Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24830 del 09/10/2018

Cassazione civile sez. lav., 09/10/2018, (ud. 20/04/2018, dep. 09/10/2018), n.24830

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BALESTRIERI Federico – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18989-2016 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO,

rappresentata e difesa dall’avvocato PAOLO TOSI, giusta delega in

atti;

– ricorrente –

contro

R.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BELSIANA 71,

presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE DELL’ERBA, rappresentato e

difeso dall’avvocato ORONZO DE DONNO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 208/2016 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA,

depositata il 03/06/2016 R.G.N. 28/2016.

Fatto

RILEVATO

CHE:

1. La Corte di appello di Brescia, in accoglimento del reclamo proposto da R.F., rigettato quello incidentale di Poste Italiane s.p.a., ha accertato e dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato da Poste Italiane s.p.a. il 28 novembre 2014. Per l’effetto ha condannato la società a reintegrare il lavoratore nel posto in precedenza occupato ed a pagare un’indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, a versare i contributi previdenziali ed assistenziali dal licenziamento alla reintegrazione ed a pagare gli interessi legali ai sensi della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, comma 4 e ss.

2. La Corte territoriale ha escluso che il comportamento contestato al lavoratore integrasse una giusta causa di licenziamento, così aderendo alla ricostruzione operata anche dal Tribunale. Ha escluso che nella condotta fosse ravvisabile un notevole inadempimento dei doveri contrattuali che giustificasse comunque la risoluzione del rapporto di lavoro. Ha osservato infatti che il mancato rispetto della procedura introdotta con la Comunicazione interna n. 250 (la c.d. COI 250 con la quale erano regolati i prelievi in contanti per importi maggiori o uguali ad Euro 20.000,00 ed era prevista una autorizzazione da parte di un ufficio antiriciclaggio TSC) ove pure ritenuta non scusabile in relazione all’elevato grado di diligenza richiesto con riguardo alle mansioni svolte, tuttavia non rivelasse un pericolo di futuro inadempimento da parte del lavoratore. A tal fine ha evidenziato che la novità delle procedure introdotte con la COI 250, valutata insieme al fatto che in concreto non era stata poi rilevata alcuna anomalia nei prelievi che avevano condotto alla contestazione, giustificasse un ridimensionamento dell’entità dell’inadempimento. In esito all’esame delle norme collettive che individuano le condotte rilevanti ai fini dell’irrogazione del licenziamento, quindi, la Corte ha escluso la sussistenza di un notevole inadempimento sottolineando che, nello specifico, nessun danno ne era derivato e che l’inadempimento doveva essere qualificato come mera inosservanza del regolamento aziendale. Quanto alle conseguenze dell’accertata illegittimità del recesso la Corte territoriale ha ritenuto che, tenuto conto della non particolare gravità della condotta accertata, questa avrebbe dovuto essere punita con una sanzione conservativa (in concreto applicata in altri casi verificatisi, anche più gravi di quello in esame) sicchè in applicazione dell’art. 18, comma 4 dello Statuto, nel testo novellato dalla L. n. 92 del 2012, doveva essere disposta la reintegrazione nel posto di lavoro e la condanna al pagamento dell’indennità risarcitoria nella misura di dodici mensilità oltre che al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali.

3. Per la cassazione della sentenza ricorre Poste Italiane s.p.a. ed articola sei motivi ai quali resiste con controricorso R.F.. Entrambe le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 380 bis 1. c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

CHE:

4. I primi tre motivi di ricorso, che investono sotto vari profili la valutazione della legittimità del licenziamento in relazione alla ritenuta giusta causa di licenziamento, vanno trattati congiuntamente e sono in parte inammissibili ed in parte infondati.

