso deve essere rigettato.

6. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

7. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali in misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 12 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2018

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