Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24817 del 06/11/2020

Cassazione civile sez. I, 06/11/2020, (ud. 08/10/2020, dep. 06/11/2020), n.24817

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9609/2019 proposto da:

Q.Y., elettivamente domiciliato in Roma Viale Eritrea 96,

presso lo studio dell’avvocato Claudia DE Palma, e rappresentato e

difeso dall’avvocato Federica Martini, in forza di procura speciale

in atti;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno, (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 715/2019 della Corte d’appello di MILANO,

depositata il 18/02/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio

dell’8/10/2020 dal Cons. Dott. IOFRIDA GIULIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Milano, con sentenza n. 824/2019, depositata in data 18/2/2019, ha respinto il gravame di O.Y., cittadino della (OMISSIS), avverso decreto del Tribunale che aveva rigettato la richiesta dello stesso, a seguito di diniego della competente Commissione territoriale, di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria e per ragioni umanitarie.

In particolare, i giudici d’appello hanno ritenuto, al pari del giudice di primo grado, il racconto del richiedente (essere fuggito dal Paese d’origine, per ragioni di salute, essendo afflitto da dolori addominali di natura non accertata ed avendo ottenuto un passaggio su di un camion per il (OMISSIS) per cercare un guaritore, venendo però condotto in Libia, ove era stato arrestato per futili motivi e da dove, una volta liberato, era partito per l’Italia) non integrante, in difetto di persecuzioni o pericolo di danno grave, essendo state dedotte ragioni solo private e personali, i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, anche D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 14, lett. c), non potendo la concessione di tale misura protettiva essere giustificata dalla situazione generale del Paese d’origine, non emergendo dalle “fonti ” consultate (Wikipedia, dichiarazioni rese da responsabile “Terres des Hommes” ed il sito Ministero degli Esteri) una situazione di violenza indiscriminata; non ricorrevano neppure i presupposti per la concessione della protezione umanitaria, in difetto di situazioni di personale vulnerabilità (o di ragioni di salute, emergendo dalla documentazione medica prodotta un comune prolasso emorroidario ed una gastrite, curabili con medicine in comune commercio) e di un percorso di integrazione avviato in Italia.

Avverso la suddetta pronuncia, O.Y. propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che non svolge difese).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1 Il ricorrente lamenta: a) con il primo motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2 e art. 3, comma 3, in relazione al mancato riconoscimento della protezione internazionale sulla base di un frettoloso esame del racconto del richiedente, senza alcun approfondimento istruttorio in ordine soprattutto alle tradizioni culturali e socio-politiche della Costa d’Avorio in cui andava collocato il racconto stesso; b) con il secondo motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, avendo la Corte di merito trascurato di dare rilievo alla detenzione patita dal richiedente in Libia, Paese di transito, ed alle condizioni precarie ivi vissute; c) con il terzo motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, non avendo la Corte d’appello adempiuto al proprio obbligo istruttorio officioso in relazione alle condizioni socio-politiche della Costa d’Avorio; d) con il quarto motivo, la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, in relazione al diniego della protezione umanitaria, non avendo la Corte d’appello correttamente esaminato la documentazione prodotta, in ordine alle condizioni di salute precarie del richiedente ed ai rapporti di lavoro avviati in Italia (seppure scaduti).

2. La prima censura è inammissibile.

Come già rilevato da questa Corte (Cass. 19197/2015; conf. Cass. 7385/2017; Cass. 30679/2017), “il ricorso al tribunale costituisce atto introduttivo di un giudizio civile, retto dal principio dispositivo: principio che, se nella materia della protezione internazionale viene derogato dalle speciali regole di cui al cit. D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3 e al D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, che prevedono particolari poteri-doveri istruttori (anche) del giudice, non trova però alcuna deroga quanto alla necessità che la domanda su cui il giudice deve pronunciarsi corrisponda a quella individuabile in base alle allegazioni dell’attore”, cosicchè “i fatti costitutivi del diritto alla protezione internazionale devono necessariamente essere indicati dal richiedente, pena l’impossibilità per il giudice di introdurli in giudizio d’ufficio, secondo la regola generale” (in termini anche Cass. 27503/2018 e Cass. 29358/2018).

