Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24818 del 05/12/2016


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Cassazione civile sez. VI, 05/12/2016, (ud. 19/10/2016, dep. 05/12/2016), n.24818

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARIENZO Rosa – Presidente –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22659-2014 proposto da:

C.M.L., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DOMENICO

CHELINI 10, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO BARILE,

rappresentata e difesa dall’avvocato ETTORE MARCARELLI giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR

presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato

RAIMONDO SALVIONE giusta procura speciale a margine del

controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3975/2014 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

emessa il 13/05/2014 e depositata il 03/06/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

19/10/2016 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONELLA PAGETTA;

udito l’Avvocato Raimondo Salvione, per la controricorrente, che si

riporta al controricorso.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Con sentenza n. 3975/2014 la Corte di appello di Napoli, in riforma della decisione di primo grado, ha condannato C.M.L. a corrispondere all’appellante M.i. la complessiva somma di Euro 67.564,81, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.

Il decisum del giudice di appello è stato fondato sulle seguenti considerazioni: è da escludere il maturarsi del termine prescrizionale in relazione alle differenze retributive rivendicate dalla lavoratrice atteso che le risultanze del verbale ispettivo dell’INPS, fondate sulle dichiarazioni della sola datrice di lavoro presente all’accertamento e su dati attinti dalle scritture contabili, risultano in contrasto con le dichiarazioni rese dai testi escussi in merito all’epoca di effettiva cessazione del rapporto di lavoro inter partes. invero, a prescindere dalla circostanza che in ordine all’epoca di cessazione del rapporto di lavoro non vi è coincidenza tra quanto risultante dal verbale ispettivo dell’INPS, secondo il quale il rapporto avrebbe avuto una durata compresa tra il 15.2.2001 e il 14.3.2001, quanto attestato dalla comunicazione datoriale di cessazione del rapporto per dimissioni della lavoratrice, in cui la cessazione è fissata alla data del 19.2.2001 e, infine, quanto risultante dalla lettera di dimissioni della M., nella quale è indicata la data del 2.4.2001, dalla istruttoria espletata è emerso che tra le parti è intercorso un rapporto di lavoro subordinato dal 1.9.1998 al 30.1.2002, epoca nella quale la lavoratrice è stata licenziata. Le dichiarazioni dei testi di parte ricorrente convergono in ordine alla durata, alle mansioni ed all’orario osservato e non risultano contraddette dalle generiche e scarne dichiarazioni rese dai testi indotti da parte resistente; non è utilizzabile il documento esibito dalla convenuta a dimostrazione delle presunte dimissioni rassegnate dalla ricorrente in quanto tale documento è stato disconosciuto dalla lavoratrice senza che la controparte desse corso al procedimento di verificazione; deve quindi ritenersi provato che tra le parti è intercorso un rapporto di lavoro, con mansioni corrispondenti al 4^ livello del ccnl, per il periodo dedotto in ricorso 1.9.1998/30.1.2002-, con l’osservanza di un orario lavorativo articolato dalle 8,00 alle 13,00 e dalle 16,00 alle 21,30, dal lunedì al sabato, con esclusione del giovedì, e dalle 8.00 alle 13,00 per la domenica ed i festivi.. In ordine al trattamento economico, rapportato a quello previsto per il 4^ livello del ccnl Commercio, tenuto conto del percepito, dalla espletata consulenza contabile è risultato dovuto un importo superiore al quantum preteso dalla lavoratrice, per cui la condanna della parte datrice deve essere contenuta nei limiti del petitum.

Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso C.M.L. sulla base di tre motivi di ricorso; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso.

Il Consigliere relatore, nella relazione depositata ai sensi degli artt. 375 e 280 bis c.p.c., ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Il Collegio condivide tale valutazione.

Invero, con il primo motivo di ricorso parte ricorrente ha dedotto violazione ed errata applicazione dell’art. 2700 c.c., censurando la decisione per avere ritenuto non probante, ai fini dell’accertamento della effettiva durata del rapporto, il verbale ispettivo dell’INPS, atto pubblico destinato a fare fede fino a querela di falso – mai presentata dalla lavoratrice – in ordine a ciò che i verbalizzanti attestano essere avvenuto in loro presenza e della provenienza delle dichiarazioni dei soggetti interrogati.

Con il secondo motivo di ricorso ha dedotto violazione ed erronea applicazione del combinato disposto dell’art. 2700 c.c. e dell’art. 221 c.p.c., censurando la decisione sul rilievo che, in assenza di querela di falso proposta dalla lavoratrice, il verbale ispettivo non avrebbe potuto essere considerato smentito da risultanze e/o dichiarazioni di segno contrario, acquisite nel corso del processo.

