Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24790 del 05/11/2020

Cassazione civile sez. II, 05/11/2020, (ud. 30/06/2020, dep. 05/11/2020), n.24790

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ugo – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. DE MARZO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21457-2019 proposto da:

I.H., rappresentato e difeso dagli Avvocati MARCO

CHIERICHINI e DAVIDE PIZZUTI ed elettivamente domiciliato presso lo

studio dell’Avv. Claudio Oliva in ROMA, CORSO TRIESTE 19;

– ricorrente –

contro

MINISTERO dell’INTERNO, in persona del Ministro pro-tempore,

rappresentato e difeso ope legis dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso i cui uffici in ROMA, VIA dei PORTOGHESI 12 è

domiciliato;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2357/2019 della CORTE d’APPELLO di ROMA

depositata in data 8/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/06/2020 dal Consigliere Dott. BELLINI UBALDO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

I.H., cittadino del Ghana, impugnava il provvedimento della Commissione Territoriale di Roma chiedendo il riconoscimento dello status di rifugiato o di altra forma di protezione internazionale.

Il richiedente aveva dichiarato di avere abbandonato il Paese di origine nel dicembre 2012, in quanto i suoi familiari avrebbero voluto costringerlo ad adorare un idolo che si trovava nella loro stessa casa e che richiedeva sacrifici animali ed umani; e che al suo rifiuto gli stessi lo avrebbero minacciato di morte e cacciato di casa, inducendolo a lasciare il Paese natale per raggiungere la Libia e, successivamente, fare ingresso sul territorio nazionale. Il Tribunale rilevava la inverosimiglianza e genericità del racconto del richiedente che non era stato neppure in grado di descrivere le modalità del culto contra jus e di riferire della concreta effettuazione di sacrifici umani. E sottolineava l’assenza di riferimenti ad azioni persecutorie di natura diffusa e collettiva, non essendo emersi elementi tali da far ritenere che la pratica religiosa de qua nel contesto di origine del richiedente sia strutturata in modalità tali da metterne a rischio l’incolumità.

Il Tribunale di Roma, con ordinanza pubblicata il 18.04.2017, rigettava l’impugnazione.

Contro detta ordinanza, l’interessato proponeva appello. Il Ministero dell’Interno chiedeva il rigetto dell’appello.

Con sentenza n. 3087/2019, depositata il 10/05/2019, la CORTE d’APPELLO di ROMA rigettava il gravame.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione F.B. sulla base di cinque motivi; resiste il Ministero dell’Interno con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con unico motivo, il ricorrente lamenta la “violazione e falsa applicazione di norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1 n. 3) con specifico riferimento al D.Lgs n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 27 ed al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3”, nella parte in cui “il racconto del richiedente asilo viene considerato non credibile alla luce della infondatezza di tutte le deduzioni svolte dall’appellante in orine alla attuale situazione del Ghana”.

1.1. – Il motivo è inammissibile.

1.2. – Giova ricordare che, secondo la giurisprudenza espressa da questa Corte (Cass. n. 24414 del 2019), in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità (Cass. n. 3340 del 2019).

Va dunque ribadito che costituisce principio pacifico quello secondo cui il vizio della sentenza previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, deve essere dedotto, a pena di inammissibilità del motivo giusta la disposizione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, non solo con la indicazione delle norme assuntivamente violate (che, nella specie, non risulta completa, con riguardo al ventaglio delle diverse rationes decidendi sottese al rigetto del gravame), ma anche, e soprattutto, mediante specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendosi alla Corte regolatrice di adempiere al suo istituzionale compito di verificare il fondamento della lamentata violazione.

Risulta, quindi, inidoneamente formulata la deduzione di errori di diritto individuati per mezzo della sola preliminare indicazione delle singole norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una critica delle soluzioni adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata mediante specifiche e puntuali contestazioni nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non tramite la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 6259 del 2020; cfr., ex multis, Cass. n. 22717 del 2019 e Cass. n. 393 del 2020, rese in controversie analoghe a quella odierna).

1.3. – Va inoltre rievato che la valutazione, in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero, costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il quale deve valutare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, il D.Lgs. n. 251 del 2007, ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (cfr. sempre Cass. n. 3340 del 2019, cit.).

Ciò posto, questa Corte osserva come la parte ricorrente, sotto l’egida formale del vizio di violazione di legge, pretenda, ora, una nuova valutazione del giudizio di credibilità del richiedente, proponendo (come detto, nell’ambito non meglio definito di un unico motivo non specifico e non meglio enucleabile dalla rapsodica enunciazione di asseriti vuzi della decisione impugnata) censure che sconfinano con tutta evidenza sul terreno delle mere valutazioni di merito, come tali rimesse alla cognizione dei giudici della precedente fase di giudizio e che possono essere censurate innanzi al giudice di legittimità solo attraverso le ristrette maglie previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Nè è possibile pretendere l’attivazione dei poteri istruttori officiosi del tribunale per l’acquisizione di ulteriori informazioni sulla situazione sociopolitica della Guinea, in presenza di una valutazione giudiziale negativa della credibilità del richiedente, valutazione quest’ultima che rende superflua ogni ulteriore approfondimento istruttorio in ordine al reclamato status di rifugiato.

2. – Per tali ragioni il ricorso è inammissibile. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Va emessa la dichiarazione D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare a controparte le spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.100,00, a titolo di compensi, oltre eventuali spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, in Camera di Consiglio della seconda sezione civile della Corte Suprema di Cassazione, il 30 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2020

 

 

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