4.1. La Corte territoriale non è incorsa nella denunciata violazione degli artt. 2104,2106 e 2119 c.c. e dell’art. 54 punto VI lett. c) e k) c.c.n.l. Poste 14.4.2011 laddove ha escluso che la condotta accertata integrasse una giusta causa di licenziamento ai sensi della disciplina legale e contrattuale. Il giudice di appello è pervenuto a tale determinazione, con la quale ha confermato sul punto la statuizione del Tribunale, esaminando la condotta sia sotto il profilo dell’avvenuta “violazione dolosa di leggi e regolamenti o dei doveri d’ufficio che possano arrecare o abbiano arrecato forte pregiudizio alla Società o a terzi” (art. 54 punto 6 lett. c) c.c.n.l.), sia in generale “per fatto o atti dolosi anche nei confronti di terzi, compiuti in connessione con il rapporto di lavoro, di gravità tale da non consentire la prosecuzione del rapporto di lavoro” (art. 54 punto 6 lett. k) c.c.n.l.). Accertati i fatti nella loro materialità (inosservanza della COI 250 nelle cinque operazioni di prelievo in favore di due correntisti e mancata segnalazione di operazioni sospette con il processo Extragianos) ha escluso, poi, che la condotta sicuramente negligente, fosse connotata dalla indispensabile dolosità. Tale ricostruzione è aderente al tenore della previsione collettiva che espressamente prevede una condotta dolosa sicchè per tale aspetto la sentenza è corretta. Come già ritenuto da questa Corte, ai fini della valutazione della sussistenza della giusta causa di licenziamento, l’art. 54, comma 6, lett. c) c.c.n.l. del 14 aprile 2011 per i dipendenti delle Poste italiane, richiede il dolo, quale rappresentazione e volizione del fatto costituente l’addebito disciplinare, nonchè la sussistenza del pregiudizio, alla società o a terzi, inteso come diminuzione dei valori e delle utilità economiche del danneggiato (cfr. Cass. 30/11/2015 n. 24367). Del pari infondate sono le censure con le quali ci si duole della mancata sussunzione del fatto accertato in una di quelle violazioni che comunque legittimano la risoluzione del rapporto di lavoro perchè ledono irrimediabilmente il vincolo fiduciario.

4.2. Come è noto i concetti di giusta causa di licenziamento e di proporzionalità della sanzione disciplinare costituiscono clausole generali, vale a dire disposizioni di limitato contenuto, che richiedono di essere concretizzate dall’interprete tramite valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, a condizione però che la contestazione in tale sede contenga una specifica denuncia di incoerenza del giudizio rispetto agli “standards” esistenti nella realtà sociale e non si traduca, come avviene nel caso di specie, in una richiesta di accertamento della concreta ricorrenza degli elementi fattuali che integrano il parametro normativo, accertamento che è riservato ai giudici di merito (cfr. in termini recentemente Cass. 26/03/2018 n. 7426). Va infatti rammentato che ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso deve essere valutata ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali. In tal senso va valutata la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, in relazione alle concrete modalità ed al contesto di riferimento. Occorre verificare se si tratta di una condotta idonea a porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento in quanto denoti una scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza. Si tratta, all’evidenza, di accertamento demandato al giudice di merito che deve valutare la congruità della sanzione espulsiva non astrattamente ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro. Occorrerà quindi assegnare rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni ma anche alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, sempre tenendo presenti la natura e la tipologia del rapporto medesimo (cfr. Cass. 13/02/2012 n. 2013).

4.3. Orbene, la Corte di merito, nel valutare se la condotta accertata fosse sussumibile nella previsione generale di cui all’art. 2119 c.c. si è correttamente attenuta ai principi sopra enunciati e, esclusa la sussistenza della specifica ipotesi contrattuale per mancanza dell’elemento intenzionale del dolo dalla norma richiesto, ha poi correttamente calato la violazione nel generale contesto in cui la prestazione si è svolta. Ha accertato che le disposizioni regolamentari violate presentavano profili di ambiguità che ben potevano aver indotto in errore il R. evidenziando che altrettanto era accaduto nello stesso periodo ad altri direttori di uffici. Ha constatato che si trattava di un lavoratore con una lunga storia professionale priva di rilievi disciplinari. In tal modo la Corte ha compiuto quella operazione di contestualizzazione della condotta addebitata rivalutandone la gravità e pervenendo ad un giudizio di sproporzione che risulta ancorato ad una ricostruzione dei fatti esente da vizi e, perciò, in questa sede incensurabile.

4.4. Neppure, poi, è incorsa nel denunciato omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti. Il giudice di appello, infatti, nel ricostruire i fatti per valutarne la rilevanza disciplinare ha esattamente sottolineato che le singole infrazioni non erano il risultato di operazioni frazionate ma piuttosto si erano realizzate ciascuna con un singolo prelievo (di Euro 20.000,00 ogni volta) che tuttavia si era caratterizzato per il fatto che la prenotazione delle somme era per Euro 15.000,00 e l’integrazione era il risultato di una richiesta avanzata al momento della erogazione cui si era dato corso in considerazione della presenza in cassa degli ulteriori Euro 5.000,00 richiesti. Così facendo la Corte ha dato conto di aver preso in esame la circostanza che oggi si pretende omessa.

