Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2473 del 03/02/2021

Cassazione civile sez. lav., 03/02/2021, (ud. 23/07/2020, dep. 03/02/2021), n.2473

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23697-2016 proposto da:

C.N.L.V., elettivamente domiciliato in ROMA,

VIA APPIA NUOVA 251, presso lo studio dell’avvocato MARIA SARACINO,

rappresentato e difeso dall’avvocato ROSARIO FOLLIERI;

– ricorrente –

contro

BANCA CARIME S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ORAZIO 31, presso lo

studio dell’avvocato ALESSANDRA GIORDANO, rappresentata e difesa

dall’avvocato MAURO FUSARO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1589/2016 della CORTE D’APPELLO di BARI,

depositata il 23/08/2016 R.G.N. 1045/2014.

 

Fatto

RILEVATO

che la Corte di Appello di Bari, con sentenza pubblicata in data 23.8.2016, ha accolto il gravame interposto da Banca Carime S.p.A., nei confronti di C.N.L.V. avverso la pronunzia del Tribunale di Lucera, resa il 26.3.2014, con la quale, in accoglimento del ricorso proposto dal C., era stata condannata la banca al pagamento, in favore del dipendente, “delle differenze retributive in virtù dei titoli analiticamente indicati nella parte motivazionale, quantificate in complessivi Euro 85.254,19, già comprensivi di accessori calcolati dalla maturazione di ciascuna componente del credito, fino al soddisfo” ed era stato dichiarato “il diritto del ricorrente al risarcimento, a titolo di danno non patrimoniale, pari alla “differenza” tra l’importo di Euro 40.000,00 accertato e quello liquidabile a titolo di danno biologico in applicazione delle tabelle INAIL, tenuto conto della percentualizzazione dei postumi permanenti nella misura del 12%, oltre interessi”;

che, pertanto, la Corte territoriale, riformando la pronunzia di primo grado, ha rigettato le domande proposte dal C. con ricorso del 6.10.2010;

che per la cassazione della sentenza ricorre C.N.L.V. articolando nove motivi (i primi cinque dei quali indicati con i numeri da 1 a 5; il sesto indicato con la lettera “A”, il settimo con la lettera “B”; l’ottavo ed il nono privi sia di numero che di lettera), cui la Banca Carime S.p.A. resiste con controricorso;

che sono state depositate memorie nell’interesse del C.; che il P.G. non ha formulato richieste.

