Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24737 del 08/10/2018

Cassazione civile sez. I, 08/10/2018, (ud. 06/06/2018, dep. 08/10/2018), n.24737

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5687/2013 R.G. proposto da:

M.A., G.G. (nato il (OMISSIS)) e

G.A., in qualità di eredi di G.N., T.F. e

T.G., in qualità di eredi di Ga.An., e

F.V., G.R.M.R., G.G. (nato il

(OMISSIS)) e G.D., in qualità di eredi di

G.F., rappresentati e difesi dall’Avv. Carmelo Latino, con

domicilio eletto in Roma, via Gregorio VII, n. 242, presso lo studio

dell’Avv. Francesca Latino Grisafi;

– ricorrente –

contro

ASSESSORATO AI LAVORI PUBBLICI DELLA REGIONE SICILIANA, in persona

dell’Assessore p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale

dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n.

12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Palermo n. 1202/12

depositata il 22 agosto 2012;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 6 giugno 2018

dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. N., An. e G.G., già proprietari di alcuni fondi siti in (OMISSIS), convennero in giudizio l’Assessorato ai Lavori Pubblici della Regione Siciliana, per sentirlo condannare al risarcimento dei danni derivanti dalla perdita della proprietà degl’immobili, occupati per la costruzione del Nuovo Ospedale Civico, in virtù di decreto emesso dal Prefetto il 22 luglio 1987, ed irreversibilmente trasformati senza che fosse stato emesso il decreto di espropriazione, nonchè al pagamento dell’indennità di occupazione.

Si costituì l’Assessorato, e resistette alla domanda, assumendo che la realizzazione dell’opera era stata affidata dall’AgenSud, cui esso convenuto era subentrato, al Raggruppamento Temporaneo d’Imprese costituito tra la Hera S.p.a., l’Impresem S.p.a., la SAEM S.p.a., l’Italtel S.p.a. ed il Consorzio Cooperative di Produzione e Lavoro.

Si costituì il RTI, e resistette anch’esso alla domanda, negando la propria responsabilità per il mancato completamento delle procedure espropriative, e proponendo in subordine domanda di rivalsa nei confronti dell’Assessorato.

Il giudizio, interrottosi dapprima per il fallimento dell'(OMISSIS) S.p.a., che aveva incorporato la SAEM, e successivamente per la dichiarazione d’insolvenza della Hera, fu riassunto nei confronti delle società facenti parte del RTI.

Si costituì l’Italtel, ed eccepì la prescrizione del diritto azionato, nonchè l’infondatezza della domanda proposta nei suoi confronti.

Si costituì infine la Tecnofin Group S.p.a. (già Impresem), ed eccepì anch’essa la prescrizione, contestando inoltre la fondatezza della domanda proposta nei suoi confronti e chiedendo, in subordine, di essere autorizzata a chiamare in causa l’Assessorato.

1.1. Con sentenza non definitiva del 15 maggio 2006, il Tribunale di Palermo dichiarò improcedibile la domanda proposta nei confronti della Hera ed inammissibili le domande proposte nei confronti delle società facenti parte del RTI.

La domanda proposta nei confronti dell’Assessorato fu invece accolta con sentenza definitiva del 2 maggio 2007, con cui il Tribunale condannò il convenuto al pagamento della somma di Euro 217.966,00, oltre interessi, a titolo di risarcimento dei danni cagionati dalla perdita della proprietà.

2. Le impugnazioni proposte da N., An. e G.F., i primi due anche in proprio e tutti in qualità di eredi di G.G., avverso la sentenza non definitiva e dall’Assessorato avverso quella definitiva, nonchè quelle incidentali proposte dalla Tecnofin avverso la sentenza non definitiva e dai G. avverso quella definitiva, sono state riunite dalla Corte d’appello di Palermo, che con sentenza del 22 agosto 2012 le ha rigettate.