Ora, la censura attinente alla mancata attivazione dei poteri officiosi del giudice investito della domanda di protezione risulta essere assolutamente generica, in relazione al decisum (avendo la Corte di merito attivato i poteri di acquisizione officiosa delle informative), e, per conseguenza, priva di decisività: il ricorrente manca di indicare quali siano le informazioni e le fonti ufficiali delle stesse che, in concreto, avrebbero potuto determinare l’accoglimento del proprio ricorso. Neppure nel ricorso si specifica quali siano stati i contenuti di allegazione curati in appello e diretti a sollecitare l’esercizio ufficioso, in materia di prova, dei poteri integrativi nel giudizio di impugnazione.

Ora, questa Corte (Cass. 14282/2019, in motivazione) ha di recente chiarito che “in materia di protezione internazionale, quando se ne invochi l’applicazione nella forma sussidiaria di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) – là dove riferita all’esistenza di uno stato di diffusa ed indiscriminata violenza, di grado tale da attingere colui che richieda protezione per il solo fatto che egli faccia rientro nel suo paese di origine senza necessità di deduzione di un rischio individualizzato – gli oneri di allegazione gravanti sul richiedente che impugni in appello devono, in quella fase, conformarsi a natura e struttura del giudizio, destinato a veicolare attraverso i motivi la censura alla decisione di primo grado”, il tutto in correlazione alla specificità della critica difensiva in appello, imposta dall’art. 342 c.p.c., non essendo consentito al ricorrente, che della decisione di secondo grado censuri l’illegittimità, di far valere per la prima volta nel giudizio di cassazione deduzioni ed allegazioni mancate nella fase impugnatoria di merito.

La doglianza è altresì inammissibile perchè mira a sostituire le proprie valutazioni con quella, svolta, sulla base di informazioni tratte da fonti attuali, insindacabilmente (al di fuori dei limiti dell’attuale formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5).

3.La seconda censura è inammissibile. Questa Corte (Cass. 31676/2018) ha chiarito che “nella domanda di protezione internazionale, l’allegazione da parte del richiedente che in un Paese di transito (nella specie la Libia) si consumi un’ampia violazione dei diritti umani, senza evidenziare quale connessione vi sia tra il transito attraverso quel Paese ed il contenuto della domanda, costituisce circostanza irrilevante ai fini della decisione, perchè l’indagine del rischio persecutorio o del danno grave in caso di rimpatrio va effettuata con riferimento al Paese di origine o alla dimora abituale ove si tratti di un apolide. Il paese di transito potrà tuttavia rilevare (dir. UE n. 115 del 2008, art. 3) nel caso di accordi comunitari o bilaterali di riammissione, o altra intesa, che prevedano il ritorno del richiedente in tale paese”.

Il motivo risulta del tutto generico: il ricorrente si è limitato a dedurre di avere dichiarato di essere stato fatto prigioniero in Libia per circa un anno e di essere stato costretto a fuggire anche da detto Paese, una volta liberato. Ma La Corte di merito ha dato correttamente atto di tale narrazione, ritenendola non influente ai fini del decidere.

4. La terza censura è infondata.

Il ricorrente non allega altre fonti idonee a privare di rilievo quanto in esse riferito se non un Rapporto di Amnesty International 2015-2016, allegato con il ricorso introduttivo del giudizio, che viene letto come rivelatore di una situazione di violenza indiscriminata, per criticità a livello di sicurezza e possibili minacce terroristiche, nè infine richiama circostanze fattuali decisive che avrebbe potuto sottoporre al contraddittorio.

Più in generale, occorre osservare che è proprio il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ad imporre l’acquisizione di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati, non potendo perciò ipotizzarsi la violazione dell’art. 115 c.p.c., ravvisabile solo qualora il giudice abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (Cass. 5422/2019, 7580/2019).

Di conseguenza, se la parte ha offerto in visione le COI al momento in cui introduce la domanda, e tra essa e il momento della decisione trascorre del tempo o accadono eventi rilevanti, il giudice deve integrarle con COI più aggiornate (Cass. 28990/2018). Le COI devono infatti essere pertinenti e dirette a far luce sui fatti già dedotti dal ricorrente, ed il concetto stesso di pertinenza va necessariamente coniugato con quello della loro attualità (Cass. 2125/2020).