Diritto

CONSIDERATO

che, con il ricorso, si deduce: 1) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 132,437,115 c.p.c. e della L. n. 108 del 1990, art. 2 ed in particolare, si lamenta che “la motivazione adottata non è persuasiva”, laddove si afferma che “dalla documentazione prodotta dalla Banca e dal dato notorio non sembra potersi dubitare che l’ex parte datoriale occupava ed (occupa) molto più di 60 dipendenti e, pertanto, si deve ritenere che i crediti maturati nel periodo antecedente il quinquennio anteriore all’atto introduttivo del 5.3.2007… sono prescritti”, perchè la prova sarebbe stata erroneamente “ancorata alla documentazione prodotta ex adverso, da cui risulterebbe la forza lavorativa che renderebbe applicabile la c.d. tutela reale”; per la qual cosa, a parere del ricorrente, i giudici di seconda istanza sarebbero incorsi nella violazione dell’art. 132 c.p.c., “essendo ignoti gli elementi di fatto (documentali)” fondanti la decisione ed integrando “la denunziata “lacuna” una motivazione solo apparente”; inoltre, la produzione documentale della Banca riguarderebbe, secondo il ricorrente, “atti e documenti risalenti nel tempo che l’istituto di credito avrebbe potuto produrre in primo grado; infine, si deduce che “parlare del “dato notorio” è illegittimo”, perchè “è pacifico che, in tema di prescrizione dei crediti retributivi del lavoratore, l’onere di provare la sussistenza del requisito occupazionale della stabilità reale, ai fini della decorrenza del termine in costanza di rapporto di lavoro, grava sul datore di lavoro, che tale decorrenza eccepisca, dovendosi ritenere, alla luce della tutela ex art. 36 Cost., che la sospensione in costanza di rapporto costituisca la regola e non l’eccezione”, ed altresì in quanto, “perchè un fatto rivesta carattere di notorietà, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., comma 2 occorre che esso sia acquisito alla cultura media della collettività….restando esclusa da detta norma l’utilizzabilità di nozioni eventualmente rientranti nella scienza personale del giudice”; 2) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 2103 c.c. e si deduce che la Corte di merito sarebbe incorsa in errore nel ritenere che, avendo il lavoratore dichiarato di essere stato demansionato, ossia di avere svolto mansioni di livello inferiore nella filiale di (OMISSIS) rispetto a quelle esercitate in (OMISSIS), non avrebbe potuto rivendicare anche per il periodo lavorativo in (OMISSIS) (1999-2007) la retribuzione prevista per le mansioni superiori; si lamenta, pertanto che, anche su tale punto, la motivazione non sia persuasiva e contrasti “con le norme del codice civile in discorso”, perchè non tiene conto del fatto che, in base al disposto dell’art. 2103 c.c. vecchia formulazione, applicabile alla fattispecie ratione temporis, “Nel caso di assegnazione a mansioni superiori il prestatore ha diritto al trattamento corrispondente all’attività svolta, e l’assegnazione stessa diviene definitiva, ove la medesima non abbia avuto luogo…”; 3) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 2103 c.c., perchè i giudici di seconda istanza avrebbero erroneamente affermato che il C. non poteva aspirare al riconoscimento della categoria “Quadro 4”, perchè la distinzione della categoria dei quadri direttivi su quattro livelli retributivi era stata prevista soltanto a far data dalla contrattazione collettiva del 1999, dopo il trasferimento dello stesso a (OMISSIS); 4) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione dell’art. 116 c.p.c. per errata valutazione delle prove e per omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, oggetto di discussione tra le parti, perchè i giudici di appello avrebbero fondato la decisione impugnata solo su parte delle testimonianze assunte, peraltro “stravolgendole”; 5) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione degli artt. 346 e 116 c.p.c. per errata valutazione delle prove documentali e per omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, perchè la Corte di merito avrebbe erroneamente affermato che anche la documentazione prodotta dal ricorrente (e disconosciuta dalla Carime) non fosse “adesiva alle sue tesi”, senza considerare che “l’avverso disconoscimento della documentazione prodotta dal ricorrente in primo grado non è stato più riproposto in appello dalla Banca” e che, “quindi, l’eccezione è da reputarsi abbandonata a mente dell’art. 346 c.p.c.”; 6, indicato con la lettera A) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., per non avere la Corte di merito qualificato correttamente la causa petendi “alla stregua e nell’ambito della fattispecie esposta dalla parte istante”, avendo affermato che la domanda era diretta al risarcimento dei danni causati dal demansionamento aggravato dalla insalubrità dei locali della filiale di (OMISSIS); mentre, secondo il ricorrente, “il Tribunale avrebbe diversamente giudicato prendendo in riferimento una diversa causa petendi e applicando l’art. 2087 c.c.”; 7, indicato con la lettera B) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 5, la violazione degli artt. 115,116 c.p.c. e art. 2087 c.c., per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in quanto i giudici di seconda istanza hanno affermato che, “ad ogni modo, la domanda non risultava provata”, senza tenere conto del fatto che il lavoratore, a pag. 7 del ricorso, aveva precisato che “le condizioni insalubri e malsane in cui versava la predetta filiale di (OMISSIS) non possono che aver peggiorato le condizioni di salute del C.. Ed è a tutti noto che, ex art. 2087 c.c., l’imprenditore è obbligato a tutelare l’integrità fisiopsichica del dipendente…”; 8, non numerato nel ricorso) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, la violazione degli artt. 2103,2043,2059 c.c., 115 e 116 c.p.c., “per violazione di norme di diritto e per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, perchè i giudici del gravame non si sono pronunziati “sulle ulteriori voci retributive relative al riconoscimento delle superiori mansioni richieste dal ricorrente, oggetto di appello incidentale” e per avere gli stessi affermato che il danno non patrimoniale non era stato provato, nonostante il sicuro demansionamento del C.; 9, non numerato nel ricorso) in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione dell’art. 91 c.p.c. e art. 75 Disp. Att. c.p.c., perchè nella sentenza impugnata sarebbero stati liquidati “importi sicuramente eccessivi, non risultando ancorati assolutamente alle tariffe professionali di riferimento e risultando pure immotivati così da non consentire al soccombente il suo sindacato sulla conformità della liquidazione agli atti e alle tariffe…”; si lamenta, infine, che “l’antagonista, in spregio ai dettami di cui all’art. 75 Disp. Att. c.p.c., non ha prodotto la nota specifica”;

