Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24761 del 19/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 19/10/2017, (ud. 13/06/2017, dep.19/10/2017),  n. 24761

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6778-2016 proposto da:

C.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ENNIO Q.

VISCONTI 11, presso lo studio dell’avvocato ANGELA FIORENTINO,

rappresentato difeso dall’avvocato FRANCESCO PASQUARIELLO, giusta

delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE C.F. (OMISSIS)

in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA CESARE BECCARIA 29 presso

l’Avvocatura Centrale dell’Istituto rappresentato e difeso dagli

avvocati PAOLA MASSAFRA, ELISABETTA LANZETTA, CHERUBINA CIRIELLO,

giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1103/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 13/03/2015 R.G.N. 6904/13;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

13/06/2017 dal Consigliere Dott. DANIELA BLASUTTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SERVELLO GIANFRANCO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato FRANCESCO PASQUARIELLO;

udito l’Avvocato PAOLA MASSAFRA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. La Corte di appello di Napoli, con sentenza n. 1103/15, confermava la pronuncia di primo grado con cui era stata respinta l’impugnativa del licenziamento disciplinare proposta da C.D., dipendente dell’INPS, al quale era stata irrogata la sanzione espulsiva, con provvedimento del 12 aprile 2005, in ragione di una serie di gravi violazioni commesse dall’impiegato nello svolgimento dei propri compiti istituzionali.

2. Con una prima contestazione disciplinare del 27 gennaio 2005 era stato addebitato al C. di avere, quale unico addetto alla liquidazione dell’indennità di disoccupazione presso l’Agenzia di (OMISSIS), indebitamente erogato, in assenza dei requisiti prescritti, a favore del proprio coniuge, dipendente dell’Amministrazione delle Poste, l’indennità di disoccupazione per gli anni 1997/2000. In esito a ispezione amministrativa, con contestazione integrativa in data 3 marzo 2005, era stato addebitato al C., in qualità di addetto all’istruttoria e alla liquidazione di prestazioni a sostegno del reddito e all’elaborazione dei dati e dei pagamenti relativi ai ratei maturati e non riscossi da pensionati deceduti, di avere emesso, in assenza dei requisiti prescritti, attraverso procedure automatizzate, indebiti pagamenti in favore – nella maggior parte dei casi – di parenti o soci, con danno dell’Amministrazione accertato in Euro 359.297,55.

3. La Corte di appello di Napoli respingeva le censure formulate dal dipendente in merito alla regolarità del procedimento disciplinare, osservando che: a) il requisito della immediatezza della contestazione rispetto al fatto addebitato era stato rispettato in quanto, nonostante la complessità delle indagini, il procedimento disciplinare era stato attivato con celerità e definito a meno di due mesi dal termine dell’ispezione e a poco più di quattro mesi dalla prima notizia; la contestazione degli addebiti era stata notificata il 3 marzo 2005 e la comunicazione del licenziamento era intervenuta il 13 aprile 2005; il licenziamento era tempestivo anche rispetto alla prima nota di contestazione e di inizio dell’azione disciplinare del 27 gennaio 2005; b) la censura di mancata audizione era infondata, poichè il C., dopo avere chiesto il differimento della convocazione, originariamente fissata per il 24 marzo 2005, non si presentò il giorno stabilito (6 aprile 2005) per l’esercizio delle sue difese; c) il rilievo di mancata ricezione della documentazione relativa al procedimento disciplinare era del pari infondata, considerato che l’INPS, con lettera del 3 marzo 2005, ebbe a comunicare al C. che aveva facoltà di visionare e prelevare il fascicolo disciplinare come costituito e depositato.

