Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2481 del 04/02/2020

Cassazione civile sez. trib., 04/02/2020, (ud. 21/11/2019, dep. 04/02/2020), n.2481

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 16825/2014 R.G. proposto da:

Valassina s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore,

rappresentata e difesa dall’Avv. Sabrina Metta, elettivamente

domiciliata presso il suo studio in Roma, Via Carlo Conti Rossini n.

36, in virtù di procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura Generale

dello Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, alla Via

dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della

Lombardia, n. 199/34/2013, depositata l’11 dicembre 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21 novembre

2019 dal Consigliere Luigi D’Orazio.

Fatto

RILEVATO

che:

1. La Commissione tributaria regionale della Lombardia accoglieva l’appello proposto dalla Agenzia delle entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Milano, che aveva accolto il ricorso proposto dalla Valssina s.r.l. contro l’avviso di accertamento emesso dalla Agenzia delle entrate, per l’anno 2006, nei confronti della contribuente, con riferimento alla vendita di due immobili, in quanto il prezzo dichiarato nei contratti di compravendita era inferiore a quello effettivo, determinato anche in ragione di mutui ipotecari contratti dagli acquirenti di importo superiore al valore dichiarato degli immobili. In particolare, il giudice di appello evidenziava che nella contabilità vi era stata una non corretta rappresentazione delle giacenze finali e delle rimanenze iniziali, che l’importo delle giacenze iniziali era di Euro 822.531,08 e non risultava “dettagliato”, che un immobile era stato venduto alla Signora R. per il prezzo dichiarato di Euro 195.230,00, a fronte di un mutuo di Euro 220.000,00, mentre il secondo immobile era stato venduto al Sig. I. al prezzo dichiarato di Euro 373.755,70 (Euro 254.000 a titolo di caparra ed Euro 119.755,70 al rogito notarile), a fronte però di un mutuo ipotecario di Euro 258.000,00 e del versamento di somme prima del contratto per Euro 271.950,00, sicchè il prezzo di vendita era stato effettivamente di Euro 529.950,00. Aggiungeva che la documentazione bancaria degli acquirenti non costituiva prova certa, mentre la contribuente non aveva documentato i movimenti finanziari.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società. 3. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce “nullità della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 e dell’art. 132 c.p.c., degli artt. 14 e 59 – carenza del dispositivo e mancata indicazione delle richieste delle parti”, in quanto nella sentenza non sono neppure indicate le conclusioni delle parti, mentre “il dispositivo…è.. privo di qualsivoglia elemento precettavo”.

1.1. Tale motivo è infondato.

Invero, la sentenza del giudice di appello è corredata di idonea motivazione e si conclude con il dispositivo di accoglimento dell’appello proposto dall’Ufficio, con condanna della società appellata a pagare le spese del giudizio.

Inoltre, per questa Corte la mancata menzione delle conclusioni delle parti non comporta di per sè nullità alcuna della sentenza, non trattandosi di requisiti indispensabili al conseguimento dello scopo dell’atto e potendo semmai la mancanza configurare un vizio di omessa pronunzia rispetto a quelle richieste che risultino completamente obliterate (Cass., 6 gennaio 1982, n. 29; Cass., 16 gennaio 1979, n. 331).

2.Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente lamenta la “nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. – omessa pronuncia sulla domanda relativa alle sanzioni amministrative – (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) e conseguente violazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 7”, in quanto l’avviso di accertamento conteneva anche il provvedimento di irrogazione delle sanzioni amministrative. Con il ricorso introduttivo la società ha formulato una specifica domanda sul punto. La sentenza di primo grado, accogliendo il ricorso, ha travolto anche il provvedimento di irrogazione delle sanzioni. L’Ufficio non ha dedotto un motivo specifico di appello in punto di sanzioni. La Commissione regionale, dunque, non si è pronunciata in ordine alle sanzioni amministrative, con violazione dell’art. 112 c.p.c.

2.1. Tale motivo è infondato.

Invero, la società ha impugnato l’avviso di accertamento anche con un motivo di impugnazione concernente l’applicazione delle sanzioni amministrative. Il giudice di prime cure ha accolto il ricorso nel merito, senza provvedere espressamente sulle sanzioni, travolte dall’annullamento in toto dell’avviso di accertamento. L’Ufficio ha presentato appello, ma la società non ha riproposto la doglianza relativa alle sanzioni, che era rimasta assorbita, non avendo sulla stessa provveduto espressamente il giudice di primo grado.

Ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56, “le questioni ed eccezioni non accolte nella sentenza della commissione provinciale, che non sono specificamente riproposte in appello, si intendono rinunciate” (negli stessi termini cfr. l’art. 346 c.p.c. per il giudizio ordinario di cognizione).

Per questa Corte, il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 56, nel prevedere che le questioni e le eccezioni non accolte in primo grado, e non specificamente riproposte in appello, si intendono rinunciate, fa riferimento, come il corrispondente art. 346 c.p.c., all’appellato e non all’appellante, principale o incidentale che sia, in quanto l’onere dell’espressa riproposizione riguarda, nonostante l’impiego della generica espressione “non accolte”, non le domande o le eccezioni respinte in primo grado, bensì solo quelle su cui il giudice non abbia espressamente pronunciato (ad esempio, perchè ritenute assorbite), non essendo ipotizzabile, in relazione alle domande o eccezioni espressamente respinte, la terza via – riproposizione/rinuncia – rappresentata dal detto D.Lgs., art. 56 e dall’art. 346 c.p.c., rispetto all’unica alternativa possibile dell’impugnazione – principale o incidentale – o dell’acquiescenza, totale o parziale, con relativa formazione di giudicato interno (Cass., 6 giugno 2018, n. 14534).

Peraltro, la Commissione regionale ha accolto integralmente l’appello della Agenzia delle entrate, confermando la legittimità dell’avviso di accertamento, quindi rigettando implicitamente la doglianza della società in ordine all’applicazione delle sanzioni amministrative.

3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente deduce la “nullità degli atti del giudizio e della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, mancato rilievo dell’inammissibilità dell’appello proposto dall’Agenzia delle entrate – (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4)”, in quanto l’Agenzia delle entrate si è limitata a chiedere l’accoglimento dell’appello, con riforma della sentenza impugnata e la dichiarazione di legittimità della pretesa tributaria, senza indicare l’oggetto della domanda.

3.1. Tale motivo è infondato.

Invero, per questa Corte, nel processo tributario, anche nell’ipotesi in cui l’Amministrazione finanziaria si limiti a ribadire ed a riproporre in appello le stesse ragioni ed argomentazioni poste a sostegno della legittimità del proprio operato già dedotte in primo grado, deve ritenersi assolto l’onere d’impugnazione specifica richiesto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, che costituisce norma speciale rispetto all’art. 342 c.p.c. (Cass., 24641/18).

4.Con il quarto motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d e dell’art. 2729 c.c. – (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) nonchè contraddittorietà e illogicità della motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”, in quanto il giudice di appello non ha correttamente applicato il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d, in quanto non vi erano i presupposti per procedere all’accertamento induttivo, stante la regolarità della contabilità. Inoltre, la Commissione regionale ha reso una motivazione contraddittoria ed illogica, in quanto, da un lato, ha ritenuto che i documenti prodotti relativi alle movimentazioni contabili degli acquirenti non consentivano di conoscere l’origine e la finalità degli stessi, mentre, dall’altro, ha affermato che, trattandosi di società di capitali, la stessa avrebbe dovuto depositare documentazione in ordine alle sue movimentazioni finanziarie. Inoltre, non vi erano presunzioni gravi, precise e concordanti poste a fondamento dell’avviso di accertamento.

4.1.Tale motivo è infondato.

Invero, in primo luogo, va osservato che la sentenza del giudice di appello è stata depositata l’11-12-2013, sicchè la censura della motivazione doveva avvenire ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come modificato dal D.L. n. 83 del 2012, in vigore dalle sentenze emesse a decorrere dall’11-9-2012.

La ricorrente, invece, ha dedotto la sussistenza di una motivazione carente, contraddittoria ed illogica, mentre avrebbe dovuto dedurre l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso tra le parti.

In secondo luogo, la ricorrente chiede una nuova valutazione delle risultanze processuali, già congruamente valutate dal giudice di merito, non consentita in questa sede.

