Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24811 del 06/11/2020

Cassazione civile sez. I, 06/11/2020, (ud. 08/10/2020, dep. 06/11/2020), n.24811

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6455/2019 proposto da:

S.A., elettivamente domiciliato in Roma, presso la

CANCELLERIA civile della CORTE SUPREMA di CASSAZIONE e rappresentato

e difeso dall’avvocato Leonardo Bardi, in forza di procura speciale

in atti;

– ricorrente –

contro

Ministero Dell’interno, (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 122/2019 della Corte d’appello di MILANO,

depositata il 14/01/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio

dell’8/10/2020 dal Cons. Dott. IOFRIDA GIULIA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Milano, con sentenza n. 122/2019, depositata in data 14/01/2019, ha respinto il gravame di S.A., cittadino del Mali, avverso decreto del Tribunale che aveva rigettato la richiesta dello stesso, a seguito di diniego della competente Commissione territoriale, di riconoscimento dello status di rifugiato e della protezione sussidiaria e per ragioni umanitarie.

In particolare, i giudici d’appello hanno ritenuto, al pari del giudice di primo grado, il racconto del richiedente (essere fuggito dal Paese d’origine, essendo orfano di madre e figlio di padre ignoto, a causa di contrasti con gli zii, che si erano rifiutati di aiutarlo nella ricerca del padre), in quanto rappresentativo di una controversia puramente di natura famigliare, non integrante i presupposti per il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria, anche ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), in quanto il Paese di provenienza del richiedente (il Sud del Mali), alla luce dei Report consultati (EASO-COI 2018), non era interessato da violenza indiscriminata; neppure ricorrevano i presupposti per la protezione umanitaria, in difetto di situazioni di personale vulnerabilità e non essendo sufficiente il percorso di integrazione avviato in Italia.

Avverso la suddetta pronuncia, S.A. propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi, nei confronti del Ministero dell’Interno (che non svolge difese).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Il ricorrente lamenta, con i due motivi, in relazione al diniego di protezione internazionale, in tutte le forme dalla legge previste, sia la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 132 c.p.c., comma 1 n. 4 e art. 5, comma 6, TU.I. e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, nonchè dell’art. 10 Cost., sia l’omesso esame, ex art. 360 c.p.c., n. 5, di fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, rappresentato dai gravi pericoli per l’incolumità personale cui il richiedente andrebbe incontro in caso di rientro in Mali, stante l’oggettiva pericolosità del proprio Paese e l’assoluta indisponibilità di reti di protezione familiare e sociale, nonchè dalla condizione di vulnerabilità in cui egli versa perchè analfabeta e privo di una relazione socio-familiare nel suo Paese.

2. Le censure, da trattare unitariamente come prospettato peraltro dallo stesso ricorrente, sono inammissibili.

Il ricorrente, nel denunciare vizi di violazione di legge e motivazionale, si duole del diniego della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria, svolgendo argomentazioni del tutto generiche e senza confrontarsi con l’iter motivazionale della sentenza impugnata (cfr. Cass. n. 20910/2017).

Quanto alla protezione sussidiaria, l’accertamento della situazione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), che sia causa per il richiedente di una sua personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, quale individuato dalla medesima disposizione, implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito. Il risultato di tale indagine può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti consentiti dal novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (Cass. ord. 30105 del 2018).

Il ricorrente si limita ad affermare che nel suo Paese esiste un clima di violenza indifferenziata e di insicurezza socio-politica, neppure indicando fonti di conoscenza e senza minimamente confrontarsi con la motivazione del provvedimento impugnato.

La Corte territoriale ha esaminato, richiamando le fonti di conoscenza, la situazione generale del Mali ed in particolare del Sud del Paese ed ha concluso affermando che esso non è interessato da violenza indiscriminata in situazione di conflitto armato interno o internazionale, malgrado alcune criticità concentrate nel Nord del Mali, a causa di alcuni eventi di matrice terroristica.

Le suddette valutazioni costituiscono apprezzamenti di fatto rimessi al giudice del merito e la motivazione della sentenza impugnata è sorretta da un contenuto non inferiore al minimo costituzionale, come delineato dalla giurisprudenza di questa Corte (Cass. S.U. n. 8053/2014 e Cass. S.U. 22232/2016).

