Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24793 del 03/10/2019

Cassazione civile sez. I, 03/10/2019, (ud. 29/05/2019, dep. 03/10/2019), n.24793

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21417/2014 proposto da:

D.C.V., elettivamente domiciliato in Roma, Piazza Antonio

Mancini n. 4, presso lo studio dell’avvocato Carta Roberta,

rappresentato e difeso dall’avvocato De Simone Corrado, giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Comune di Sabaudia;

– intimato –

avverso la sentenza n. 3207/2013 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 31/05/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

29/05/2019 dal cons. Dott. IOFRIDA GIULIA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 3207/2013, depositata in data 31/05/2013, – in controversia concernente domanda avanzata dal Comune di Sabaudia, con citazione dell’aprile 1995, nei confronti di d.C.V., di condanna del convenuto al rilascio di un’area pubblica comunale, situata all’interno del parco pubblico “(OMISSIS)”, destinata ad area attrezzata per bambini, servizi igienici, bar e gelateria, occupata dallo stesso anche successivamente alla scadenza (in data 16/1/1987) di una convenzione, di durata novennale, risalente al 1978, ed al pagamento della relativa indennità di occupazione senza titolo, con domanda riconvenzionale del D.C. (il quale aveva eccepito l’improponibilità della domanda per essere la controversia devoluta ad un collegio arbitrale, giusta clausola della convenzione, ed aveva chiesto la condanna del Comune alla restituzione, in suo favore, delle maggiori somme versate, rispetto al canone pattuito nella convenzione, ed al risarcimento dei danni), – ha parzialmente riformato la sentenza definitiva del Tribunale di Latina, che, respinta (con sentenza parziale) l’eccezione pregiudiziale di improponibilità della domanda, aveva accolto la domanda del Comune, dichiarando la convenzione scaduta al gennaio 1987 e condannando il D.C. al versamento della somma di Euro 50.956,71, a titolo di indennità di occupazione, sino al 2008, ed aveva altresì accolto la domanda riconvenzionale del D.C., condannando il Comune al pagamento della somma di Euro 47.600,00 a titolo di compenso per l’attività di manutenzione dell’intera area di proprietà comunale tra il gennaio 1987 ed il novembre 1996 (epoca in cui era intervenuta la chiusura coattiva dell’esercizio gestito dal convenuto).

In particolare, i giudici d’appello, nel respingere l’appello principale del Dan Cin, accogliendo quello incidentale del Comune, hanno respinto le eccezioni pregiudiziali sollevate dal D.C. (di inammissibilità della domanda, per essere la controversia devoluta a collegio arbitrale e per difetto di ius postulandi dei difensori costituitisi per il Comune in primo grado), affermando che la convenzione era scaduta al 16/1/1987, in difetto di un nuovo accordo scritto tra le parti (cosicchè non poteva quindi più operare la clausola compromissoria pattuita) e la domanda era stata validamente operata dal Comune, nonchè la domanda riconvenzionale del D.C., di condanna del Comune al risarcimento dei danni per spese di pulizia e manutenzione dell’area occupata. Al riguardo, la Corte territoriale ha osservato che la domanda del D.C., di rimborso delle spese di manutenzione dell’intero parco (e non della sola area detenuta), non era stata specificamente qualificata e comunque non poteva essere accolta nè come domanda di risarcimento danni, in difetto di illecito imputabile all’Ente, nè come domanda di arricchimento senza causa, in difetto di proposizione e di prova, in ogni caso, del riconoscimento, da parte dell’Amministrazione, dell’utilità dell’opera; doveva confermarsi, poi, il rigetto della richiesta del D.C. di risarcimento dei danni alle attrezzature (il locale dove egli esercitava la sua attività commerciale, posto all’interno dell’are comunale), conseguenti alla prolungata chiusura del locale a seguito di un’ordinanza comunale di sgombero, annullata dal giudice amministrativo nel 2004 per un vizio del procedimento, in difetto di prova, essenzialmente, del nesso causale tra la condotta del Comune ed il danno.