4. Nel merito, la Corte di appello di Napoli ravvisava la sussistenza della giusta causa, sulla scorta della seguenti considerazioni: a) dalla documentazione in atti e dalla prova per testi (riportata da pag. da 9 a 16 della sentenza) era emersa la prova degli addebiti ascritti, mentre era stato smentito l’assunto difensivo secondo cui altri dipendenti avrebbero potuto accedere al sistema informatico dalla postazione di lavoro del C. o utilizzare la sua password; b) i fatti storici integravano un grave inadempimento degli obblighi gravanti sul lavoratore ed erano idonei a giustificare l’esercizio del potere di recesso del datore di lavoro; le condotte poste in essere erano risultate caratterizzate da “un forte elemento psicologico e da una volontà finalizzata alla consapevole violazione dei doveri d’ufficio”; i fatti accertati avevano “causato l’istituto gravissimo danno economico e non solo”, per cui era proporzionata la sanzione espulsiva.

5. Per la cassazione di tale sentenza C.D. ha proposto ricorso affidato a quattro motivi, cui resiste l’Inps con controricorso.

6. Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione del Regolamento di disciplina dell’INPS, art. 3, commi 3 e 5 e art. 4, in correlazione al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 e dell’art. 7 Stat. Lav.. Si deduce che l’art. 3, comma 3, del Regolamento prevede che, nel caso in cui i fatti integrino i presupposti per l’irrogazione di una sanzione più grave del rimprovero scritto, il dirigente dell’unità segnala, entro dieci giorni dalla conoscenza, al dirigente responsabile dell’ufficio di disciplina i fatti da contestare e che, entro i venti giorni successivi alla ricezione della predetta segnalazione, il dirigente responsabile, se condivide la valutazione, contesta per iscritto gli addebiti al dipendente; il quinto comma dello stesso articolo prevede la facoltà di accesso a tutti gli atti istruttori riguardanti il procedimento disciplinare. L’art. 4, comma 1, a sua volta prevede che l’audizione del dipendente, da comunicarsi contestualmente all’invio della nota delle contestazioni, non può essere fissata prima che siano trascorsi almeno cinque giorni lavorativi dalla data della notifica della nota stessa.

1.1. Si sostiene che, alla stregua di tale disciplina, i cui termini devono considerarsi perentori, la prima contestazione disciplinare non sarebbe tempestiva: l’ispezione venne disposta dal Dirigente responsabile in data 10 dicembre 2004, per cui la nota avrebbe dovuto essere notificata entro e non oltre il 30 dicembre 2004. Si deduce che era mancata l’audizione a difesa in relazione ai fatti di cui alla prima contestazione, poichè il primo invito era avvenuto con la comunicazione del 3 marzo 2005 per la data del 21 marzo. Si assume, poi, che l’Inps avrebbe violato la previsione che impone al datore di lavoro di mettere a disposizione dell’incolpato la documentazione aziendale relativa ai fatti contestati, poichè non tutta la documentazione utilizzata per irrogare la sanzione espulsiva era stata consegnata in copia o concessa in visione al ricorrente o ai suoi difensori di fiducia, ancorchè richiesta.

2. Il secondo motivo denuncia vizio di omessa pronuncia e nullità della sentenza per violazione degli artt. 112,132 e 156 c.p.c. nella parte in cui il giudice di appello aveva motivato in ordine all’osservanza del requisito dell’immediatezza della contestazione disciplinare, trascurando di esaminare il complesso delle deduzioni difensive svolte dall’appellante al riguardo.

3. Con il terzo motivo si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che era stato oggetto di discussione tra le parti. La sentenza, nell’affermare che la lettera del 3 marzo 2005 riconosceva al C. la facoltà di visionare e prelevare personalmente il fascicolo disciplinare, aveva omesso di considerare il contenuto delle note difensive fatte pervenire dal difensore in sede di audizione personale dell’incolpato, in cui si riferiva che tale documentazione non era stata consegnata in copia nè concessa in visione al ricorrente e/o ai suoi difensori.

4. Il quarto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 1, in correlazione con l’art. 2 del Regolamento di disciplina dell’INPS. La sentenza impugnata, nel valutare la lesione del vincolo fiduciario intercorrente tra l’Istituto previdenziale e un suo impiegato amministrativo, addetto all’istruttoria e alla liquidazione di alcuni trattamenti previdenziali e operante in ufficio periferico, aveva omesso di considerare che la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso è prevista dall’art. 2 del Regolamento solo per alcune tipologie di infrazioni. Il giudice di appello si era limitato a richiamare la norma generale di cui all’art. 2119 c.c., omettendo di interpretarla e applicarla alla luce delle previsioni regolamentari.

