Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24739 del 05/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 05/11/2020, (ud. 24/06/2020, dep. 05/11/2020), n.24739

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 3174/2014 R.G. proposto da:

ZETA GI. R. S.r.l. rappresentata e difesa dall’avv. Francesco

Moschetti con studio in Padova e dall’avv. Francesco D’Ayala Valva

con studio in Roma, Viale Parioli n. 43, presso cui ha eletto

domicilio;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del legale rappresentante p.t.,

rappresentata e difesa ope legis dall’Avvocatura Generale dello

Stato presso cui è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

e

EQUITALIA NORD S.p.A., rappresentata e difesa dagli avvocati Paolo

Alvigini del Foro di Padova ed Arturo Maresca del Foro di Roma con

domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Arturo Maresca, sito in

Roma, Via Favarelli, n. 22;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto

n. 64/24/13 pronunciata il 25.9.2013 e depositata il 9.10.2013

Udita la relazione svolta in camera di consiglio del 24.6.2020 dal

consigliere Dott. Saieva Giuseppe.

 

Fatto

RITENUTO

che:

1. Con separati ricorsi proposti dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Padova, la Zeta GI.R. S.r.l., esercente l’attività di commercio di rottami ferrosi, impugnava:

– un avviso di accertamento con cui l’Agenzia delle entrate accertava un maggior reddito d’impresa per l’esercizio 2008 di Euro 5.671.148,62, recuperando costi indebitamente dedotti per Euro 4.055.130,62;

– un secondo avviso di accertamento, con cui l’Ufficio, sulla base degli stessi presupposti, rettificava la dichiarazione IRAP presentata dalla società per l’anno 2008, accertando una maggiore imposta di Euro 158.151,00.

Impugnava, altresì, la cartella di pagamento con cui l’agente della riscossione aveva notificato alla società l’iscrizione a ruolo, a titolo provvisorio in pendenza di ricorso, di un terzo delle maggiori imposte accertate con gli anzidetti avvisi di accertamento.

La ricorrente rivendicava l’effettività delle operazioni ritenute dall’ufficio inesistenti, dando prova di una contabilità formalmente corretta con la corrispondenza in termini quantitativi della merce acquistata con quella venduta, nonchè della propria buona fede dal momento che non era riscontrabile alcuna consapevolezza, da parte del proprio amministratore, di avvantaggiarsi della frode con danno all’Erario. Per quanto concerne, invece, la cartella di pagamento, lamentava l’inesistenza della notifica per mancata compilazione della relata, nonchè la mancata sottoscrizione del ruolo come titolo esecutivo.

2. La C.T.P. di Padova rigettava i ricorsi, ritenendo tuttavia l’inesistenza soggettiva delle fatture per operazioni fittizie, così operando una riqualificazione del rilievo

3. L’appello proposto dalla società veniva rigettato, con sentenza n. 66/24/13 pronunciata il 25.9.2013 e depositata il 9.10.2013, dalla Commissione tributaria regionale del Veneto, la quale viceversa accoglieva l’appello incidentale dell’Ufficio, ritenendo sufficientemente dimostrato (contrariamente a quanto ritenuto dalla Commissione di primo grado) che si trattava di operazioni oggettivamente inesistenti.

4. Avverso tale pronuncia, la contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidato ad otto motivi cui resistono con controricorsi l’Agenzia delle entrate ed Equitalia Nord S.p.a..

5. In vista dell’originaria adunanza camerale del 24 marzo 2020 la contribuente ha presentato memoria (con documenti). Il ricorso è stato poi fissato per l’adunanza camerale del 24.6.2020, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380-bis 1 c.p.c.

Diritto

CONSIDERATO

che:

In via preliminare va disattesa la richiesta della società ricorrente (contenuta nella memoria depositata ex art. 378 c.p.c.) tesa a far valere il giudicato penale di assoluzione del 2017 nei confronti di Z.G. (legale rappresentante e socio al 50% della Zeta Gi.R. s.r.l.) per il reato di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 2, in relazione alle fatture per operazioni “in tutto o in parte inesistenti” indicate nelle dichiarazioni annuali relative agli anni 2008 e 2009, nonchè i provvedimenti di annullamento in autotutela emessi dall’Agenzia delle entrate nel 2018 nei confronti del medesimo socio Z.G. e del socio di minoranza Z.A. (30%) in relazione ai redditi di partecipazione per l’anno 2008.

