Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24835 del 04/10/2019

Cassazione civile sez. VI, 04/10/2019, (ud. 25/06/2019, dep. 04/10/2019), n.24835

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – rel. Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17005-2018 proposto da:

D.M., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso

la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso

dall’avvocato (OMISSIS);

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO) (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 1896/2017 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 22/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 25/06/2019 dal Presidente Relatore Dott. DI VIRGILIO

ROSA MARIA.

Fatto

RILEVATO

Che:

Con la pronuncia depositata il 22/11/2017, la Corte d’appello di Bari ha respinto l’impugnazione avverso l’ordinanza del Tribunale di Bari, reiettiva delle domande di protezione internazionale ed umanitaria, proposta da D.M., rilevando, quanto alla richiesta di riconoscimento dello status di rifugiato, che la vicenda del migrante(il Diallo, nativo della regione del Kayes nel Mali, aveva dichiarato di essere vissuto nel suo villaggio con la sua famiglia, sino a quando non era fuggito il 5/6/2013, recandosi prima nel Niger e poi in Libia per raggiungere l’Italia, stante i contrasti insorti con il proprio padre, che, quando aveva l’età di 15 anni, gli aveva scelto la ragazza che avrebbe dovuto sposare, cosa che il giovane si era rifiutato di fare, tanto che il padre lo aveva cacciato di casa) rivelava un timore esclusivamente soggettivo di subire contrasti con la famiglia, in particolare col padre, e quindi con soggetti che non potevano ritenersi quali agenti non statuali di persecuzione(e la parte aveva dichiarato in sede di audizione di avere mantenuto buoni rapporti con il resto della famiglia), che inoltre il D. avrebbe potuto chiedere sostegno o protezione dalle autorità locali, per cui doveva ritenersi privo di riscontro oggettivo il timore della parte di subire persecuzione personale, e d’altra parte, il D., nel motivare il suo timore del rimpatrio, aveva fatto semplicemente cenno alla sua paura di rimanere solo.

La Corte d’appello ha altresì escluso la protezione sussidiaria, osservando che mancava del tutto il rischio individualizzato, rilevante allo scopo, e che per la situazione della specifica regione del Kayes,a sud del Mali, non vi sono prove di conflitto armato diffuso e generalizzato e di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato; ha infine escluso la protezione umanitaria, in assenza di ogni allegazione e prova di una particolare situazione di vulnerabilità in ipotesi di rientro nel Paese di origine.

Ricorre il D. avverso detta pronuncia, con ricorso affidato a due motivi.

Il Ministero è rimasto intimato.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

Col primo mezzo, il ricorrente denuncia il vizio ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, comma 1, lett. c) e art. 14; sostiene che non è stato valutato che il contrasto col padre era derivato non da ragioni personali, ma dalla tradizione di organizzare i matrimoni da parte della famiglia di origine, sin dall’adolescenza, tale da configurare minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona, da parte di soggetto non statuale.

Col secondo, si duole della violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14; sostiene che non può negarsi la protezione con la motivazione di non sussistenza di danno grave nel territorio ove è situato il paese di origine dello straniero, anche a ritenere plausibile che ivi si stabilirebbe la parte in caso di rientro.

Il primo mezzo è infondato, atteso che la Corte del merito ha reso corretta applicazione della normativa, ritenendo non sussistente nel caso la minaccia grave ed individuale alla persona derivante da violenza indiscriminata, dato che la vicenda narrata dal D. configura una questione tipicamente familiare, nè i familiari della parte possono ritenersi soggetti non statuali, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5, lett. c), mancando ogni richiesta di protezione alle autorità locali. Quanto specificamente al rilievo, secondo cui il contrasto col padre deriva non da ragioni personali, ma dalla tradizione di organizzare i matrimoni da parte delle famiglie di origine, sin dall’età adolescenziale dei figli, in contrasto quindi con il diritto all’autodeterminazione, va osservato che il D. si è sottratto a detta imposizione del padre, così esercitando il proprio diritto a scegliersi la propria compagna, e lo stesso, come testualmente riportato nella pronuncia impugnata, ha affermato che le persone del villaggio si erano sforzate di far ragionare suo padre, e di avere conservato buoni rapporti con il resto della famiglia: con ciò, risulta smentita ogni possibile ipotesi che, al rientro nel Paese di origine, il D. possa essere vittima di un vero e proprio ostracismo da parte della collettività. Da ciò resta confermato il rilievo della Corte d’appello, essersi trattato di un contrasto personale.

Anche il secondo mezzo è infondato.

La Corte d’appello ha altresì valutato la situazione specifica della regione di provenienza del D., escludendo la situazione di violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato. Ed è inconferente il richiamo alla pronuncia 2294/2012, che attiene al caso, diverso, dello straniero che potrebbe trasferirsi in zona diversa da quella di origine. Ed infatti, la pronuncia citata ha affermato che: in tema di protezione internazionale dello straniero, il riconoscimento del diritto ad ottenere lo “status” di rifugiato politico, o la misura più gradata della protezione sussidiaria, non può essere escluso, nel nostro ordinamento, in virtù della ragionevole possibilità del richiedente di trasferirsi in altra zona del territorio del Paese d’origine, ove egli non abbia fondati motivi di temere di essere perseguitato o non corra rischi effettivi di subire danni gravi, atteso che tale condizione, contenuta nella Direttiva 2004/83/CE, art. 8, non è stata trasposta nel D.Lgs. n. 251 del 2007, essendo una facoltà rimessa agli Stati membri inserirla nell’atto normativo di attuazione della Direttiva. (conf. 8399/2014).

Conclusivamente, va respinto il ricorso; non v’è luogo alla pronuncia alle spese, non essendosi costituito l’intimato.

PQM

La Corte respinge il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 25 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 ottobre 2019

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