5. Con il quarto motivo di ricorso ci si duole della violazione degli artt. 2104, 2106, 2118, della L. n. 604 del 1966, art. 3 e dell’art. 54, punto 5, lett. C) e D) c.c.n.l. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Ritiene infatti che comunque la condotta accertata integrava un notevole inadempimento che giustificava la risoluzione del rapporto con preavviso anche alla luce delle previsioni collettive che sanzionano con il licenziamento l’irregolarità, la trascuratezza o negligenza ovvero l’inosservanza di leggi o regolamenti o obblighi di servizio dalle quali sia derivato pregiudizio alla sicurezza o regolarità del servizio con gravi danni alla Società (art. 54, punto 5, lett. c) ovvero per aver occultato fatti e circostanze relativi all’illecito uso, distrazione o sottrazione di somme (lett. d) e sottolinea che il grave danno era in concreto riscontrabile con riguardo all’immagine della società.

5.1. La censura è infondata. Il giudice di appello ha correttamente esaminato quali erano gli elementi che a norma dell’art. 54, punto 5, lett. c) del contratto collettivo integravano quel notevole inadempimento che giustifica la risoluzione con preavviso del rapporto di lavoro ed ha in concreto escluso che la condotta accertata fosse riconducibile a tale astratta fattispecie. Nel valutare poi la rilevanza dell’inadempimento in relazione alla L. n. 604 del 1966, art. 3 poi, la Corte territoriale con ampia e motivata ricostruzione ha ritenuto che l’inadempimento doveva essere ridimensionato nella sua gravità avendo accertato che dalla verifica compiuta dal Fraud Management, investito dei controlli, su tutte le operazioni compiute successivamente all’introduzione della procedura, era emerso che la violazione era stata limitata a quei singoli episodi e che non erano state registrate altre anomalie nei prelievi. Va qui ribadito che il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso è istituzionalmente rimesso al giudice di merito e si sostanzia nella valutazione della gravità dell’ inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che, a tutela del lavoratore, il suo inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicchè l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (cfr. recentemente Cass. 06/07/2018 n. 17787 ma già Cass. 10/12/2007 n. 25743 ed altre successive).

6. Il quinto ed il sesto motivo con i quali sotto diversi profili ci si duole della disposta reintegrazione nel posto di lavoro sono infondati.

6.1. L’art. 18 statuto dei lavoratori, nel testo modificato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 42, riconosce, al comma 4, la tutela reintegratoria in caso di insussistenza del fatto contestato, nonchè nelle ipotesi in cui il fatto contestato sia sostanzialmente irrilevante sotto il profilo disciplinare o non imputabile al lavoratore; la non proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato ed accertato rientra nel suddetto comma 4 quando questa risulti dalle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili, che stabiliscano per esso una sanzione conservativa, diversamente verificandosi le “altre ipotesi” di non ricorrenza del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa per le quali l’art. 18, comma 5 prevede la tutela indennitaria c.d. forte (cfr. Cass. 25/05/2017 n. 13178).

6.2. Tanto premesso va rilevato che la Corte di merito ha accertato che la condotta contestata al R., una volta esclusane la riconducibilità alla più grave ipotesi prevista dall’art. 54, punto 6, lett. c) e k) e dall’art. 54, punto 5, lett. c) e d) del c.c.n.l. di settore, andava inquadrata nella fattispecie descritta nell’art. 54, punto 4, lett. n) del c.c.n.l. punita con la sanzione conservativa della sospensione dal servizio fino a dieci giorni trattandosi di una “negligenza o inosservanza di leggi e regolamenti o di obblighi di servizio deliberatamente commesse anche per procurare indebiti vantaggi a sè o a terzi (…) sempre che la mancanza non abbia carattere di particolare gravità altrimenti sanzionabile”. A conforto di tale ricostruzione ha accertato che in fattispecie analoghe a quella esaminata la stessa società aveva ravvisato proprio la violazione dell’art. 54, punto 4, lett. n) ricordato ed ha ritenuto ammissibile la documentazione attestante l’irrogazione della sanzione conservativa depositata con il reclamo sul rilievo che si era formata in epoca successiva al deposito dell’opposizione. Si tratta di accertamento di fatto rispetto al quale la società ricorrente oppone che la documentazione si sarebbe formata prima del deposito della sentenza ma non precisa affatto quando nè chiarisce dove tale documentazione è reperibile così incorrendo in una insanabile genericità della censura che perciò deve essere dichiarata inammissibile.

7. In conclusione il ricorso deve essere rigettato e le spese, liquidate in dispositivo, vanno poste a carico della società soccombente. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, poi, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis citato D.P.R..

PQM

La Corte, rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13, comma 1 bis citato D.P.R..

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 20 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2018

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