Mentre i provvedimenti di annullamento in autotutela afferiscono a posizioni individuali per i redditi di partecipazione dei soci, la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario emessa nei confronti di Z.G., legale rappresentante della società, pur se emessa con la formula “perchè il fatto non sussiste”, ai sensi del art. 530 c.p.p., comma 2, non spiega automaticamente efficacia di giudicato nel processo tributario, ancorchè i fatti accertati in sede penale fossero in tutto o in parte gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti della società contribuente; e ciò in considerazione del diverso regime probatorio che consente nel giudizio tributario di pervenire a soluzioni diverse rispetto a quello penale nel quale mentre non assumono rilevanza alcuna le presunzioni, l’onere della prova grava interamente sull’accusa. Il giudicato penale, al più, può essere preso in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta decisione è destinata ad operare (Cass. Sez. 5, 20/12/2019, n. 34219; Cass. Sez. 5, 27/06/2019, n. 17258; nonchè, Cass. Sez. 5, 22/5/2015, n. 10578).

A tale riguardo questa Corte ha chiarito che l’art. 654 c.p.p. è norma che, ponendo un’eccezione ai principi generali circa l’ambito di efficacia di un giudicato, deve formare oggetto di stretta interpretazione, con la conseguenza che, anche in caso di coincidenza soggettiva tra i due giudizi, l’efficacia dal punto di vista oggettivo deve ritenersi limitata ad accertamenti relativi a circostanze specifiche costituenti oggetto dell’imputazione, senza estendersi ad aspetti valutativi, ancorchè riguardanti elementi costitutivi del reato contestato. E’ inoltre da aggiungere che, se è vero che la prova per testimoni, vietata nel giudizio dinanzi alle Commissioni tributarie quale incombente da assumere nel processo, va distinta dalle informazioni testimoniali, desunte da dichiarazioni precostituite assunte in un diverso contesto (come tali utilizzabili dai giudici tributari), è anche vero che queste ultime possono valere solo come elementi indiziari liberamente valutabili dal Giudice di merito secondo il suo prudente apprezzamento, non censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione.

1.1. Con il primo motivo l’agenzia ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, l’inesistenza della sentenza per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 3, in quanto sottoscritta dal presidente con segni grafici illeggibili (assimilabili a due lettere dell’alfabeto greco) inidonei a svolgere funzioni identitarie e di riferibilità soggettiva.

1.2. Con il secondo motivo deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, motivazione insufficiente su fatto decisivo e controverso non essendo gli elementi utilizzati dai giudici di secondo grado idonei a dimostrare la fondatezza dell’assunto dell’ufficio. Inoltre, in violazione dell’art. 2697 c.c. nessun riscontro sotto il profilo probatorio sarebbe stato offerto dall’Amministrazione finanziaria per dimostrare l’asserita mera cartolarità delle operazioni ritenute inesistenti.

1.3. Con il terzo motivo deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, motivazione insufficiente su fatto decisivo e controverso e difetto assoluto di prova in merito alle dichiarazioni rese nel corso della verifica, in quanto, pur non essendo stata rilevata alcuna irregolarità nella istituzione e nella tenuta delle scritture contabili, a conferma della correttezza del modus operandi della ZETA Gi.R. S.r.l., la C.T.R. non avrebbe specificato quale sarebbe stato il ruolo della stessa società (e del suo legale rappresentante) all’interno del meccanismo fraudolento nel quale inconsapevolmente essa sarebbe rimasta coinvolta.

1.4. Con il quarto motivo deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, motivazione insufficiente su fatto decisivo e controverso, nonchè mancanza di prova della inesistenza oggettiva delle operazioni e violazione dell’art. 53 Cost. per avere la C.T.R. fondato la propria decisione su dichiarazioni generiche rese da G.L., autista della P.F.T. s.p.a. e da C.D., autista della società Autotrasporti Comparin Bortolo S.r.l., in ordine ai trasporti effettuati dai medesimi di merce caricata non già presso le società che avevano emesso le fatture, ma altrove, per poi essere ceduta alle fonderie per conto della società ZETA Gi. R. s.r.l.

1.5. Con il quinto motivo deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e mancata applicazione della normativa di cui al D.L. 2 marzo 2012, n. 16, convertito nella L. 26 aprile 2012, n. 44, in quanto, trattandosi di operazioni di acquisto effettivamente avvenute, i costi sostenuti sarebbero comunque deducibili.

1.6. Con il sesto motivo deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione dl norme di diritto; assenza del requisito della colpevolezza previsto dal D.Lgs. 18 settembre 1997, n. 472, art. 5, con conseguente illegittimità dell’applicazione delle sanzioni, in considerazione della buona fede della ricorrente, lamentando che l’amministrazione non avrebbe provato l’esistenza di un accordo tra la società ricorrente, le società interposte fittiziamente e le società che avevano realmente effettuato le forniture.

