Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24837 del 09/10/2018

Cassazione civile sez. lav., 09/10/2018, (ud. 07/06/2018, dep. 09/10/2018), n.24837

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5734-2014 proposto da:

P.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 109,

presso lo studio dell’avvocato BIAGIO BERTOLONE, rappresentato e

difeso dall’avvocato LUIGI CARBONARO;

– ricorrenti –

contro

LANZA DEL VASTO COOPERATIVA SOCIALE ARL, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA FLAMINIA 109, presso lo studio dell’avvocato BIAGIO

BERTOLONE, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati

MASSIMO ANSALDO, GIANEMILIO GENOVESI;

– controricorrenti –

e contro

M.R., G.R.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 465/2013 della CORTE D’APPELLO di GENOVA,

depositata il 15/10/2013; R.G.N.432/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

07/06/2018 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per inammissibilità.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1.1. Con sentenza n. 465/2013 la Corte di appello di Genova confermava la decisione del locale Tribunale che aveva respinto la domanda proposta da P.M.G. nei confronti della Cooperativa Sociale Lanza Del Vasto, della quale il P. era stato dipendente dal 1999 al giugno del 2004, nonchè nei confronti del legale rappresentante G.R., anche in proprio, e di M.R., suo diretto superiore, intesa ad ottenere la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni biologico, morale, esistenziale e patrimoniale asseritamenti derivati dal comportamento discriminatorio e persecutorio, qualificabile quale mobbing, posto in essere dalla datrice di lavoro.

1.2. Gli episodi posti dal P. a sostegno delle pretese avevano, in particolare, riguardato una lettera di biasimo della direzione del 23 novembre 2001 (riferita a frasi volgari ed irriguardose pronunciate dal dipendente nei confronti di una volontaria), una lettera di richiamo disciplinare del 29 novembre 2001 (relativa all’essersi trovato il P. all’interno della struttura in orario serale in compagnia di un signora del tutto estranea, senza alcuna giustificazione ovvero plausibile motivo), un terzo addebito disciplinare dell’8 maggio 2002 (relativo alla mancata presenza al lavoro del 3 maggio), il trasferimento del P. dalla sede del Centro Socio Educativo Villa Sanguinetti in (OMISSIS) a quella di (OMISSIS) (motivato dall’impossibilità di mantenere il ricorrente nelle sue mansioni di autista presso la prima struttura in ragione delle sue condizioni di salute).

1.3. Riteneva la Corte territoriale che fosse mancata la prova che ad unire i vari episodi denunciati – nessuno dei quali di per sè era così grave da poter essere considerato vessatorio e mortificante per il P. – vi fosse stato un intento persecutorio ai suoi danni. Evidenziava in particolare che tutte le sanzioni disciplinari inflitte al P. avessero tratto origine da suoi comportamenti certamente poco corretti o poco professionali che erano risultati confermati nei loro elementi essenziali dai testi escussi e che neppure potesse ravvisarsi l’intento persecutorio, come avrebbe voluto l’appellante, nella pubblicità asseritamente distorta che sarebbe stata data agli episodi di cui alle contestazioni, atteso che tale pubblicità era risultata giustificata e non era giammai stata offensiva.

2. Per la Cassazione della sentenza ricorre P.M. con nove motivi.

3. La Cooperativa Sociale Lanza Del Vasto e G.R. in proprio resistono con controricorso successivamente illustrato da memoria.

4. M.R. è rimasto intimato.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4,. Rileva che in sede di atto di appello aveva formulato specifica doglianza in ordine al fatto che il giudice di primo grado avesse posto a base della decisione, negativa per il P., testimonianze de relato e lamenta che la Corte territoriale non abbia tenuto conto di tali rilievi e si sia limitata a ripetere le stesse affermazioni contenute nella sentenza di primo grado.

1.2. Il motivo è inammissibile in quanto è impropriamente formulato come error in procedendo laddove la violazione dell’art. 112 c.p.c. può sussistere solo in caso di omessa pronuncia su una domanda ovvero su una eccezione introdotta in causa (e, quindi, nel caso del motivo d’appello, uno dei fatti costitutivi della ‘domandà di appello). Nella specie il ricorrente non lamenta un vizio del procedimento bensì della sentenza dolendosi dell’attività di esame del giudice, che si assume omessa, ma ciò non riguarda direttamente la domanda o l’eccezione, bensì una circostanza di fatto che, ove valutata, avrebbe comportato una diversa decisione su uno dei fatti costitutivi della domanda o su un’eccezione e, quindi, su uno dei fatti principali della controversia (v. Cass. 22 gennaio 2018, n. 1539; Cass. 5 dicembre 2014, n. 25761).