Con il terzo motivo di ricorso ha dedotto nullità della sentenza per violazione dell’art. 116 c.p.c.. Ha censurato la decisione per avere attribuito fede privilegiata unicamente alle dichiarazioni testimoniali provenienti da persone interessate all’esito del giudizio, affermando la generale ed assoluta superiore attendibilità di tali dichiarazioni in ordine alla esistenza del rapporto lavorativo, senza neppure apprezzarle liberamente in concorso con le altre risultanze probatorie; in sintesi ha contestato la valutazione di attendibilità delle deposizioni testimoniali rese dal padre della lavoratrice e da L.E., compagno della stessa, all’epoca dei fatti e denunziando la mancata valutazione delle deposizioni dei testi F. e Fo., i quali avevano riferito di non avere mai visto la M., nell’esercizio commerciale gestito dalla C..

I primi due motivi di ricorso, trattati congiuntamente in quanto connessi, presentano profili di inammissibilità, oltre ad essere manifestamente infondati nel merito.

Parte ricorrente, in violazione del disposto dell’art. 336 c.p.c., n. 6, ha, infatti, omesso di specificare in quale sede del giudizio di merito risulta prodotto il verbale ispettivo dell’INPS alla base delle censure svolte e, prima ancora, ha omesso di richiamare, anche in forma riassuntiva, il relativo contenuto, onde consentire al Collegio la verifica ex actis delle pertinenza e specificità delle doglianze svolte alla decisione di secondo grado.

L’articolazione dei motivi non risulta pertanto conforme all’insegnamento di questa Corte secondo il quale il ricorrente per cassazione che intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, il duplice onere, imposto a pena di inammissibilità del ricorso, di indicare esattamente nell’atto introduttivo in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione, e di evidenziarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nei suoi esatti termini, al fine di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo, senza dover procedere all’esame dei fascicoli d’ufficio o di parte (v. tra le altre, Cass. n. 26174 del 2014, n. 16900 del 2015).

Occorre ancora rilevare che dalla sentenza impugnata si evince che l’accertamento relativo alla data di cessazione del rapporto di lavoro, di cui al verbale ispettivo, è frutto di un’attività valutativa da parte degli ispettori verbalizzanti fondata sulle emergenze delle scritture contabili e su quanto dichiarato, in tale occasione, dalla datrice di lavoro.

Alla luce di tale ricostruzione non era quindi necessaria alcuna querela di falso da parte della lavoratrice per inficiare la valenza probatoria del verbale.

Secondo consolidata giurisprudenza di questa Corte Suprema, infatti, i verbali redatti dagli ispettori del lavoro o dai funzionari degli enti previdenziali (al pari di quelli redatti dagli altri pubblici ufficiali) fanno piena prova, fino a querela di falso, unicamente dei fatti attestati nel verbale di accertamento come avvenuti alla presenza del pubblico ufficiale o da lui compiuti, mentre la fede privilegiata certamente non si estende alla verità sostanziale delle dichiarazioni ovvero alla fondatezza di apprezzamenti o valutazioni del verbalizzante (cfr., ex aliis, Cass. S.U. n. 12545 del 1992 e Cass. n. 17355 del 2009). In particolare, per quanto concerne la verità di dichiarazioni rese da terzi al pubblico ufficiale, la legge non attribuisce al verbale alcun valore probatorio precostituito, neppure di presunzione semplice, sicchè il materiale raccolto dal verbalizzante deve essere liberamente apprezzato dal giudice, il quale può valutarne l’importanza ai fini della prova, ma non può mai attribuirgli il valore di vero e proprio accertamento addossando l’onere di fornire la prova contraria al soggetto sul quale non ricade (Cass. n. 1786 del 2000, n. 1786, n. 6110 del 1998; n. 3973 del 1998; n. 6847 del 1987). Dunque, sussistendo soltanto nei limiti anzidetti l’idoneità probatoria dei verbali ispettivi, non può pretendersi – contrariamente a quanto sostenuto da parte ricorrente – per inficiarne la valenza probatoria, la necessità della proposizione della querela di falso.

Parimenti inammissibile è il terzo motivo di ricorso.

Si premette che, come chiarito da questa Corte, in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) (v. tra le altre, Cass. n. 14267 del 2006). Nella stessa prospettiva è stato puntualizzato che, in tema di ricorso per cassazione, la deduzione della violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonchè, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è consentita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Ne consegue l’inammissibilità della doglianza che sia stata prospettata sotto il profilo della violazione di legge ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (Cass. n. 13960 del 2014).

In applicazione di tali principi il motivo in esame deve essere dichiarato inammissibile in quanto inidoneo alla valida censura della decisione. Le doglianze articolate da parte ricorrente investono, infatti, l’apprezzamento del materiale probatorio da parte del giudice di merito, contestandosi, in particolare, la valutazione di attendibilità dei testi indotti dalla originaria ricorrente e la omessa valutazione delle deposizioni testimoniali favorevoli alla odierna ricorrente, il vizio denunziato risulta, quindi, astrattamente veicolabile con il motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.

