Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24822 del 05/11/2013


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Civile Sent. Sez. 6 Num. 24822 Anno 2013
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: SAN GIORGIO MARIA ROSARIA

SENTENZA
sul ricorso 13062-2012 proposto da:
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore,
rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, rappresentato e difeso
dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n.
12, è elettivamente domiciliato per legge;

– ricorrente –

Data pubblicazione: 05/11/2013

contro
GRASSO ROMOLO quale erede di DE CHIARA ANNA (GRS RML 52°04F113V),
rappresentato e difeso dall’Avv. Antonio Aceto, giusta procura a margine del ricorso,
elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, Via Flaminia n. 71

con troricorrente
avverso il decreto della Corte d’appello di Roma depositato il 4 aprile 2011;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 4/12/2012 dal
Consigliere Relatore Dott. MARIA ROSARIA SAN GIORGIO.

2R0.2

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LL

Sentito il Procuratore Generale in persona del Doti LIBERTINO ALBERTO RUSSO,
che ha concluso per il rigetto del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
La Corte d’appello di Roma, con decreto depositato il 4 aprile 2011, in accoglimento del
ricorso proposto da Grasso Romolo, ha condannato il Ministero della Giustizia al

durata del processo, della somma di euro 13000, da attribuire al ricorrente nei limiti della
sua quota ereditaria, e cioè di un terzo.
La Corte di merito, rigettata la eccezione di prescrizione, ha rilevato che il giudizio
presupposto, iniziato con atto di citazione del dante causa del Grasso in data 12
dicembre1986, innanzi al Tribunale di Benevento, è stato definito in primo grado con
sentenza depositata in data 21 dicembre 2001, gravata di appello il 31 gennaio 2003, e
non era ancora definito all’epoca della presentazione del ricorso (12 giugno 2008),
La Corte capitolina, rilevata la non complessità del giudizio presupposto, che avrebbe
potuto essere ragionevolmente definito in tre anni per il primo grado e in due per
l’appello, ha stimato la protrazione del giudizio oltre il termine di durata ragionevole pari
a circa tredici anni, detratto il periodo di circa un anno e sei mesi corrispondenti ai rinvii
per la precisazione delle conclusioni in grado di appello, e considerato che, avendo il
ricorrente agito esclusivamente nella qualità di erede di Anna De Chiara, il periodo da
prendere in esame ai fini dell’equa riparazione ex lege n. 89 del 2001 era unicamente
quello fino alla data del decesso del de cuius, e cioè fino al 16 aprile 2007. Ha
determinato il danno non patrimoniale subito dal ricorrente nella misura di euro 1000
per ogni anno di ritardo.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre il Ministero della Giustizia sulla base di otto
motivi. Resiste con controricorso il Grasso, che ha anche depositato memoria
illustrativa.
CONSIDERATO IN DIRITTO
Il Collegio ha deliberato l’adozione della motivazione semplificata nella redazione della
sentenza.

2

pagamento, a titolo di equa riparazione del danno non patrimoniale da irragionevole

Deve preliminarmente rigettarsi la eccezione di inammissibilità, improponibilità o
improcedibilità di alcuni dei motivi del ricorso per mancata formulazione dei quesiti di
diritto ai sensi dell’art. 366-bis cod.proc.civ.
Infatti, alla stregua del principio generale di cui all’art. 11, comma primo, disp. prel. cod.
civ., secondo cui, in mancanza di un’espressa disposizione normativa contraria, la legge