Avverso la suddetta pronuncia, D.C.V. propone ricorso per cassazione, affidato a dieci motivi, nei confronti del Comune di Sabaudia (che non svolge attività difensiva; il ricorso risulta notificato il 18/7/2014, con atto spedito a mezzo posta il 16/7/2014).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. il ricorrente lamenta, con il primo motivo, la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, “delle norme di diritto in relazione alla non consentita inversione dei temi trattati con l’atto di appello”, nonchè dell’art. 9 della convenzione del (OMISSIS) (secondo il quale le controversie concernenti l’interpretazione e l’esecuzione della convenzione dovevano essere deferite ad un collegio arbitrale, e art. 806 c.c. e ss.) e degli artt. 1362 e ss., in relazione alla ritenuta non operatività della clausola compromissoria, per essere la suddetta convenzione scaduta in difetto di implicita proroga e di accordo scritto al gennaio 1987, dovendo invece ritenersi che il tema, oggetto del giudizio, della proroga degli effetti della convenzione rientrasse nel concetto ampio di “esecuzione della convenzione” e quindi nell’ambito di operatività dell’art. 9 citato.

1.1. La censura è inammissibile.

La Corte d’appello ha rilevato che la questione pregiudiziale di improponibilità della domanda, reiterata dal D.C. con il primo motivo di appello principale, era infondata in quanto la clausola compromissorìa aveva cessato la sua efficacia unitamente alla scadenza della convenzione, in data 16/1/1987, ragione questa per cui, come ritenuto dal giudice di primo grado, la controversia, vertente “unicamente” sulle “questioni scaturite dall’occupazione senza titolo dell’area originariamente concessa in uso al D.C., successive quindi al termine di scadenza della concessione” rientrava nella competenza del giudice ordinario adito.

Questa Corte ha da tempo precisato (Cass. 5549/2004; Cass.4919/2012) che “in tema di interpretazione di una clausola arbitrale, l’accertamento della volontà degli stipulanti in relazione al contenuto del negozio si traduce in un’indagine di fatto affidata in via esclusiva al giudice di merito”, cosicchè “detto accertamento è censurabile in sede di legittimità solo nel caso in cui la motivazione sia così inadeguata da non consentire la ricostruzione dell'”iter” logico seguito da quel giudice per giungere ad attribuire all’atto negoziale un determinato contenuto, oppure nel caso di violazione delle norme ermeneutiche”. Inoltre, sempre per costante giurisprudenza di legittimità, in tema di ermeneutica contrattuale, l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., cosicchè nel ricorso per cassazione si deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma anche precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti.

Nel caso di specie, non sono denunziati vizi di motivazione (peraltro oggi neppure proponibili stante la nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5) ed il ricorso, lungi dall’evidenziare specifici errori nell’applicazione dei principi ermeneutici (al di fuori del solo richiamo, in rubrica, agli artt. 1362 c.c.), si risolve unicamente in una alternativa interpretazione del rapporto intercorso tra le parti e della clausola compromissoria contenuta nell’art. 9 della convenzione del 1978, clausola che invece la Corte d’appello ha adeguatamente interpretato secondo i criteri di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c., in quanto la domanda attrice, avanzata dal Comune nel 1995, aveva ad oggetto la richiesta di condanna del convenuto al rilascio dell’area occupata senza titolo, per effetto della scadenza della convenzione del 1978, di durata novennale, ed al pagamento dell’indennità di occupazione, nonchè la domanda riconvenzionale di danni, avanzata dal D.C.. Non si verteva quindi in tema di interpretazione di un contratto (vale a dire di accertamento della volontà delle parti, in relazione al contenuto del negozio), ambito che non ricomprende evidentemente tutte le controversie comunque aventi causa petendi nel contratto medesimo, ovvero attinente alla fase esecutiva del contratto, non discutendosi di adempimento delle prestazioni contrattuali ovvero di accertamento dell’inottemperanza delle parti rispetto alle obbligazioni assunte.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 85 e 112 c.p.c., in relazione alla reiezione del motivo di appello concernente il difetto di jus postulandi in capo al primo difensore costituitosi per il Comune, Avv.to R.M., per effetto della ritenuta ratifica successiva; si lamenta poi, con il terzo motivo, in relazione al difetto di jus postulandi anche in capo al successivo difensore del Comune, costituitasi in primo grado nel 2007, l’avv.to L.L., la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 48 in materia di competenza della Giunta Municipale ad esprimere la volontà dell’ente di agire in giudizio e di deliberare in ordine all’azione o resistenza in giudizio e, con il nono motivo, in subordine rispetto ai motivi 6, 7, 8, la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, degli artt. 343 e 85 c.p.c., nonchè dei principi in tema di jus postulandi e del D.Lgs. n. 267 del 2000, artt. 48,50 e 42 in relazione al difetto di jus postulandi (in mancanza di una Delib. della Giunta municipale) in capo all’Avv.to L.L., che aveva proposto appello incidentale per il Comune, cosicchè si sarebbe dovuto rilevare l’inammissibilità anche dell’appello incidentale proposto dal Comune.