Secondo l’insegnamento costante di questa Corte, maturato in epoca antecedente alla attuale configurazione del motivo di ricorso di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, la denuncia del vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, le argomentazioni svolte dal giudice di merito al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllarne l’attendibilità e concludenza nonchè scegliere tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (tra le altre, v. Cass. n. 18119 del 2008; n. 5489 del 2007; n. 20455 del 2006; n. 20322 del 2005; n. 2537 del 2004). In conseguenza, il vizio di motivazione deve emergere dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito quale risulta dalla sentenza impugnata e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire la identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato diversi che, agli stessi elementi siano attribuiti dal ricorrente ed in genere dalle parti (v., per tutte Cass. S.U. n. 10345 del 1997). In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimità – non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata in quanto siffatta revisione si risolverebbe, sostanzialmente in una nuova formulazione del giudizio di fatto riservato al giudice del merito e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.

Con riferimento alla nuova configurazione del motivo di ricorso per cassazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame in ragione della data di deposito – il 3 giugno 2014 – della decisione impugnata, le Sezioni unite di questa Corte hanno chiarito che “la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.

Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione”. (Cass. ss.uu. n.8053 del 2014).

In particolare è stato precisato che il controllo previsto dal nuovo art. 360 c.p.c., n. 5), concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia).

In conseguenza la parte ricorrente sarà tenuta ad indicare, nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4), – il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale (emergente dalla sentenza) o extratestuale (emergente dagli atti processuali), da cui ne risulti l’esistenza, il come e il quando (nel quadro processuale)tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, la decisività del fatto stesso.

Parte ricorrente non ha sviluppato il motivo di ricorso in termini coerenti con tali prescrizioni.

Premesso, infatti, che alla luce della nuova formulazione dell’art. art. 360 c.p.c., n. 5, non possono trovare ingresso censure attinenti alla insufficienza e contraddittorietà di motivazione, si rileva che l’odierno ricorrente non ha individuato il fatto storico, avente carattere di decisività, che ha costituito oggetto di discussione fra le parti ed il cui esame è stato omesso dal giudice di appello.

Invero le censure svolte ad illustrazione del motivo risultano esclusivamente incentrate sulla valutazione del materiale probatorio sotto il profilo dell’attendibilità dei testi sulla base delle cui dichiarazioni la sentenza impugnata ha ritenuto fondata la pretesa della M. e della mancata considerazioni delle deposizioni testimoniali, favorevoli alla odierna parte ricorrente.

Tanto è sufficiente a determinate il rigetto del ricorso, dovendosi altresì rilevare che anche alla luce dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in relazione alla precedente configurazione del motivo di ricorso di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, la denuncia del vizio di motivazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare autonomamente il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio bensì soltanto quello di controllare, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, le argomentazioni svolte dal giudice di merito al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, controllarne l’attendibilità e concludenza nonchè scegliere tra le complessive risultanze del processo quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (tra le altre, v. Cass. n. 18119 del 2008, n.5489 del 2007, n. 20455 del 2006, n. 20322 del 2005, n. 2537 del 2004). In conseguenza, il vizio di motivazione deve emergere dall’esame del ragionamento svolto dal giudice di merito quale risulta dalla sentenza impugnata e può ritenersi sussistente solo quando, in quel ragionamento sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire la identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione, mentre non rileva la mera divergenza tra valore e significato diversi che, agli stessi elementi siano attribuiti dal ricorrente ed in genere dalle parti (v., per tutte Cass. S.U. n. 10345 del 1997). In altri termini, il controllo di logicità del giudizio di fatto – consentito al giudice di legittimità – non equivale alla revisione del “ragionamento decisorio”, ossia dell’opzione che ha condotto il giudice del merito ad una determinata soluzione della questione esaminata in quanto siffatta revisione si risolverebbe, sostanzialmente, in una nuova formulazione del giudizio di fatto riservato al giudice del merito e risulterebbe affatto estranea alla funzione assegnata dall’ordinamento al giudice di legittimità.

In base alle considerazioni che precedono il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. Le spese di lite sono regolate secondo soccombenza.

La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17. Invero, in base al tenore letterale della disposizione, il rilevamento della sussistenza o meno dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato costituisce un atto dovuto, poichè l’obbligo di tale pagamento aggiuntivo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo – ed altrettanto oggettivamente insuscettibile di diversa valutazione – del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, dell’impugnazione, muovendosi, nella sostanza, la previsione normativa nell’ottica di un parziale ristoro dei costi del vano funzionamento dell’apparato giudiziario o della vana erogazione delle, pur sempre limitate, risorse a sua disposizione (così Cass. Sez. un. n. 22035/2014).

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 4.000,00 per compensi professionali, Euro 100,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15%, oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 18 ottobre 2016.

Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2016

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