2.1. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Rileva che, indipendentemente dalla violazione dell’art. 112 c.p.c., la Corte territoriale non avrebbe neppure indirettamente risposto al quesito di cui all’atto di appello.

2.2. Il motivo è inammissibile.

Nonostante il formale richiamo al vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, il motivo si risolve nella critica della sufficienza del ragionamento logico posto dal giudice di merito a base dell’interpretazione degli elementi probatori del processo e, in sostanza, nella richiesta di una diversa valutazione degli stessi, ipotesi integrante un vizio motivazionale non più proponibile in seguito alla modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, apportata dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito in L. n. 134 del 2012.

Con orientamento (cui va data continuità) espresso dalla sentenza 7 aprile 2014, n. 8053 (e dalle successive pronunce conformi), le Sezioni Unite di questa S.C., nell’interpretare la portata della novella, hanno in primo luogo notato che con essa si è assicurato al ricorso per cassazione solo una sorta di “minimo costituzionale”, ossia lo si è ammesso ove strettamente necessitato dai precetti costituzionali, supportando il giudice di legittimità quale giudice dello ius constitutionis e non, se non nei limiti della violazione di legge, dello ius litigatoris.

Proprio per tale ragione le S.U. hanno affermato che non è più consentito denunciare un vizio di motivazione se non quando esso dia luogo, in realtà, ad una vera e propria violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4. Ciò si verifica soltanto in caso di mancanza grafica della motivazione, di motivazione del tutto apparente, di motivazione perplessa od oggettivamente incomprensibile, oppure di manifesta e irriducibile sua contraddittorietà e sempre che i relativi vizi emergano dal provvedimento in sè, esclusa la riconducibilità in detta previsione di una verifica sulla sufficienza e razionalità della motivazione medesima mediante confronto con le risultanze probatorie.

Per l’effetto, il controllo sulla motivazione da parte del giudice di legittimità diviene un controllo ab intrinseco, nel senso che la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 deve emergere obiettivamente dalla mera lettura della sentenza in sè, senza possibilità alcuna di ricavarlo dal confronto con atti o documenti acquisiti nel corso dei gradi di merito. Secondo le S.U., l’omesso esame deve riguardare un fatto (inteso nella sua accezione storico-fenomenica e, quindi, non un punto o un profilo giuridico) principale o primario (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria).

Ma il riferimento al fatto secondario non implica che possa denunciarsi ex art. 360 c.p.c., commma 1, n. 5 anche l’omesso esame di determinati elementi probatori: basta che il fatto sia stato esaminato, senza che sia necessario che il giudice abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie emerse all’esito dell’istruttoria come astrattamente rilevanti.

A sua volta deve trattarsi di un fatto (processualmente) esistente, per esso intendendosi non un fatto storicamente accertato, ma un fatto che in sede di merito sia stato allegato dalle parti: tale allegazione può risultare già soltanto dal testo della sentenza impugnata (e allora si parlerà di rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza del dato extra-testuale).

Sempre le S.U. precisano gli oneri di allegazione e produzione a carico del ricorrente ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4: il ricorso deve indicare chiaramente non solo il fatto storico del cui mancato esame ci si duole, ma anche il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extra-testuale (emergente dagli atti processuali) da cui risulti la sua esistenza, nonchè il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti e spiegarne, infine, la decisività.

L’omesso esame del fatto decisivo si pone, dunque, nell’ottica della sentenza n. 8053/14, come il tassello mancante (così si esprimono le S.U.) alla plausibilità delle conclusioni cui è pervenuta la sentenza rispetto a premesse date nel quadro del sillogismo giudiziario.

Invece, con il mezzo in disamina, si lamentano, in sostanza, vizi di motivazione che non sarebbero stati denunciabili neppure alla luce del previgente testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5: la censura, infatti, suggerisce esclusivamente una rivisitazione del materiale istruttorio (e così delle circostanze asseritamente risultanti dagli atti che avrebbero dimostrato l’insussistenza del fatto addebitato al ricorrente con il primo provvedimento disciplinare del 21 novembre 2011), affinchè se ne fornisca una valutazione diversa da quella accolta dalla sentenza impugnata. Ma non può il ricorso per cassazione enucleare vizi di motivazione dal mero confronto tra le risultanze di causa, vale a dire attraverso un’operazione che suppone un accesso diretto agli atti e una loro delibazione non consentiti in sede di legittimità (v. Cass., Sez. U., n. 8053/2014 cit.).