1.7. Con il settimo motivo deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, motivazione insufficiente su fatto decisivo e controverso in ordine all’erronea imputazione temporale delle rettifiche di componenti negativi, sostenendo che la fattura della Euroleghe Group S.r.l. di Euro 98.994, dedotta nel 2009 per il minor importo di Euro 79.358,40, non aveva cagionato alcun danno per l’erario.

1.8. Con l’ottavo motivo deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, errata applicazione dell’art. 156 c.p.c., assumendo che il vizio di nullità della notifica della cartella, per mancanza della relata, contrariamente a quanto ritenuto dalla C.T.R., era insanabile.

2. Il ricorso va rigettato.

3. Del tutto privo di fondamento si appalesa il primo motivo d’impugnazione con cui la ricorrente lamenta l’impossibilità di decifrare e di attribuire al presidente della C.T.R. la firma apposta in calce alla sentenza in corrispondenza della relativa dicitura.

Invero, come osservato da questa Corte (Cass. Sez. 6, 07/03/2017, n. 5772) “non costituisce motivo di nullità della sentenza l’illeggibilità della firma del giudice, a meno che essa non consista in un segno informe privo di qualsiasi identità, al punto da risolversi in una vera e propria mancanza di sottoscrizione (Cass. 29/04/1978, n. 2040). In tema di sottoscrizione della sentenza da parte del giudice, infatti, la presunzione di identità tra l’autore del segno grafico indistinguibile, utilizzato per siglare e firmare il provvedimento, e la persona del giudice indicato in sentenza non è inficiata dalla mera deduzione dell’assoluta indecifrabilità del segno, qualora fra questo e l’indicazione nominativa del giudice contenuta nell’atto sussistano adeguati elementi di collegamento”. A tal fine, sia la controfirma del relatore, che l’attestazione del deposito da parte del segretario di sezione garantiscono che l’atto individuabile come sentenza possieda tutti i requisiti formali ad essa inerenti, ivi compresa la sottoscrizione del presidente (cfr. Cass. Sez. 1, 09/06/1990, n. 5635).

4. Quanto al secondo, terzo e quarto motivo con cui la ricorrente deduce tre distinte ipotesi di insufficienza della motivazione su fatti decisivi e controversi, lamentando il difetto assoluto di prova in merito all’asserita cartolarità delle operazioni ritenute inesistenti ed al proprio coinvolgimento del meccanismo fraudolento nel quale essa sarebbe rimasta inconsapevolmente coinvolta, gli stessi appaiono suscettibili di trattazione congiunta essendo tutti e tre inammissibili e comunque privi di fondamento.

Ed invero, trattandosi di sentenza pubblicata il 9.10.2013, deve essere applicato l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, il quale deve essere interpretato come riduzione al “minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione”. In base alla norma ormai vigente, è infatti denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. (Cass. S.U., 07/04/2014, n. 8053).

Nel caso in esame la ricorrente non denuncia alcun omesso esame di un fatto storico, ma censura globalmente ed indistintamente la motivazione, denunciandone sostanzialmente l’insufficienza (vizio non più deducibile secondo il “riformato” art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) e sollecitando questa Corte a sostituirsi al giudice di merito nell’esame complessivo delle risultanze probatorie, in tal modo formulando censure di merito non ammesse nel giudizio di legittimità.

Invero, con il presente ricorso la ricorrente mira ad ottenere una nuova valutazione nel merito delle risultanze processuali tale da ribaltare l’esito dei precedenti giudizi, non considerando che “un sindacato di fatto sulle prove non è consentito in questa sede, spettando alla competenza del solo giudice di merito la valutazione degli elementi probatori e la ricostruzione, sulla base di essi, dei fatti rilevanti ai fini della decisione”.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, “la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità, non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione” (così, di recente, Cass. Sez. 5, 04/08/2017, n. 19547, nonchè, Sez. 5, 24/01/2019, n. 1976).

Nella fattispecie in esame, i giudici di appello hanno ritenuto di confermare la legittimità degli atti impositivi, sul presupposto che essi fossero supportati da una serie di elementi ricavabili dalla motivazione degli atti impositivi medesimi, sicchè trattasi di motivazione che esplicita le ragioni della decisione ed assolve pienamente alla funzione di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36. La C.T.R. ha infatti correttamente valutato le risultanze della complessa ed articolata attività istruttoria svolta dalla Guardia di Finanza, fatta poi propria dall’Ufficio, ritenendo sufficientemente dimostrato che si trattava di operazioni oggettivamente inesistenti in relazione alle quali la società contribuente non aveva dimostrato nè la consegna della merce alle ditte riceventi, nè l’acquisizione dello stesso materiale da altre fonti diverse da quelle descritte in fattura, così modificando le conclusioni dei giudici di primo grado e qualificando con valutazione definitiva di merito “oggettivamente inesistenti” le operazioni de quibus.

