Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24820 del 06/11/2020

Cassazione civile sez. I, 06/11/2020, (ud. 08/10/2020, dep. 06/11/2020), n.24820

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10245/2019 proposto da:

U.H.M., elettivamente domiciliato in Roma presso la

CANCELLERIA civile della CORTE SUPREMA di CASSAZIONE e rappresentato

e difeso dall’avvocato Raffaele Rigamonti, in forza di procura

speciale in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope

legis;

– resistente –

avverso la sentenza n. 729/2019 della Corte d’appello di MILANO,

depositata il 18/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio

dell’8/10/2020 dal Cons. Dott. IOFRIDA GIULIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Milano, con sentenza n. 729/2019, depositata in data 18/02/2019, ha respinto il gravame di U.H.M., cittadino del (OMISSIS), avverso il decreto del Tribunale che aveva rigettato la richiesta dello stesso, a seguito di diniego della competente Commissione territoriale, di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria e per ragioni umanitarie.

In particolare, i giudici d’appello hanno ritenuto, al pari del giudice di primo grado, il racconto del richiedente (essere fuggito dal Paese d’origine, per minacce ricevute da avversari politici, e per il timore di essere arrestato dalla polizia, a causa della sua militanza nel partito (OMISSIS), messo al bando dal governo pakistano nel 2008, dopo che, nel (OMISSIS), un suo amico, arrestato, aveva fatto il suo nome ed il di lui padre, al posto suo, era stato arrestato) non credibile e comunque non integrante i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria, anche D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), non potendo la concessione di tale misura protettiva essere giustificata neppure dalla situazione generale del Paese d’origine (Report EASO), non emergendo una situazione di violenza indiscriminata; non ricorrevano neppure i presupposti per la concessione della protezione umanitaria, in difetto di situazioni di personale vulnerabilità e non essendo stato neppure documentato un serio percorso di integrazione avviato in Italia.

Avverso la suddetta pronuncia, U.H.M. propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che si costituisce al solo fine di partecipare all’udienza pubblica di discussione).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta: a) con il primo motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, l’omessa motivazione, in violazione dell’art. 112 c.p.c., in ordine alla possibilità di un riconoscimento in capo al richiedente del permesso di soggiorno D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 19, malgrado l’allegazione di essere stato vittima di atti persecutori in quanto iscritto ad un partito politico; b) con il secondo motivo, la “violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, punto 5, per omessa valutazione di un fatto decisivo”, rappresentato dall’appartenenza del richiedente ad un partito messo al bando dal governo pakistano e dal fatto che la militanza di conseguenza era stata tenuta nascosta dal medesimo; c) con il terzo motivo, sia la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 2697 e 2704 c.c., sia l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo, per avere ritenuto, in assenza di specifica contestazione ad opera dell’amministrazione appellata, un documento, prodotto in giudizio dal richiedente al fine di dimostrare l’appartenenza del medesimo al partito (OMISSIS), non attendibile; d) con il quarto motivo, “l’omessa considerazione di fatto decisivo della controversia con riguardo al D.Lgs. n. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 115 c.p.c.”, in relazione a documenti prodotti in giudizio attestanti la frequentazione di corsi di lingua in Italia ed attività lavorative ivi svolte.

2. La prima censura è infondata.

Il ricorrente lamenta l’omessa pronuncia circa un “diritto al permesso di soggiorno ai sensi del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19”.

Ora, la disposizione invocata prevede al comma 1, che “in nessun caso può disporsi l’espulsione o il respingimento verso uno Stato in cui lo straniero possa essere oggetto di persecuzione per motivi di razza, di sesso, di lingua, di cittadinanza, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali o sociali, ovvero possa rischiare di essere rinviato verso un altro Stato nel quale non sia protetto dalla persecuzione”. Essa quindi non introduce un diverso permesso di soggiorno o una forma di protezione internazionale, autonoma o distinta da quelle di riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria o della protezione per ragioni umanitarie, ma rappresenta solo specifiche condizioni ostative all’espulsione dello straniero.

Non ricorre pertanto il vizio denunciato di omesso esame di motivo di appello (peraltro, in ricorso, si indica tra i motivi di appello proposti dal richiedente quello di carente motivazione della decisione del Tribunale sulla richiesta di riconoscimento del diritto ad “un permesso umanitario ai sensi del D.Lgs. n. 296 del 1998, art. 5, comma 6 o art. 19”) o di domanda di protezione internazionale, avendo la Corte di merito esaminato la richiesta di protezione internazionale nella sua triplice forma.

3. Il secondo motivo è infondato, non ricorrendo il vizio di omesso esame di fatto decisivo o di assoluta contraddittorietà motivazionale denunciato.

La Corte d’appello ha esaminato la vicenda narrata dal richiedente, ritenendo il racconto vago e lacunoso e quindi non credibile in punto

di timore di persecuzioni per ragioni politiche, avendo lo stesso dichiarato di avere militato nel partito (OMISSIS) sin dal 2007, anche dopo il 2008 allorchè esso venne messo al bando dal governo pakistano, ma di avere comunque continuato a fare “propaganda per il partito, viaggiando per il Paese”, senza essere mai arrestato (il padre sarebbe stato arrestato nel 2016 “al posto suo”), sino all’aprile 2015, epoca in cui egli aveva lasciato il Paese d’origine ed il Partito; in ogni caso, la militanza nel partito sarebbe ormai cessata da oltre tre anni.

Le suddette valutazioni costituiscono apprezzamenti di fatto rimessi al giudice del merito e la motivazione della sentenza impugnata è sorretta da un contenuto non inferiore al minimo costituzionale, come delineato dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. S.U. n. 8053/2014 e Cass. S.U. 22232/2016).

4. Il terzo motivo è inammissibile, in quanto volto a togliere rilievo alla valutazione di merito operata dalla Corte sulla non credibilità del richiedente, operata non sul solo esame del documento in questione (una dichiarazione resa dal Vice Presidente del (OMISSIS), tradotta in lingua italiana, attestate le difficoltà degli attivisti del partito che agiscono in clandestinità) ma sul complessivo contenuto delle dichiarazioni rese dal richiedente ed in primis sulla non attualità del rischio persecutorio, avendo il medesimo cessato l’attività di militanza nel partito da oltre tre anni.

Attraverso il vizio denunciato di violazione di legge, si tende a sovvertire la valutazione di merito delle risultanze processuali.

Il motivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, non integra il vizio motivazionale previsto dall’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 e comunque il fatto rappresentato dal documento è stato preso in esame dalla Corte di merito.

4. Anche il quarto motivo è infondato, in quanto si assume che sarebbe stato omesso l’esame delle buste paga attestanti l’effettiva sussistenza dell’attività lavorativa in Italia, ma il fatto non è decisivo, avendo la Corte di merito anzitutto escluso la ricorrenza di situazioni di vulnerabilità del richiedente, costituenti uno dei parametri con i quali il giudice deve effettuare, ai fini della protezione umanitaria, l’esame comparativo della situazione del richiedente nel Paese d’origine ed in Italia.

E’ stato infatti chiarito che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

5. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 novembre 2020

 

 

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