specifico disposto del comma quinto dell’art. 58 della legge 18 giugno 2009, n. 69, in
base al quale le norme previste da detta legge si applicano ai ricorsi per cassazione
proposti avverso i provvedimenti pubblicati a decorrere dalla data di entrata in vigore
della medesima legge (4 luglio 2009), l’abrogazione dell’art. 366-bis cod. proc. civ.
(intervenuta ai sensi dell’art. 47 della citata legge n. 69 del 2009) è diventata efficace per i
ricorsi avanzati con riferimento ai provvedimenti pubblicati successivamente alla
suddetta data, quale quello di cui si tratta.
Con i primi quattro motivi si contesta sostanzialmente la configurazione operata dalla
Corte di merito del diritto all’equa riparazione da durata irragionevole del processo come
una fattispecie unitaria in relazione alla quale la previsione di un termine semestrale
decadenziale ex art. 4 della legge n. 89 del 2001 assorbirebbe ogni termine prescrizionale,
laddove detto diritto matura, secondo il ricorrente, progressivamente via via che il
ritardo non ragionevole trovi verificazione nello svolgimento del procedimento
presupposto, versandosi, pertanto, in tema di fattispecie a formazione progressiva. Si
rileva, altresì, nel ricorso il carattere non innovativo a livello ordinamentale della legge n.
89 del 2001 in relazione alla preesistenza del diritto rispetto alla legge medesima, stante la

non dispone che per l’avvenire e non ha effetto retroattivo, nonché del correlato

norma di recepimento interna di cui alla legge n. 848 del 1955, con la conseguenza che il
diritto di cui si tratta ben poteva essere fatto valere dall’attuale ricorrente fin dal
momento in cui fu superato il termine ragionevole di durata del processo presupposto:
donde l’applicabilità della disciplina relativa alla prescrizione estintiva decennale alle
azioni riparatorie relative ai processi in corso alla data di entrata in vigore della legge n.
89 del 2001.
I quattro motivi, da esaminare congiuntamente siccome strettamente connessi, sono
immeritevoli di accoglimento.
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Ci_

Come chiarito dalle Sezioni Unite, in tema di equa riparazione per violazione del termine
di ragionevole durata del processo, la previsione della sola decadenza dall’azione
giudiziale per ottenere l’equo indennizzo a ristoro dei danni subiti a causa
dell’irragionevole durata del processo, contenuta nell’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n.
89, con riferimento al mancato esercizio di essa nel termine di sei mesi dal passaggio in

decorrenza dell’ordinario termine di prescrizione, in tal senso deponendo non solo la
lettera dell’art. 4 richiamato, norma che ha evidente natura di legge speciale, ma anche
una lettura dell’art. 2967 cod. civ. coerente con la rubrica dell’art. 2964 cod. civ., che
postula la decorrenza del termine di prescrizione solo allorché il compimento dell’atto o
il riconoscimento del diritto disponibile abbia impedito il maturarsi della decadenza;
inoltre, in tal senso depone, oltre all’incompatibilità tra la prescrizione e la decadenza, se
riferite al medesimo atto da compiere, la difficoltà pratica di accertare la data di
maturazione del diritto, avuto riguardo alla variabilità della ragionevole durata del
processo in rapporto ai criteri previsti per la sua determinazione, nonché il
frazionamento della pretesa indennitaria e la proliferazione di iniziative processuali che
l’operatività della prescrizione in corso di causa imporrebbe alla parte, in caso di ritardo
ultradecennale nella definizione del processo (Cass., S.U., sent. n. 16783 del 2012.; conf.:
Cass., 16557 e 17277 del 2013).
Con il quinto motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione dell’art. 4 della legge
n. 89 del 2001. Si eccepisce la tardività della richiesta indennitaria svolta dal ricorrente
quale erede, per essere stato il ricorso depositato oltre il termine di sei mesi dalla data del
decesso del de cuius. Infatti, il termine decadenziale di cui alla norma invocata non
avrebbe potuto essere ricondotto che alla data del decesso di costui.
Il motivo è infondato.
In tema di equa riparazione per violazione del termine di ragionevole durata del
processo, l’art. 4 della legge 24 marzo 2001, n. 89 configura la sola definitività della
decisione come dies a quo ai fini della decorrenza del termine di decadenza per la
proponibilità della domanda, mentre il diritto dell’erede di agire in tale qualità, dopo la
morte del dante causa, si prospetta come mera possibilità di esercitare quel diritto, senza,
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giudicato della decisione che ha definito il procedimento presupposto, esclude la