Pertanto, qualora la parte non abbia offerto alcuna informazione precisa, pertinente e aggiornata sulle condizioni del paese di origine, e cioè informazioni idonee a supportare la valutazione della credibilità e del rischio, l’acquisizione d’ufficio delle COI costituisce attività integrativa che sana la sua inerzia, e quindi non diminuisce le garanzie processuali del soggetto, anzi le amplia, nè lede in alcun modo i suoi diritti. Di conseguenza, nessun vulnus concreto al diritto di difesa si può in questo caso prospettare se il giudice non sottopone preventivamente le COI assunte d’ufficio al contraddittorio, purchè renda palese nella motivazione a quali COI ha fatto riferimento, onde consentire, eventualmente, la critica in fase di impugnazione (Cass. 29056/2019, Cass. 2125/2020).

Nella specie, la Corte d’appello, nel 2019, ha indicato le fonti consultate al fine di escludere che nella Costa d’Avorio vi sia una situazione attuale di violenza indiscriminata. Il ricorrente non indica nel motivo di ricorso quali erano le fonti allegate, in appello, e non esaminate dalla Corte, per essersi questa basata su altre fonti non previamente sottoposte al contraddittorio delle parti.

In tema di protezione internazionale, il ricorrente per cassazione che intenda denunciare in sede di legittimità la violazione del dovere di cooperazione istruttoria da parte del giudice di merito non deve limitarsi a dedurre l’astratta violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, ma ha l’onere di allegare l’esistenza e di indicare gli estremi delle COI che, secondo la sua prospettazione, ove fossero state esaminate dal giudice di merito avrebbero dovuto ragionevolmente condurre ad un diverso esito del giudizio. La mancanza di tale allegazione impedisce alla Corte di valutare la rilevanza e decisività della censura, rendendola inammissibile.

5. La quarta censura è inammissibile, atteso che, attraverso il vizio denunciato di violazione di legge, si tende a sovvertire la valutazione di merito delle risultanze processuali.

La Corte d’appello ha ritenuto che non sussistevano i presupposti della richiesta di protezione per ragioni umanitarie in difetto di condizioni di vulnerabilità, soggettive, non essendo sufficiente comunque il solo percorso di integrazione in Italia.

Orbene, è stato e chiarito che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

Il diritto alla protezione umanitaria è in ogni caso collegato alla sussistenza di “seri motivi”, non tipizzati o predeterminati, neppure in via esemplificativa, dal legislatore (prima della Novella di cui al D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018), cosicchè essi costituiscono un catalogo aperto, tutti accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità individuale attuali o pronosticate in dipendenza del rimpatrio: non può essere in nessun caso elusa la verifica della sussistenza di una condizione personale di vulnerabilità, occorrendo dunque una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio: i seri motivi di carattere umanitario possono allora positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti non soltanto un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, ma siano individuabili specifiche correlazioni tra tale sproporzione e la vicenda personale del richiedente, “perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al cit. D.Lgs. n. 286, art. 5, comma 6” (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

In conclusione, la sproporzione tra i due contesti di vita non possiede di per sè alcun rilievo, salvo emerga che essa ha determinato specifiche ricadute individuali, distinte da quelle destinate a prodursi sulla generalità delle persone provenienti dal medesimo ambito territoriale.

Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nelle recenti sentenze nn. 29459 e 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria”.

In definitiva, il carattere “aperto” dei motivi di accoglienza tutelati con la protezione umanitaria non fa venir meno la necessità dell’effettivo riscontro di una situazione di vulnerabilità che non può non partire dalla situazione del Paese di origine del richiedente, correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza.

Nella specie, la Corte di merito ha compiuto una esaustiva valutazione della situazione del richiedente, rilevando la mancanza di situazioni di vulnerabilità, sia oggettiva sia soggettiva, del richiedente, nè vengono dedotte situazioni di vulnerabilità, già allegate nel merito, e non prese in esame dalla Corte distrettuale.

6. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

PQM

La Corte respinge il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 novembre 2020

 

 

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