5. I primi due motivi, che possono essere trattati congiuntamente in quanto vertenti sulla mancata disamina delle eccezioni difensive relative al procedimento disciplinare e all’osservanza del Regolamento di disciplina dell’INPS, sono inammissibili.

5.1. L’attuale ricorso denuncia il mancato esame della disciplina, che si assume più favorevole al dipendente, prevista da detto Regolamento, tra l’altro, per avere contemplato termini perentori di avvio del procedimento disciplinare. Viene richiamata Cass. n. 9767 del 2011, che, in ipotesi di licenziamento disciplinare nel rapporto di lavoro pubblico contrattualizzato nel regime precedente il d.lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, aveva affermato che la regolamentazione di fonte legale (D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, artt. 55 e 56) poteva essere integrata dalla contrattazione collettiva, nonchè dall’eventuale Regolamento di disciplina dell’amministrazione pubblica datrice di lavoro ed aveva riconosciuto il carattere perentorio di alcuni termini previsti dal Regolamento di disciplina dell’INAIL per il tempestivo esercizio del potere disciplinare. 5.2. A prescindere dalla contaddittorietà di una denuncia che contesti al contempo una violazione di legge e un’omessa pronuncia sostanzialmente in ordine al mancato esame e/o applicazione delle regole dettate dal Regolamento di disciplina dell’INPS, è determinante osservare che la Corte di appello, nel valutare il rispetto delle garanzie difensive dell’incolpato, con riguardo alla tempestività della contestazione disciplinare, alla convocazione per l’audizione personale, alla messa a disposizione della documentazione su cui la contestazione si fondava, non ha riferito di censure svolte in appello dal C. concernenti la violazione del Regolamento ed in particolare delle norme oggetto del primo motivo di ricorso.

L’attuale ricorrente riferisce (pag. 9 ric.) che copia del Regolamento venne allegato al ricorso in primo grado e posto a fondamento del primo e del secondo motivo del ricorso introduttivo, nonchè del terzo motivo del ricorso in appello. A tale proposito, tuttavia, si è limitato a dedurre che tanto era stato prospettato “da pag. 10 a pag. 13 del ricorso di secondo grado”. Non risulta trascritto nel ricorso per cassazione il tenore dell’atto di appello, onde potere comprendere se la sentenza sia incorsa nel vizio di omessa pronuncia in ordine ad un motivo di impugnazione (art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4) o comunque se fosse stata formulata una specifica censura, rispetto alla sentenza di primo grado (neppure riportata), incentrata sul mancato rispetto dei termini di cui al Regolamento, nonchè sul carattere asseritamente perentorio di tali termini. In difetto di tali allegazioni processuali, cui l’odierno ricorrente era onerato ai sensi dell’art. 366 c.p.c., resta precluso l’esame delle relative censure, che devono ritenersi nuove e come tali inammissibili.

5.3. Secondo costante giurisprudenza di legittimità, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di cui all’art. 366 c.p.c. del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (ex plurimis, Cass. n. 23675 del 2013, n. 324 del 2007, nn. 230 e 3664 del 2006).

5.4. Se è vero che la Corte di cassazione, allorquando sia denunciato un error in procedendo, è anche giudice del fatto e ha il potere di esaminare direttamente gli atti di causa, è altresì vero che, non essendo il predetto vizio rilevabile ex officio, è necessario che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” di cui richiede il riesame e, ouindi, che il corrispondente motivo sia ammissibile e contenga, in esatto adempimento degli oneri di cui all’art. 366 c.p.c., tutte le precisazioni e i riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale (cfr. Cass. n. 2771 del 2017, n. 1170 del 2004).

6. Con il terzo motivo si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), in relazione al “contenuto delle note difensive scritte fatte pervenire dai difensori del C. in sede di audizione personale (cfr. memoria 6.4.2005, cfr doc. 12 produzione di primo grado)”. Si sostiene che con tali note si era rappresentato che la documentazione relativa al fascicolo del procedimento disciplinare non era stata consegnata in copia nè concessa in visione al ricorrente e/o ai suoi difensori.