2.1. Le doglianze sono infondate.

Quanto al profilo riguardante l’Avv.to R.M., la Corte d’appello ha rilevato che il difetto di legittimazione processuale dell’Avv.to R. (costituitosi, a seguito di rinuncia al mandato del precedente difensore del Comune, all’udienza dell’8/11/2005, allorchè la causa era stata, per la prima volta, rimessa in decisione – essendo stata poi, con la sentenza parziale del 2006, di rigetto dell’eccezione pregiudiziale di improponibilità della domanda, disposta l’ulteriore istruttoria del giudizio – a mezzo di Det. n. 136 del 2005, con la quale lo stesso Avv.to R., capo Settore del servizio Avvocatura del Comune di Sabaudia, nominava se stesso come difensore dell’Ente), e quindi il difetto, nella persona che ha conferito la procura ad litem, del potere di rappresentanza in giudizio dell’Ente, priva conseguentemente della capacità processuale ex art. 75 c.p.c., spettando invece la rappresentanza in giudizio solo al Sindaco, era stato sanato dalla successiva costituzione in giudizio, il 25/09/2007, del Sindaco, con il ministero dell’Avv.to L.L., con spendita espressa della Det. n. 33 del 2007 del Segretario Generale (delegato dal Sindaco, per Statuto) e richiamo alla vicenda della difesa comunale svoltasi con l’azione intrapresa tramite la nomina, temporanea, dell’Avv.to R..

Ora, come rilevato da questa Corte (Cass. 5343/2015; Cass. 23670/2008) “il difetto di legittimazione processuale della persona fisica, che agisca in giudizio in rappresentanza di un ente, può essere sanato, in qualunque stato e grado del giudizio (e, dunque, anche in appello), con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti, per effetto della costituzione in giudizio del soggetto dotato della effettiva rappresentanza dell’ente stesso, il quale manifesti la volontà, anche tacita, di ratificare la precedente condotta difensiva del “falsus procurator”. La ratifica e la conseguente sanatoria devono ritenersi ammissibili anche in relazione ad eventuali vizi inficianti la procura originariamente conferita al difensore da soggetto non abilitato a rappresentare la società in giudizio, trattandosi di atto soltanto inefficace e non anche invalido per vizi formali o sostanziali, attinenti a violazioni degli artt. 83 e 125 c.p.c.” (conf. Cass. 23274/2016).