Premesso, per quanto ancora rileva in questa sede, che, nel contestare la quantificazione del danno risultante dalla sentenza di primo grado, i G. si erano limitati ad esprimere una doglianza assolutamente generica, essendosi limitati a richiamare le critiche mosse all’Italia dalla Corte EDU senza indicare specifici profili di censura, la Corte ha ritenuto infondate le predette contestazioni, osservando che, nel ravvisare la violazione dell’art. i del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, per la mancanza del necessario equilibrio tra le esigenze di carattere generale e la salvaguardia dei diritti dell’individuo, la Corte di Strasburgo ha invitato il legislatore nazionale a non discostarsi da criteri di calcolo dell’indennità di espropriazione che si allontanino eccessivamente dal valore effettivo del bene, ma non ha imposto specifici criteri di valutazione, rimasti inosservati dalla sentenza di primo grado.

In ordine al valore delle aree edificabili, premesso che la stima poteva essere effettuata sia con metodo sintetico-comparativo che con metodo analitico-ricostruttivo, e precisato che l’evoluzione del quadro normativo induce a negare valore preminente al primo metodo, congeniale al sistema introdotto dal D.L. 11 luglio 1992, n. 333, art. 5-bis governato dal criterio dell’edificabilità di fatto, la Corte ha chiarito che, nell’applicazione del secondo metodo, collegato alla qualificazione urbanistica dell’area, occorre tener conto non già dell’indice fondiario di edificabilità, riferito alle singole aree specificamente destinate all’edificazione privata, ma degl’indici medi di fabbricabilità riferibili all’intera zona omogenea, al lordo dei terreni da destinare a spazi liberi o comunque non suscettibili di edificazione da parte dei privati. Ha ritenuto pertanto corretta la valutazione del Giudice di primo grado, che, nell’impossibilità di avvalersi del metodo sintetico-comparativo per l’assenza di atti di compravendita di terreni posti in zona destinata alla realizzazione di strutture ospedaliere, aveva fatto proprie le conclusioni del c.t.u., che aveva utilizzato il metodo analitico-ricostruttivo.

In ordine alle aree non legalmente edificabili, premesso che la contestazione della stima effettuata con il criterio del valore agricolo medio, previsto dalla L. 22 ottobre 1971, n. 865, art. 16 e dall’art. 5-bis cit., comma 2 e dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza della Corte costituzionale n. 181 del 2011, imponeva l’applicazione del criterio generale del valore venale pieno, consentendo agli interessati di dimostrare che il fondo era suscettibile di uno sfruttamento ulteriore e diverso rispetto a quello agricolo, la Corte ha ritenuto condivisibile la valutazione compiuta dal c.t.u., che aveva apportato una correzione al presumibile valore di mercato (Lire 2.000 al mq.), al fine di tener conto della posizione particolare della area occupata, indipendentemente da ogni influenza di tipo urbanistico.

3. Avverso la predetta sentenza hanno proposto ricorso per cassazione, per tre motivi, M.A., G. (nato il (OMISSIS)) e G.A., in qualità di eredi di G.N., e F. e T.G., in qualità di eredi di Ga.An., nonchè F.V., R.M.R., G. (nato il (OMISSIS)) e G.D., in qualità di eredi di G.F.. L’Assessorato ha resistito con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo d’impugnazione, i ricorrenti denunciano la violazione e la falsa applicazione degli artt. 112 e 342 c.p.c., censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto generiche le doglianze da loro avanzate in ordine alla quantificazione dei danni, senza considerare che, attraverso il richiamo della sentenza della Corte EDU 29 luglio 2004, Scordino c. Italia, e dell’ordinanza 19 ottobre 2006, n. 22357 della Corte di cassazione, essi avevano inteso attribuire una specifica connotazione al loro gravame, volto a contestare non solo l’efficacia delle norme applicate dal Giudice di primo grado, ma anche a fornire un idoneo supporto alla domanda di liquidazione del danno.

2. Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che, in virtù della rilevata genericità del gravame, la Corte di merito si è sottratta all’obbligo di motivazione in ordine alle ragioni da loro fatte valere con l’appello incidentale, e segnatamente alla necessità di avere riguardo, nella liquidazione dei danni, al valore di mercato del fondo espropriato o ad un valore allo stesso ragionevolmente rapportabile.

3. Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione o la falsa applicazione della L. 25 giugno 1865, n. 2359, art. 39e dell’art. 2043 c.c., osservando che, nell’esaminare il merito delle censure da loro proposte, la sentenza impugnata ha erroneamente escluso la sussistenza di un contrasto tra i criteri di liquidazione del danno applicati dal Giudice di primo grado e la CEDU, non avendo tenuto conto dell’incolmabile divario esistente tra l’importo loro riconosciuto ed il valore delle aree edificabili espropriate. Sostengono comunque che la dichiarazione d’illegittimità costituzionale, sopravvenuta nel corso del giudizio, delle norme poste a fondamento della liquidazione comportava l’inoperatività dei predetti criteri, imponendo quindi di fare riferimento al valore reale del fondo espropriato.

4. I tre motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto riflettenti questioni intimamente connesse, sono fondati.

In primo grado, il risarcimento dovuto agli attori per la perdita della proprietà del fondo occupato era stato infatti liquidato in base ai criteri previsti dal D.L. n. 333 del 1992, art. 5-bis, comma 7-bis convertito con modificazioni dalla L. 11 luglio 1992, n. 359, introdotto dalla L. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 3, comma 65, il quale, in riferimento alle occupazioni illegittime di aree edificabili per causa di pubblica utilità intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, prevedeva che, ai fini della liquidazione del danno, dovessero trovare applicazione i medesimi criteri dettati dall’art. 5-bis, comma 1 per la determinazione delle indennità di espropriazione, con esclusione della riduzione del 40% prevista da quest’ultima disposizione, e con un incremento ulteriore del 10%. Tale statuizione era stata censurata dagli attori con il terzo motivo del loro appello principale e con l’unico motivo dell’appello incidentale, nei quali, in termini sostanzialmente identici, essi avevano manifestato, in maniera sintetica ma inequivocabile, la volontà di ottenere il riesame della liquidazione sulla base dei principi enunciati dalla Corte EDU con la nota sentenza 29 luglio 2004, in causa Scordino c. Italia, e richiamati da questa Corte nell’ordinanza del 19 ottobre 2006, n. 22357, concludendo per la quantificazione del danno in misura pari o comunque prossima al valore di mercato del fondo occupato, così come risultante dalla stima compiuta dal c.t.u. nominato in primo grado.

Il tenore complessivo delle predette conclusioni e delle censure proposte a sostegno del gravame, testualmente riportate a corredo del motivo di ricorso, smentisce il giudizio di genericità espresso in proposito dalla sentenza impugnata, la quale, nel ritenere insufficiente, ai fini della formulazione di specifici profili di censura, il richiamo ai principi enunciati dalla Corte EDU, non ha fatto corretta applicazione dell’orientamento giurisprudenziale, da essa citato puntualmente in premessa, secondo cui, affinchè un capo di sentenza possa ritenersi validamente impugnato, non è sufficiente che l’atto d’appello contenga una manifestazione di volontà in tal senso, occorrendo anche una parte argomentativa che, contrapponendosi alla motivazione della sentenza impugnata, con espressa e motivata censura, miri ad incrinarne il fondamento logico-giuridico (cfr. Cass., Sez. Un., 9/11/2011, n. 23299; Cass., Sez. 3, 15/06/2016, n. 12280; Cass., Sez. 6, 22/09/2015, n. 18704). Com’è noto, infatti, l’invocata sentenza della Corte EDU, nell’affermare la contrarietà dell’istituto dell’occupazione acquisitiva al principio, sancito dall’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, secondo cui l’espropriazione deve avvenire “in buona e debita forma”, aveva altresì sostenuto che il rispetto del giusto equilibrio, imposto dalla predetta disposizione, tra le esigenze d’interesse generale e le garanzie rigorose dei diritti fondamentali, ivi compresa la proprietà privata, richiede, in caso di soppressione o limitazione di tale diritto, il versamento al proprietario di una somma che sia in rapporto ragionevole con il valore venale del bene perduto. Sulla base delle medesime considerazioni, la richiamata ordinanza di questa Corte aveva sollevato questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 333 del 1992, art. 5 bis per contrasto con gli artt. 111 e 117 Cost., in riferimento all’art. 6 della CEDU ed all’art. 1 del Primo Protocollo addizionale, osservando che il ragionevole rapporto richiesto da tali disposizioni non poteva considerarsi rispettato da un criterio di liquidazione dell’indennità di espropriazione per effetto del quale competeva all’espropriato circa la metà del valore di mercato delle aree ablate, sempre che non fosse applicata l’ulteriore riduzione del 40% per l’omessa accettazione dell’indennità offerta.