6.1. Preliminarmente, va osservato che il motivo di ricorso è carente dei requisiti di indicazione e di allegazione, di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, non risultando il documento ritenuto decisivo trascritto nè in tutto nè in parte. Come più volte affermato da questa Corte (ex plurimis, Cass. n. 26174 del 2014, n. 2966 del 2014, n. 15628 del 2009; cfr. pure Cass. Sez. Un. n. 28547 del 2008; Cass. n. 22302 del 2008, n. 4220 del 2012, n. 8569 del 2013n. 14784 del 2015 e, tra le più recenti, Cass. n. 6556 del 14 marzo 2013, n. 16900 del 2015), vi è un duplice onere a carico del ricorrente, quello di produrre il documento e quello di indicarne il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione; il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto del documento. La violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile.

6.2. A ciò aggiungasi che trova applicazione alla specie l’art. 360 c.p.c., n. 5 nel nuovo testo, come sostituito dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 2012, n. 134. La sentenza n. 8053/14 delle S.0 di questa Corte ha chiarito, riguardo ai limiti della denuncia di omesso esame di una questio facti, che il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (sent. cit.).

7. Il quarto motivo è infondato. Premesso che valgono anche per questo motivo le considerazioni di inammissibilità concernenti la mancata allegazione in sede di ricorso per cassazione degli elementi processuali attraverso cui ritenere devoluta al giudice del gravame l’interpretazione del codice disciplinare contenuto nel Regolamento dell’Istituto, va osservato che, secondo l’orientamento di questa Corte, costituente ius receptum (Cass. n. 5095 del 2011, cfr. pure Cass. n. 6498 del 2012), la giusta causa di licenziamento, quale fatto che non consente la prosecuzione, neanche provvisoria, del rapporto, è una nozione che la legge, allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo, configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle cosiddette clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e sindacabile in cassazione a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale. Inoltre, al fine di stabilire l’esistenza della giusta causa di licenziamento, occorre accertare se, in relazione alla qualità del rapporto intercorso tra le parti ed alla posizione che in esso abbia assunto il prestatore di lavoro, il comportamento disciplinarmente contestato al lavoratore e giudizialmente accertato abbia leso in modo grave la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente e tale, quindi, da esigere l’adozione della massima sanzione disciplinare (cfr. ex plurimis, Cass. n. 1667/1996, Cass. n. 5742/1995, Cass. n. 2715/1994).

7.1. Nel caso di specie, la sentenza, senza incorrere in vizi logici, nè giuridici in ordine alla ricostruzione e qualificazione dei fatti, ha ravvisato nella gravità del comportamento lavorativo tenuto dal ricorrente gli estremi della giusta causa di licenziamento, in quanto idoneo a ledere l’essenziale affidamento che, non solo il datore di lavoro, ma anche il cittadino, debbono poter riporre nella correttezza del dipendente pubblico.

7.2. La Corte di appello ha correttamente ravvisato la giusta causa di licenziamento ai sensi dell’art. 2119 c.c. in presenza di una grave e reiterata violazione dei doveri di ufficio gravanti sul dipendente pubblico in relazione agli obblighi e divieti di cui agli artt. 2104 e 2105 c.c. (v. pag. 17 sent.). In particolare, ha evidenziato che le condotte poste in essere dal C. erano caratterizzate da una forte accentuazione del dolo. Si era in presenza di una consapevole violazione dei doveri d’ufficio con uso strumentale della posizione funzionale rivestita dal C. per agevolare indebitamente familiari e terzi. Il comportamento reiterato aveva altresì cagionato un notevole danno economico all’Istituto.

8. Il ricorso va dunque rigettato, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese forfettarie nella misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, art. 2.

Sussistono i presupposti processuali (nella specie, rigetto del ricorso) per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dal D.P.R. 30 maggio, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, (legge di stabilità 2013).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali e in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 13 giugno 2017.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2017

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