Vero che, sul punto, si registra anche un orientamento giurisprudenziale secondo cui il disposto dell’art. 1399 c.c. non opera nel campo processuale, ove invece il conferimento di una valida procura ad litem costituisce il presupposto della valida instaurazione del rapporto processuale (tanto che può essere conferita con effetti retroattivi solo nei limiti fissati dall’art. 125 c.p.c.), sì che deve escludersi la possibilità di sanatoria con effetti retroattivi del vizio afferente la procura stessa. Tuttavia, a fronte di tale orientamento, che peraltro risulta seguito in fattispecie diverse da quella in esame (cfr. S.U. n. 13431/14 e Sez. 3 n. 17697/13 riguardo al difetto di valida procura speciale per il ricorso o controricorso in cassazione) si evidenzia un orientamento, maggioritario (cfr. Cass. n. 20913/05; n. 12088/06; n. 21811/06; n. 15304/07; n. 23670/08; n. 7529/09; n. 5343/15; Cass. 23274/2016), secondo cui occorre distinguere la questione della validità della procura ad litem, sotto il profilo dello ius postulandi del procuratore (al quale si riferisce la disciplina dell’art. 125 c.p.c.), da quella della capacità processuale, cui fa riferimento l’art. 182 c.p.c., norma che rende sanabile il difetto di legittimazione processuale – anche per difetto di autorizzazione preventiva alla proposizione dell’azione – in ogni stato e grado del giudizio, con efficacia retroattiva e con riferimento a tutti gli atti processuali già compiuti (facendo salve le decadenze già verificatesi, quelle di diritto sostanziale, non già a quelle che si esauriscono nell’ambito del processo), a seguito della costituzione in giudizio del soggetto dotato della effettiva rappresentanza della persona giuridica il quale manifesti la volontà di ratificare la precedente condotta difensiva del falsus procurator.

Peraltro, la Corte d’appello ha anche rilevato che il vizio riguardante la costituzione (nel 2005) dell’Avv.to R. non avrebbe mai potuto determinare la nullità dell’atto di citazione introduttivo del giudizio, a mezzo di altro difensore del Comune, l’avv.to N..

Con riguardo poi al profilo riguardante l’Avv.to L.L., costituitosi nel 2007, nel corso del giudizio di primo grado, e che aveva assistito il Comune come difensore anche nel grado di appello, la Corte territoriale ha rilevato che la procura alle liti di detto avvocato era stata, correttamente, rilasciata dal Sindaco, cui spettava la rappresentanza in giudizio dell’Ente locale, a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 267 del 2000, senza necessità di Delib. della Giunta municipale.

Questa Corte ha, anche di recente, ribadito che, nel nuovo ordinamento delle autonomie locali, la rappresentanza processuale del Comune spetta istituzionalmente al Sindaco, cui compete, in via esclusiva, il potere di conferire al difensore la procura alle liti, senza necessità di autorizzazione della Giunta municipale, salvo che una disposizione statutaria la richieda espressamente, spettando in tal caso alla parte interessata provare la carenza di tale autorizzazione producendo idonea documentazione (Cass. 13968/2010; Cass. 4583/2019; cfr. anche Cass. 7867/2011: “nel vigente ordinamento delle autonomie locali, il potere di rappresentare il Comune e di conferire il mandato alle liti spetta al Sindaco; questi, tuttavia, ha il potere di delegare tali compiti ad altri, fra i quali, in particolare, i dirigenti del Comune, così come può anche ratificare l’operato altrui, con atto avente efficacia retroattiva; ne consegue che deve ritenersi valida la procura alle liti conferita con atto sottoscritto dal vicesegretario comunale e successivamente ratificata con Delib. del Comune stesso”). Si è successivamente precisato (Cass. 5802/2016; Cass. 16457/2018; Cass. 16459/2018) che “nel nuovo ordinamento delle autonomie locali, competente a conferire la procura alle liti al difensore del Comune è il Sindaco e non la Giunta, la cui Delib., siccome priva di valenza esterna, ha natura meramente gestionale e tecnica”.

3. Il ricorrente, con il quarto motivo, denuncia la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, del canone della buona fede e dell’obbligo della P.A. di comportarsi lealmente in riferimento a rapporti giuridici istituiti da epoca molto risalente, deducendo di avere continuato ad occupare l’area, avendo lo stesso impugnato le Delib. comunali di sgombero dinanzi al giudice amministrativo, e che il Comune ha continuato a percepire e riscuotere il canone.

La censura è infondata.

Nel motivo si censura la decisione della Corte d’appello di rigetto del quarto motivo del gravame principale, con la quale la Corte territoriale ha rilevato che, neppure dalla pronuncia del Consiglio di Stato n. 6789/2004, che aveva annullato l’ordinanza sindacale di sgombero n. 109/1993, per mancata comunicazione al D.C. dell’avvio del procedimento finalizzato al rilascio del bene, si evinceva una statuizione in ordine al rinnovo della convenzione ovvero circa la conclusione d una nuova convenzione, avendo i giudici amministrativi ribadito che la convenzione era scaduta e che l’odierno appellante continuava a detenere il bene “in mancanza di un titolo che lo legittimasse formalmente”.