3.1. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4. Rileva il ricorrente che la Corte territoriale non avrebbe risposto al quesito formulato in sede di atto di appello relativo alla circostanza che non sarebbe stato corrispondente al vero che il P. sarebbe stato trovato all’interno della struttura in condizioni non decenti.

3.2. Il motivo è inammissibile per le stesse ragioni evidenziate al paragrafo che precede sub 1.2.

4.1. Con il quarto motivo il ricorrente ripropone la censura di cui al terzo motivo ma sotto il profilo del vizio di omessa motivazione.

4.2. Il motivo è inammissibile in base a considerazioni del tutto analoghe a quelle già svolte nel paragrafo che precede sub 2.2.

Peraltro la Corte territoriale ha ritenuto irrilevante la circostanza che il P. fosse stato sorpreso a torso nudo o meno il che rende la doglianza anche inconferente rispetto al decisum.

5.1. Con il quinto motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione all’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione. Lamenta la mancata valutazione della diffusione dei fatti addebitati al P. moralmente deprecabili e la ritenuta liceità di tale diffusione pur in presenza di un accertamento della inconsistenza degli episodi addebitati al P..

5.2. Anche questo motivo è inammissibile per le ragioni evidenziate al paragrafo sub 2.2.

Il ricorrente attraverso doglianze che si collocano all’esterno dell’area dell’art. 360 c.p.c. e sconfinano in valutazioni di merito pretende una rivalutazione dei fatti di causa preclusa in questa sede di legittimità.

D’altronde non è neppure vero che la Corte territoriale abbia valutato gli episodi addebitati come inconsistenti avendo, anzi, fatto riferimento a comportamenti poco corretti o poco professionali (frasi ingiuriose rivolte a una volontaria, presenza all’interno della struttura in orario serale in compagnia di una signora estranea).

La Corte genovese ha, inoltre, evidenziato che la fondatezza degli addebiti fosse stata confermata dalla mancata contestazione delle sanzioni da parte del lavoratore.

6.1. Con il sesto motivo il ricorrente ripropone la doglianza relativa alla violazione dell’art. 112 c.p.c. e denuncia altresì il difetto di motivazione per non avere la Corte territoriale esaminato e risposto ad uno specifico motivo di appello concernente la diffusione di due episodi oggetto di contestazione disciplinare.

6.2. Il motivo è inammissibile dovendosi anche in questo caso richiamare le considerazioni svolte ai paragrafi che precedono sub 1.2. e 2.2.

7.1. Con il settimo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2103 c.c. per aver la Corte territoriale escluso che nel trasferimento disposto vi fosse stato un intento discriminatorio.

7.2. Il motivo è inammissibile.

Ad onta dei richiami normativi in esso contenuti, il motivo in realtà sollecita soltanto una nuova delibazione nel merito del materiale istruttorio.

8.1 Con l’ottavo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’omesso esame del motivo di appello riguardante la terza contestazione disciplinare per un’assenza ingiustificata laddove si asserisce che fosse risultato provato che il P. aveva tentato di informare i superiori di non potersi recare al lavoro per assistere la madre.

8.2. Il motivo è inammissibile per le stesse ragioni evidenziate al paragrafo precedente sub 1.1.

9.1. Con il nono motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 2087 e 2043 c.c. in relazione alla ritenuta esclusione di comportamenti mobbizzanti.

9.2. Anche in questo caso, nonostante la prospettata denuncia di un vizio formalmente riconducibile all’art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente prospetta, nella sostanza, un vizio di motivazione e propone una diversa lettura delle risultanze di causa, a sè favorevole, operazione non consentita in questa sede di legittimità.

Nella specie, peraltro, la Corte territoriale ha proceduto ad una puntuale valutazione di tutti i fatti addebitati al P. e da quest’ultimo ascritti ad una condotta asseritamente mobbizzante e li ha ritenuti fondati ovvero giustificati e comunque non sorretti da alcun intento persecutorio.

Si ricorda, sul punto, che ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica, sicchè la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perchè, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata; parimenti la conflittualità delle relazioni personali all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore (v. Cass. 10 novembre 2017, n. 26684).

10. Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile.

11. Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura di cui al dispositivo.

12. La circostanza che il ricorrente risulti ammesso a beneficiare del gratuito patrocinio lo esonera, allo stato, dal versamento dell’ulteriore somma dovuta ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater a titolo di contributo unificato (cfr. Cass. 25 novembre 2014, n. 25005 e Cass. 2 settembre 2014, n. 18523).

PQM

La Corte dichiara il ricorso inammissibile; condanna il ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della non sussistenza, allo stato, dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 7 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2018

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