5. Alla stregua delle considerazioni svolte in relazione ai punti precedenti, si rivela inconferente la doglianza di cui al quinto motivo del ricorso, avente ad oggetto, la violazione o falsa applicazione del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, convertito nella L. 26 aprile 2012, n. 44, in materia di deducibilità di costi da reato, non ammessa, com’è nel caso di specie, nei casi di operazioni oggettivamente inesistenti.

Come affermato da questa Corte infatti, in tema di imposte sui redditi, ai sensi della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, comma 4 bis (nella formulazione introdotta con il D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 1, conv. in L. 26 aprile 2012, n. 44), che opera, in ragione del precedente comma 3, quale jus superveniens con efficacia retroattiva in bonam partem, sono deducibili i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti (inserite, o meno, in una “frode carosello”), per il solo fatto che gli stessi siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle operazioni, salvo per i costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo, ovvero che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità (Cass. Sez. 5, 17/12/2014, n. 26461; nonchè Sez. 5, 20/04/2016, n. 7896).

Conseguentemente, nella specie, trattandosi di operazioni oggettivamente inesistenti, la ricorrente non può rivendicare l’applicabilità della disposizione richiamata.

6. Quanto al sesto motivo di gravame, relativo alla dedotta violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5 per non avere la C.T.R. tenuto conto del comportamento della ricorrente improntato ad assoluta buona fede ed assenza di colpevolezza, lo stesso si appalesa inammissibile.

La ricorrente censura infatti genericamente la sentenza impugnata, lamentando che alcuna negligenza o imprudenza era stata commessa dagli organi societari, sicchè non sarebbe configurabile alcuna condizione di colpevolezza che giustificasse l’applicazione delle sanzioni.

Sul punto, va osservato che avendo il giudice del gravame espressamente precisato che, nella fattispecie si trattava di operazioni oggettivamente inesistenti, non poteva escludersi il requisito della colpevolezza, ai sensi del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 5, atteso che in materia di sanzioni amministrative per responsabilità cosciente e volontaria, allorquando i costi recuperati a tassazione afferiscono ad operazioni oggettivamente inesistenti non può escludersi, come peraltro emerge dalle risultanze istruttorie, la partecipazione attiva e consapevole della società ricorrente al disegno evasivo, tale da giustificare pienamente la misura sanzionatoria applicata.

7. Con riferimento al settimo motivo d’impugnazione, concernente il rilievo n. 2 dell’avviso di accertamento (relativo all’erronea imputazione temporale delle rettifiche di componenti negativi), nessuna censura per insufficiente motivazione può essere sollevata, avendo la C.T.R. espressamente ribadito l’indefettibilità nel nostro ordinamento tributario del principio di competenza.

La nota di accredito di parte dei costi della fattura d’acquisto n. 144/2008 andava necessariamente contabilizzata nell’esercizio di competenza, in quanto il contribuente non può essere lasciato arbitro della scelta del periodo in cuì registrare le passività (cfr. ex multis, Cass. Sez. 5, 20/05/2020, n. 10122 e Sez. 5, 28/05/2020, n. 10163).

Questa Corte, invero, ha più volte ritenuto che poichè l’imputazione di un determinato costo ad un esercizio anzichè ad un altro ben può, in astratto, comportare l’alterazione dei risultati della dichiarazione, mediante i meccanismi di compensazione dei ricavi e dei costi nei singoli esercizi – deve ritenersi rigorosamente preclusa in tema di reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R n. 917 del 1986, art. 75 (ora art. 109) la detrazione di costi in esercizi diversi da quello di competenza.

Le regole sull’imputazione temporale dei componenti di reddito sono infatti inderogabili, in quanto il loro mancato rispetto consentirebbe un’arbitraria modifica della base imponibile e, in ultima analisi, della misura dei tributi dovuti nel singolo esercizio dal contribuente, soprattutto quando, come nel caso di specie, la condotta del contribuente abbia prodotto un differimento dell’imposizione e non un’anticipazione.