Peraltro, per questa Corte, a fondamento dell’accertamento da parte dell’Agenzia, è sufficiente anche il semplice scostamento tra l’importo del mutuo erogato ed il prezzo dichiarato nel contratto di compravendita, in quanto anche un solo fatto, se presenta i caratteri della gravità e della precisione, può essere idoneo a costituire la fonte della presunzione (Cass., 26485/2016; Cass., 9 giugno 2017, n. 14388).

Deve, poi, tenersi conto anche che l’importo del mutuo erogato dalla banche, in genere, è coperto dal valore dell’immobile sul quale viene iscritta l’ipoteca, per consentire all’istituto di credito, in caso di mancata restituzione delle somme, di recuperale con l’azione esecutiva sull’immobile.

Peraltro, secondo la deliberazione 22 aprile 1995 del Comitato Interministeriale per il Credito ed il Risparmio “l’ammontare massimo dei finanziamenti di reddito fondiario è pari all’80 per cento del valore dei beni ipotecati. Tale percentuale può essere elevata fino al 100 per cento qualora vengano prestate garanzie integrative”. Analogamente la Circolare della Banca d’Italia n. 229 del 21 aprile 1999, Titolo V cap.1, sez. II, stabilisce che “Le banche possono concedere finanziamenti di credito fondiario per un ammontare massimo pari all’80 per cento del valore dei beni immobili ipotecati”.

Nella specie, la Commissione regionale ha valorizzato sia la differenza rilevante tra il prezzo di acquisto dell’immobile della Signora R. (Euro 195.230,00) rispetto al mutuo contratto con la banca (Euro 220.000,00), sia il pagamento da parte del Sig. I. della somma di Euro 271.950,00, prima della stipulazione del contratto, e della somma indicata in contratto a saldo di Euro 119.755,70, con un mutuo ipotecario di Euro 256.355,00. Il prezzo complessivo è stato, quindi, determinato in Euro 529.950,00 a fronte di quello indicato in Euro 373.755,70.

Al divario tra il prezzo degli immobili indicato nei contratti ed il valore dei mutui degli acquirenti, si è aggiunto, quindi, per il giudice di appello, anche l’ulteriore elemento delle somme versate prima del contratto dallo I., delle quali non si è fatta menzione nel contratto.

Il giudice di appello ha ritenuto, con un accertamento di fatto, che le movimentazioni bancarie prodotte relative ai conti degli acquirenti degli immobili, non erano idonee a fornire la prova di eventuali ulteriori spese degli stessi, tali da giustificare l’erogazione di mutui per importi superiori ai limiti massimi consentiti e, comunque, superiori al valore dei singoli cespiti immobiliari.

Nè in sede di ricorso per cassazione la società, nel rispetto del principio di autosufficienza, ha provveduto a riportare il contenuto delle movimentazioni bancarie degli acquirenti.

Va, poi, osservato che, in tema di rettifica dei redditi d’impresa, l’accertamento analitico-induttivo presuppone, a differenza di quello induttivo “puro”, che la documentazione contabile sia nel complesso attendibile, sicchè la ricostruzione fondata sulle presunzioni semplici, di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), non ha ad oggetto il reddito nella sua totalità, ma singoli elementi attivi e passivi, dei quali risulta provata “aliunde” la mancanza o l’inesattezza (Cass., 21 marzo 2018, n. 7025; Cass., 12 dicembre 2018, n. 32129).

Inoltre, per questa Corte, in tema di accertamento del reddito di impresa, anche in presenza di scritture formalmente corrette, ove la contabilità possa considerarsi complessivamente inattendibile, è legittimo il ricorso al metodo analitico-induttivo, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d), sulla base di elementi che consentano di accertare, in via presuntiva, maggiori ricavi (Cass., 11 aprile 2018, n. 8923).

Peraltro, nella motivazione della sentenza di appello si evidenzia che vi era stata una non corretta rappresentazione delle giacenze iniziali e delle rimanenze finali e che l’importo delle giacenze iniziali pari ad Euro 822.531,08 non risultava dettagliato pur avendo la società indicato nella nota integrativa che il criterio di valutazione era stato effettuato con il metodo del costo sostenuto. 5.Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della ricorrente, per il principio della soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.

PQM

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi Euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 21 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2020

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