Il motivo del ricorso, rubricato come violazione di legge, non evidenzia alcun vizio effettivo della sentenza impugnata, atteso che il giudicato amministrativo risulta correttamente interpretato dalla Corte d’appello.

4. Con il quinto motivo, si lamenta, in via subordinata rispetto al pregresso motivo, la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 112 c.p.c. e ss. e dei principi in materia di obbligo del giudice di decidere in base alle risultanze istruttorie, ivi compresa la C.T.U, con riguardo alla quantificazione operata dalla Corte d’appello delle somme dovute dal D.C. a titolo di occupazione sine titulo, in particolare in relazione al mancato scomputo della somma eccedente (“Euro 1.200.000”) rispetto al canone pattuito per le annualità 1985 e 1986; con il sesto motivo, si denuncia, infine, in relazione al rigetto del quinto motivo di appello principale afferente alla domanda riconvenzionale avanzata in primo grado dal D.C., di restituzione del credito o risarcimento del danno, rappresentato dalle somme vers3te in esubero rispetto al canone pattuito in convenzione, la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, della convenzione del 1978 che prevedeva un canone di 1.000 per tutti gli anni di durata (e quindi sicuramente dal 1978 al 1987, atteso che solo gli importi versati, dopo la scadenza del contratto, dal 1987 al 1996, sarebbero stati detratti dall’importo riconosciuto a favore del Comune a titolo di indennità di occupazione).

La Corte d’appello, respingendo il quarto motivo di gravame principale, inerente anche alla quantificazione dell’indennità di occupazione senza titolo, dovuta dal D.C. nel periodo successivo alla scadenza della convenzione, ha rilevato che non potevano accogliersi le censure in ordine ai parametri adottati dal Tribunale, essendosi fatto riferimento ai “canoni richiesti dal Comune per attività simili o analoghe a quella svolta dal D.C. sul suolo pubblico” (“canoni dovuti per coloro che installano chioschi o esercizi commerciali previsti da provvedimenti comunali n. 30 del 14.1.1984 e n. 10 del 21.1.1993”).

In relazione, invece, alle somme versate in eccesso, dal 1985 in poi, sino al 1996, rispetto al canone pattuito in convenzione, la motivazione si rinviene nel capo successivo della sentenza impugnata, relativo alla reiezione del quinto motivo di appello, nel quale l’appellante lamentava il mancato integrale accoglimento della domanda riconvenzionale svolta in primo grado.

La Corte d’appello, esaminando anche il gravame incidentale del Comune, non ha accolto la doglianza relativa al mancato riconoscimento dell’importo versato in eccesso, rispetto al canone pattuito, di Euro 14.290,05, stimato dal CTU, rilevando che in detto importo erano state conteggiate anche somme sicuramente non dovute, in quanto versate a titolo di canone in corso di concessione per l’uso dell’area pubblica (dal 1978 al gennaio 1987), ed inoltre la quantificazione dell’appellante D.C. non teneva conto del fatto che il Tribunale nel determinare l’indennità di occupazione dovuta aveva sottratto “le somme che il D.C. ha versato, pari ad Euro 13.060,89, operando quindi la compensazione in parte qua con il credito” che formava oggetto del motivo di appello in esame.

Ora, a fronte di tale statuizione di merito, le doglianze sono inammissibili per difetto di autosufficienza, non essendo efficacemente contestate le suddette affermazioni, anche attraverso trascrizione della relazione scritta del consulente tecnico d’ufficio (sono riportati solo periodi, per estratto, o conteggi, a pag. 80, di non specificata provenienza) e della decisione di primo grado.

Questa Corte ha da tempo (Cass. 3224/2014; Cass. 13845/2007) chiarito che “in tema di impugnazione per cassazione, ed in applicazione del principio di autosufficienza del ricorso, la parte che alleghi la mancata valutazione delle consulenze tecniche d’ufficio espletate nei gradi di merito, ha l’onere di indicare compiutamente (e, se del caso, trascrivere nel ricorso) gli accertamenti e le risultanze peritali, al fine di consentire alla corte di valutare la congruità della motivazione della sentenza impugnata che si sia motivatamente dissociata dalle conclusioni peritali, dovendosi, in carenza di detta specificazione, dichiarare il ricorso inammissibile”.