quindi, che si possa ricollegare alla morte della parte alcun effetto giuridico incidente sul
termine di proponibilità della domanda (Cass., sentt. n. 20564 del 2010, n. 27719 del
2009).
Con il sesto ed il settimo motivo, si lamenta la omessa motivazione su di un punto
decisivo della controversia, nonché la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2 della

processo del periodo di un anno, corrispondente al deposito del ricorso in appello nel
termine lungo.
La doglianza è infondata.
In realtà, deve ritenersi che detto periodo sia stato considerato, come desumibile dalla
circostanza che la Corte d’appello, dopo aver rilevato che la durata ragionevole del
processo presupposto sarebbe stata di cinque anni tra primo e secondo grado, e che,
invece, esso si era protratto dal 12 dicembre 1986 al 16 aprile 2007 (dies ad quem ai fini
che qui rilevano, in quanto data del decesso del de cuius), ha ritenuto la durata eccedente
quella ragionevole pari a tredici anni, e non a quattordici, quale sarebbe stata – detratto
l’ulteriore periodo di un anno e sei mesi dovuto a rinvii per la precisazione delle
conclusioni in appello — la durata risultante dal mero calcolo dell’arco temporale
intercorrente tra il periodo di cinque anni, ragionevole, e quello di effettiva durata del
processo.
Con l’ottavo motivo, si denuncia la motivazione omessa e/o insufficiente in relazione al

quantum della liquidazione. La Corte di merito non avrebbe chiarito le ragioni per le quoli,
pur in presenza di un procedimento di complessità superiore alla media e del concorso

legge n. 89 del 2001 con riferimento al mancato scorporo dal computo della durata del

della parte nella caus azione del ritardo, sia stato liquidato l’indennizzo parametrato sulla
base di mille curo per anno di durata non ragionevole del processo, anziché di
settecentocinquanta per i primi tre anni di ritardo, come indicato dalla giurisprudenza
nelle ipotesi di non peculiare rilevanza della posta in giuoco.
Il motivo è infondato.
Ai fini della liquidazione dell’indennizzo del danno non patrimoniale conseguente alla
violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, ai sensi della legge 24 marzo
2001, n. 89, l’ambito della valutazione affidato al giudice del merito è segnato dal rispetto
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4

della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come applicata dalla Corte europea dei
diritti dell’uomo, e di casi simili a quello portato all’esame del giudice nazionale; pertanto,
è configurabile, in capo al giudice del merito, un obbligo di tener conto dei criteri
elaborati dalla CEDU, pur conservando un margine di valutazione che gli consente di
discostarsi, in misura ragionevole e motivatamente, dalle liquidazioni effettuate in casi

tra euro 1000,00 e curo 1.500,00 per ogni anno di eccessiva durata l’importo relativo alla
riparazione del danno (v., tra le altre, Cass., sent. n. 1605 del 2007).
Questa Corte ha poi precisato che la quantificazione del danno non patrimoniale
dev’essere, di regola, non inferiore a curo 750,00 per ogni anno di ritardo, in relazione ai
primi tre anni eccedenti la durata ragionevole, e non inferiore a euro 1000 per quelli
successivi (v., tra le altre, Cass., sent. n. 8471 del 2012).
Nella specie, il giudice di merito non si è discostato, nell’esercizio della sua valutazione
discrezionale, da tale orientamento.
Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato. Nella peculiarità delle questioni, alcune
delle quali oggetto di contrasto giurisprudenziale all’epoca della emissione del decreto
impugnato e della proposizione del ricorso, si ravvisano giusti motivi per la
compensazione delle spese del presente giudizio.
P . Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa tra le parti le spese del giudizio.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sesta Sezione civile, Sottosezione
Seconda, il 4 dicembre 2012.

simili da quella Corte, che ha, in linea di massima, determinato in una somma oscillante

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