L’evidente contrasto tra i principi enunciati dalle predette pronunce, la cui notorietà ne rendeva superflua la testuale riproduzione nell’atto di appello, ed i criteri in base ai quali aveva avuto luogo la liquidazione del danno, posto anche in relazione con la precisa richiesta formulata nelle conclusioni, consente di escludere che, come ritenuto dalla sentenza impugnata, gli attori avessero omesso di svolgere puntuali argomentazioni a sostegno del gravame, contrapposte a quelle contenute nella sentenza impugnata e volte ad incrinarne il fondamento logico-giuridico: in senso contrario, depongono chiaramente la natura prettamente giuridica delle censure mosse alla sentenza di primo grado, aventi ben precisi parametri normativi di riferimento e non richiedenti ulteriori accertamenti in fatto, e la finalità pratica dell’impugnazione, consistente nel riconoscimento di un ristoro commisurato o quanto meno adeguato al valore di mercato del fondo occupato. In tema di specificità dei motivi di appello, questa Corte ha d’altronde affermato ripetutamente che l’art. 342 c.p.c., comma 1, nella formulazione (applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame) anteriore alle modificazioni introdotte dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, non impone il rispetto di un particolare rigore di forme, risultando sufficiente che al giudice siano esposte, anche sommariamente, le ragioni di fatto e di diritto su cui si fonda l’impugnazione, ovvero che, in relazione al contenuto della sentenza appellata, siano anche indicate, oltre ai punti e ai capi formulati e seppure in forma succinta, le ragioni per cui si chiede la riforma della pronuncia di primo grado, con i rilievi posti a base dell’impugnazione, in modo tale che restino esattamente precisati il contenuto e la portata delle censure proposte (cfr. Cass., Sez. lav., 20/03/ 2013, n. 6978; 6/07/2007, n. 15263; Cass., Sez. 3, 11/10/2006, n. 21745).

4.1. Nell’affermare la genericità dei motivi di gravame, la sentenza impugnata sembra essere stata, in realtà, influenzata dalla convinzione, chiaramente espressa in riferimento al merito delle censure, che la Corte EDU, nel ritenere violato l’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, con riguardo alla disciplina dettata dal D.L. n. 333 del 1992, art. 5 bisnon avesse ravvisato un radicale contrasto tra i criteri da quest’ultimo previsti e l’esigenza di salvaguardia del diritto di proprietà, ma si fosse limitata ad invitare i legislatori nazionali a non discostarsi, nella regolamentazione dell’indennità di espropriazione, da criteri di calcolo che si allontanino eccessivamente dall’effettivo valore dei beni, senza imporre affatto specifici criteri di valutazione rimasti inosservati dalla sentenza di primo grado.