La doglianza è pertanto inammissibile.

5. Il ricorrente, con il settimo motivo, lamenta quindi la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 2041 c.c., in tema di azione di indebito arricchimento, avendo la Corte territoriale trascurato di rilevare che vi era stato un riconoscimento implicito da parte del Comune dell’utilità delle attività svolte dal D.C. di custodia, guardiania, pulitura e manutenzione ordinaria e straordinaria del chioso-bar e dell’intero parco.

La doglianza è inammissibile. Invero, non viene censurata la prima ratio decidendi della sentenza impugnata, avendo la Corte d’appello, anzitutto, rilevato che alcuna specifica domanda, di carattere residuale, di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c. era stata proposta dal D.C., il quale si era limitato a chiedere il risarcimento del danno.

6. Con l’ottavo motivo, si denuncia la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 2043 c.c., sia sotto il profilo dell’elemento soggettivo, vale a dire del dolo o della colpa della P.A., sia sotto quello del nesso eziologico, anche in rapporto alla L. n. 241 del 1990, artt. 7 e ss. ed al giudicato intervenuto per effetto della sentenza del Consiglio di Stato n. 6789/2004, avendo la Corte d’appello trascurato di rilevare la contrarietà a buona fede oggettiva del comportamento del Comune e la legittima aspettativa del D.C. di conservazione della legittima detenzione dell’area comunale.

Anche tale censura è infondata. In ordine al giudicato amministrativo va ribadito quanto già espresso al par. 3.

Questa Corte ha chiarito (Cass. 12455/2008) che “in tema di risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, l’accertata illegittimità della condotta della P.A. o di suo organi, derivante dal ritardo, dall’inerzia o dalla mancata istruzione del procedimento, che si traducono nella violazione dell’obbligo di portarlo comunque a compimento (in modo favorevole o sfavorevole per l’istante), non è sufficiente ai fini dell’affermazione della responsabilità aquiliana, occorrendo altresì che risulti danneggiato l’interesseal bene della vita al quale è correlato l’interesse legittimo dell’istante, e che detto interesse risulti meritevole di tutela alla luce dell’ordinamento positivo. In riferimento al rilascio di una concessione edilizia, l’accertamento di tale interesse implica un giudizio prognostico sulla fondatezza dell’istanza, da condursi in riferimento alla normativa di settore ed agli elementi offerti dall’istante, onde stabilire se costui fosse titolare di una situazione suscettibile di determinare un oggettivo affidamento circa la conclusione positiva del procedimento” (in applicazione di tale principio, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, la quale aveva escluso la responsabilità di un Comune per il rifiuto della concessione edilizia richiesta per la realizzazione di un parcheggio interrato, ritenendo non configurabile un’aspettativa giuridicamente tutelata dell’istante, in quanto l’autorizzazione a tal fine concessa dal consiglio comunale ed il parere favorevole emesso dalla commissione edilizia erano subordinati all’adozione ed all’approvazione del piano regolatore generale).