8. Privo di qualsiasi fondamento si appalesa poi l’ultimo motivo del ricorso, concernente l’errata applicazione da parte della C.T.R. dell’art. 156 c.p.c.; norma ai cui sensi sarebbe stata sanata la nullità concernente la notificazione della cartella di pagamento eseguita direttamente l’Agente della Riscossione che si sia avvalsa a tal fine dello strumento della raccomandata postale con avviso di ricevimento.

Invero, secondo l’indirizzo consolidato di questa Corte, “in tema di riscossione delle imposte, la notifica della cartella esattoriale può avvenire anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, in quanto la seconda parte del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 1, prevede una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso ed all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva dei soggetti ivi indicati. In tal caso, la notifica si perfeziona con la ricezione del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento, senza necessità di un’apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantirne, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata su istanza del soggetto legittimato e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario della cartella, come confermato implicitamente dal citato D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, penultimo comma, secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o con l’avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente o dell’amministrazione” (cfr., tra le molte, Cass. sez. 5, 19/03/2014, n. 6395; Cass. sez. 6, 24/07/2014, n. 16949; Cass. sez. 6, 13/06/2016, n. 12083; Cass. sez. 5, 18/11/2016, n. 23511; Cass. sez. 5, 19/01/2017, n. 1304; Cass. sez. 5, 21/02/2017, n. 4376; Cass. sez. 6, 03/04/2018, n. 8086); giurisprudenza questa, autorevolmente corroborata dalla sentenza n. 175 del 2018 della Corte costituzionale la quale ha evidenziato come al fine di assicurare con regolarità le risorse necessarie alla finanza pubblica è stata legittimamente attribuita all’agente per la riscossione la facoltà di avvalersi della notificazione “diretta” delle cartelle di pagamento.

Prive di qualsiasi fondamento si appalesano pertanto le censure della ricorrente avverso le argomentazioni contenute nella sentenza impugnata, avendo il concessionario proceduto validamente alla notifica della cartella esattoriale, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, mediante raccomandata con avviso di ricevimento, secondo la disciplina del D.M. 9 aprile 2001, artt. 32 e 39, talchè era sufficiente, per il relativo perfezionamento, la spedizione postale e la consegna al domicilio del destinatario, senz’altro adempimento ad opera dell’ufficiale postale se non quello di curare che la persona da lui individuata come legittimata alla ricezione apponesse la sua firma sul registro di consegna della corrispondenza, oltre che sull’avviso di ricevimento da restituire al mittente (cfr. decisioni sopra citate).

Immune da qualsiasi censura si appalesa inoltre l’affermazione della C.T.R. secondo cui, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 3, “la nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”. Come affermato da questa Corte, infatti, “la natura sostanziale e non processuale dell’avviso di accertamento tributario non osta all’applicazione di istituti appartenenti al diritto processuale, soprattutto quando vi sia un espresso richiamo di questi nella disciplina tributaria (Cass. SU, 31/01/2011, n. 2272; Cass. Sez. 5, 05/10/2004, n. 19854). Pertanto, l’applicazione, per l’avviso di accertamento, in virtù del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, delle norme sulle notificazioni nel processo civile comporta, quale logica necessità, l’applicazione del regime delle nullità e delle sanatorie per quelle dettato, con la conseguenza che la proposizione del ricorso del contribuente produce l’effetto di sanare la nullità della notificazione dell’avviso di accertamento per raggiungimento dello scopo dell’atto, ex art. 156 c.p.c. Nella specie, la circostanza che la relata non sia stata compilata non dà luogo ad inesistenza della notifica – che si verifica quando il relativo tentativo sia avvenuto in luogo e con modalità tali che non sussista alcun collegamento con il destinatario ma a nullità che è stata sanata con la proposizione del ricorso da parte della destinataria stessa (Cass. Sez. 5, 15/03/2013 n. 6613).

9. Infine vanno disattese in quanto non proposte dalla ricorrente in sede di appello e pertanto inammissibili in questa sede le ulteriori doglianze (non formalmente rubricate) relative all’asserita nullità del ruolo e all’assenta mancata indicazione dei responsabili del procedimento di iscrizione a ruolo e di cartellazione.

10. Il ricorso va pertanto rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

Sussistono i presupposti per il versamento da parte della società ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

PQM

rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al rimborso delle spese di giudizio in favore dell’Agenzia delle Entrate spese liquidate in Euro 15.000,00, oltre spese prenotate a debito ed in favore di Equitalia Nord S.p.a. spese che liquida in Euro 15.000,00, oltre al rimborso delle spese forfettarie nella misura del 15%, I.V.A. e c.p.A.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 24 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2020

 

 

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