Senonchè, tale convinzione ha trovato autorevole smentita, già in epoca anteriore alla pronuncia della sentenza impugnata, negli ulteriori sviluppi della vicenda giurisprudenziale avviata dalla citata sentenza della Corte EDU 29 luglio 2004, e segnatamente nelle sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 2007, emesse a seguito di ordinanze di rimessione pronunciate da questa Corte, le quali, proprio in virtù dell’affermato contrasto con il principio sancito dall’art. 1 del Primo Protocollo addizionale alla CEDU, hanno dichiarato costituzionalmente illegittimi a) i primi due commi del D.L. n. 333 del 1992, art. 5-bis in quanto, prevedendo la liquidazione di un’indennità di espropriazione oscillante nella pratica tra il 50 ed il 30% del valore di mercato del bene, e quindi priva del ragionevole legame prescritto dalla Corte EDU, non garantivano un serio ristoro del sacrificio imposto al proprietario in nome dell’interesse pubblico, b) il comma 7-bis medesimo articolo, in quanto, estendendo i predetti criteri al risarcimento del danno cagionato dall’occupazione acquisitiva, non ne consentiva il ristoro integrale. Con la successiva sentenza n. 181 del 2011, è stata invece dichiarata, sulla base dei medesimi principi, l’illegittimità costituzionale dell’art. 5-bis, comma 4 in combinato disposto con la L. 22 ottobre 1971, n. 865, art. 15, comma 1, secondo periodo e art. 16, commi 5 e 6, come sostituiti dalla L. 28 gennaio 1977, n. 10, art. 14 in ragione dell’astrattezza del criterio di calcolo dagli stessi previsto per le indennità di espropriazione relative alle aree agricole e a quelle non edificabili, che, in quanto imperniato sul valore agricolo medio, prescindeva dalle caratteristiche concrete del suolo espropriato.

A seguito delle predette sentenze, la giurisprudenza di legittimità ha costantemente escluso, ai sensi dell’art. 136 Cost. e della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 30 che i criteri dettati dalle norme dichiarate costituzionalmente illegittime potessero trovare ulteriormente applicazione anche in riferimento ai giudizi pendenti, a meno che il rapporto non fosse esaurito in modo definitivo, per intervenuta formazione del giudicato o per essersi verificato un altro evento cui l’ordinamento ricolleghi il consolidamento del rapporto medesimo, ovvero per essersi verificate preclusioni processuali o decadenze e prescrizioni non direttamente investite, nei loro presupposti normativi, dalla pronuncia di incostituzionalità (cfr. Cass., Sez. 1, 13/06/2014, n. 13515; 21/06/2012, n. 10379; 5/09/2008, n. 22409). E’ stato altresì precisato che, per effetto dell’espunzione dall’ordinamento del D.L. n. 333 del 1992, art. 5 bus, comma 7-bis l’unico criterio utilizzabile per la liquidazione del danno cagionato dall’occupazione illegittima, tanto per i suoli edificabili quanto per quelli agricoli o inedificabili, resta quello della piena reintegrazione patrimoniale, che impone di commisurare il ristoro dovuto al proprietario al valore di mercato del fondo occupato, da determinarsi in base alle caratteristiche intrinseche ed estrinseche del suolo (cfr. Cass., Sez. 1, 19/03/2014, n. 6296; 1/08/2013, n. 18434; 14/01/2008, n. 591).

Nell’esaminare le censure proposte dalle parti in ordine alla liquidazione compiuta dalla sentenza di primo grado, la Corte territoriale si è singolarmente limitata a richiamare la sola sentenza della Corte costituzionale n. 181 del 2011, nella specie incidente esclusivamente sulla determinazione dell’indennità dovuta per il periodo di occupazione legittima della porzione non edificabile del fondo occupato, senza tener conto degli effetti ben più ampi ed economicamente rilevanti della sentenza n. 349 del 2007, che, dichiarando costituzionalmente illegittima l’estensione dei criteri di liquidazione previsti per l’indennità di espropriazione al risarcimento del danno per l’occupazione illegittima di aree edificabili, imponeva di procedere ad una nuova quantificazione del ristoro dovuto agli attori, quanto meno in riferimento alla porzione del fondo occupato avente, in base agli strumenti urbanistici vigenti all’epoca della vicenda ablatoria, una destinazione tale da consentirne lo sfruttamento a fini edilizi.

4. La sentenza impugnata va pertanto cassata, nei limiti segnati dall’accoglimento dei motivi di ricorso, con il conseguente rinvio della causa alla Corte d’appello di Palermo, che provvederà, in diversa composizione, anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

PQM

accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata, in relazione ai motivi accolti; rinvia alla Corte di appello di Palermo, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 6 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2018

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