Si veda anche quanto affermato nella sentenza n. 21170/2011: “in tema di responsabilità della P.A. per l’esercizio illegittimo della funzione pubblica, sempre che il privato non deduca espressamente la violazione degli obblighi comportamentali sorti da un “contatto amministrativo qualificato”, il diritto al risarcimento del danno ha attuazione diversa a seconda della natura dell’interesse legittimo: infatti, quando esso è oppositivo, occorre accertare se l’illegittima attività dell’Amministrazione abbia leso l’interesse alla conservazione di un bene o di una situazione di vantaggio, mentre, se l’interesse è pretensivo, concretandosi la lesione nel diniego o nella ritardata assunzione di un provvedimento amministrativo, occorre valutare a mezzo di un giudizio prognostico, da condurre in base alla normativa applicabile, la fondatezza o meno della richiesta della parte, onde stabilire se la medesima fosse titolare di una mera aspettativa, come tale non tutelabile, o di una situazione che, secondo un criterio di normalità, era destinata ad un esito favorevole” (nella specie, questa Corte ha confermato la sentenza impugnata che aveva negato il diritto al risarcimento per il mancato rilascio di una concessione edilizia, nonostante l’annullamento del diniego da parte del giudice amministrativo, osservando che il provvedimento permissivo non poteva essere rilasciato e che, quindi, il bene della vita richiesto non era comunque realizzabile, perchè impedito dallo strumento urbanistico comunale). Ed anche nella successiva pronuncia n. 23170/2014, questa Corte ha ribadito: “la responsabilità della P.A., ai sensi dell’art. 2043 c.c., per l’esercizio illegittimo della funzione pubblica, è configurabile qualora si verifichi un evento dannoso che incida su un interesse rilevante per l’ordinamento e che sia eziologicamente connesso ad un comportamento della P.A. caratterizzato da dolo o colpa, non essendo sufficiente la mera illegittimità dell’atto a determinarne automaticamente l’illiceità. Ne consegue che il criterio di imputazione della responsabilità non è correlato alla sola illegittimità del provvedimento, ma ad una più complessa valutazione, estesa all’accertamento dell’elemento soggettivo e della connotazione dell’azione amministrativa come fonte di danno ingiusto” (nella specie, è stata rigettata, per carenza del requisito dell’ingiustizia del danno, la domanda risarcitoria conseguente alla chiusura di un centro sanitario di riabilitazione operante senza la prescritta autorizzazione regionale, disposta con provvedimenti amministrativi annullati dal TAR per violazione di legge avente carattere esclusivamente procedimentale, osservando che gli stessi avevano inciso non su una situazione giuridicamente rilevante, ma su una posizione di mero fatto, protrattasi nel tempo “contra legem”).

La Corte d’appello ha rilevato che, seppure annullata dal Consiglio di Stato la Delib. di sgombero del locale commerciale e dell’area comunale, per omessa comunicazione all’interessato dell’avvio del procedimento amministrativo, valutato il contesto della vicenda e quindi il fatto che il D.C. sapeva di occupare il bene, dopo la scadenza della Convenzione, senza titolo e che fosse a conoscenza della mancanza di un documento scritto che continuasse a legittimarlo nella detenzione dell’area pubblica, era da ritenersi che la condotta dell’amministrazione non potesse qualificarsi come colposa, antigiuridica e fonte quindi di un danno ingiusto risarcibile.

La sentenza risulta conforme ai principi di diritto sopra enunciati.

7. Infine, con il decimo motivo, si lamenta la violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 91 c.p.c. e ss. e dell’art. 96 c.p.c., in riferimento alla manifesta temerarietà dell’eccezione, sollevata dal Comune, di tardività dell’appello principale ed alla mancata considerazione di tale aspetto, da parte della Corte d’appello, in sede di regolamentazione delle spese processuali.

La censura, con riguardo alla lamentata mancata compensazione delle spese processuali, è inammissibile, alla luce del principio secondo cui la facoltà di disporre la compensazione delle spese tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non è censurabile in cassazione (Cass., sez. un., n. 14989 del 2005; Cass. 24179/2017).

Con riguardo poi alla mancata condanna del Comune per lite temeraria, per effetto del rigetto dell’eccezione sollevata dallo stesso di tardività del gravame principale, la censura è infondata. Invero, presupposto della condanna al risarcimento dei danni a titolo di responsabilità aggravata per lite temeraria è la totale soccombenza, che va considerata in relazione all’esito del giudizio di appello, come si desume dal fatto che la condanna al risarcimento si aggiunge, secondo la previsione dell’art. 96 c.p.c., alla condanna alle spese, la quale è correlata all’esito finale del giudizio; tale esito non muta per il fatto che sia stata ritenuta infondata un’eccezione processuale opposta dalla parte vittoriosa sul merito (Cass. 11917/2002; Cass. 19583/2013).

8. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso.

Non v’è luogo a provvedere sulle spese processuali, non avendo l’intimato svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte respinge il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 29 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 ottobre 2019

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