Nel ricorso, nessuna specifica censura è svolta con riferimento all’iter motivazionale di cui si è detto ed i fatti, il cui esame il ricorrente assume omesso (analfabetismo, indigenza e mancanza di legami socio-familiari in patria), non sono affatto decisivi con riferimento alla forma di protezione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c). Circa il riferimento all’art. 10 Cost., secondo il costante orientamento di questa Corte, a cui il Collegio intende dare continuità, il diritto di asilo è interamente attuato e regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste nei tre istituti costituiti dallo “status” di rifugiato, dalla protezione sussidiaria e dal diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera della esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, ed al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, cosicchè non vi è alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’art. 10 Cost., comma 3 (tra le tante Cass. n. 16362/2016 e Cass. n. 11110/2019). La tutela complessivamente risultante dai tre istituti suindicati è idonea a garantire la protezione di ogni condizione di vulnerabilità rilevante in base ad obblighi costituzionali o internazionali.

Quanto poi alla protezione umanitaria, è stato e chiarito che il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455). Il diritto alla protezione umanitaria è in ogni caso collegato alla sussistenza di “seri motivi”, non tipizzati o predeterminati, neppure in via esemplificativa, dal legislatore (prima della Novella di cui al D.L. n. 113 del 2018, convertito in L. n. 132 del 2018), cosicchè essi costituiscono un catalogo aperto, tutti accomunati dal fine di tutelare situazioni di vulnerabilità individuale attuali o pronosticate in dipendenza del rimpatrio; non può essere in nessun caso elusa la verifica della sussistenza di una condizione personale di vulnerabilità, occorrendo dunque una valutazione individuale, caso per caso, della vita privata e familiare del richiedente in Italia, comparata alla situazione personale che egli ha vissuto prima della partenza e alla quale si troverebbe esposto in conseguenza del rimpatrio: i seri motivi di carattere umanitario possono allora positivamente riscontrarsi nel caso in cui, all’esito di tale giudizio comparativo, risulti non soltanto un’effettiva ed incolmabile sproporzione tra i due contesti di vita nel godimento dei diritti fondamentali che costituiscono presupposto indispensabile di una vita dignitosa, ma siano individuabili specifiche correlazioni tra tale sproporzione e la vicenda personale del richiedente, “perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti in contrasto col parametro normativo di cui al cit. D.Lgs. n. 286, art. 5, comma 6” (Cass. 23 febbraio 2018, n. 4455).

In conclusione, la sproporzione tra i due contesti di vita non possiede di per sè alcun rilievo, salvo emerga che essa ha determinato specifiche ricadute individuali, distinte da quelle destinate a prodursi sulla generalità delle persone provenienti dal medesimo ambito territoriale. Giova aggiungere che le Sezioni Unite di questa Corte, nelle recenti sentenze nn. 29459 e 29460/2019, hanno ribadito, in motivazione, l’orientamento di questo giudice di legittimità in ordine al “rilievo centrale alla valutazione comparativa tra il grado d’integrazione effettiva nel nostro paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel paese di origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale”, rilevando che “non può, peraltro, essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente e astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia, nè il diritto può essere affermato in considerazione del contesto di generale e non specifica compromissione dei diritti umani accertato in relazione al paese di provenienza (Cass. 28 giugno 2018, n. 17072)”, in quanto “si prenderebbe altrimenti in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo paese di origine, in termini del tutto generali ed astratti, di per sè inidonea al riconoscimento della protezione umanitaria”.

In definitiva, il carattere “aperto” dei motivi di accoglienza tutelati con la protezione umanitaria non fa venir meno la necessità dell’effettivo riscontro di una situazione di vulnerabilità che non può non partire dalla situazione del Paese di origine del richiedente, correlata alla condizione personale che ha determinato la ragione della partenza.

Nella specie, la Corte di merito ha compiuto una esaustiva valutazione della situazione del richiedente, rilevando la mancanza di situazioni di vulnerabilità, sia oggettiva sia soggettiva, del richiedente.

3. Per tutto quanto sopra esposto, va dichiarato inammissibile il ricorso. Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del li ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 6 novembre 2020

 

 

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