che il primo motivo non è meritevole di accoglimento, in quanto lo stesso, nella sostanza, attiene a censure di fatto, articolate mediante presunti errori di diritto, deducendosi peraltro irritualmente la violazione dell’art. 115 codice di rito, dal momento che, in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione della detta norma è apprezzabile, in sede di ricorso di legittimità, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 e “deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità” (cfr., ex plurimis, Cass., ord. n. 8763/2019; sent. n. 24434/2016). Pertanto, la violazione dell’art. 115 c.p.c. non può essere dedotta nel ricorso per cassazione ove si lamenti che i giudici di merito, nel valutare le prove addotte dalle parti, abbiano attribuito “maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre” (v., tra le altre, Cass. n. 11892/2016); quanto alla doglianza relativa al “fatto notorio”, si rileva che, alla stregua dei consolidati arresti giurisprudenziali di questa Suprema Corte, in sede di legittimità, in materia di prova civile, è censurabile per violazione di legge “l’assunzione da parte del giudice di merito di una inesatta nozione di fatto notorio – da intendere come fatto conosciuto da uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo e non anche il concreto esercizio del suo potere discrezionale di ricorrere alla massima di esperienza, che può essere censurato solo per vizio di motivazione” (cfr., tra le molte, Cass. n. 5438/2017). Nel caso di specie, il vizio è stato dedotto in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 quale inesatta nozione di fatto notorio (v. pag. 7 del ricorso) e, pertanto, va esclusa l’ammissibilità della censura con cui si contesta il potere discrezionale del giudice, secondo cui “dalla documentazione prodotta dalla banca e dal dato notorio non sembra potersi dubitare che l’ex parte datoriale occupava (ed occupa) molti di più di 60 dipendenti…”, avendo i giudici di secondo grado tratto tale convincimento sia dai documenti versati in atti dalla datrice di lavoro che dal dato notorio che la Banca Carime è il più grande istituto di credito operante nel Sud Italia, alle cui dipendenze lavoravano un numero di dipendenti certamente superiore a 60. Infine, il C. lamenta (v. pag. 7 del ricorso) che “la produzione documentale della banca riguarda atti e documenti risalenti nel tempo che l’istituto di credito avrebbe potuto produrre in primo grado”, ma tale produzione documentale non è stata prodotta (e neppure indicata tra i documenti offerti in comunicazione nel ricorso per cassazione), nè trascritta; e ciò, in violazione del principio (v. art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013). Per la qual cosa, questa Corte non è stata messa in grado di apprezzare la veridicità delle doglianze mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza, che si risolvono, quindi, in considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011);

che il secondo motivo non è fondato, in quanto la Corte di Appello ha correttamente sottolineato che “la domanda iniziale del lavoratore consisteva nella richiesta di riconoscimento della “qualifica di QDL 4 a far epoca dal 29.5.95…”, dolendosi il C. di aver ricevuto il riconoscimento della qualifica di “Quadro” con decorrenza dal 29.8.95… e quello di “Quadro direttivo” di 2 livello-QDL 2 (allorquando prestava l’incarico di vice direttore presso la filiale di (OMISSIS)), in luogo di quello (asseritamente dovuto) di QDL 4 (che, tuttavia, corrisponde al livello retributivo massimo previsto dalla contrattazione integrativa aziendale e non già dal ccnl di categoria)” (v. pag. 7 della sentenza impugnata); e pertanto, nella fattispecie, all’evidenza, si tratta di “rivendicazioni” che afferiscono “ad un profilo di richiesta di un maggior livello retributivo… di avanzamento di un doppio “scalino” retributivo ed endocategoriale (nell’ambito della stessa categoria o qualifica di inquadramento)” e “non al riconoscimento di vere e proprie mansioni superiori” (v., ancora, pag. 7 della sentenza);

che il terzo motivo non può essere accolto, poichè il ricorrente non ha indicato analiticamente quali norme, e sotto quale profilo, sarebbero state violate (facendosi, inizialmente, genericamente accenno soltanto alla “violazione dell’art. 2103 c.c. per falsa applicazione di norme di diritto e del contratto collettivo” e, nel corso del motivo, sempre genericamente, alla contrattazione collettiva del 1999, all’accordo quadro del 28.2.1998 di attuazione del protocollo d’intesa 4.6.1997, senza alcuna specificazione degli articoli pretesamente violati), in spregio alla prescrizione di specificità dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, comma 1, n. 3 codice di rito, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, mediante la puntuale indicazione delle disposizioni asseritamente incise ed altresì con specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009);

che il quarto ed il quinto motivo – da trattare congiuntamente per ragioni di connessione ed entrambi finalizzati ad ottenere un nuovo esame del merito attraverso una nuova valutazione degli elementi delibatori, pacificamente estranea al giudizio di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014) – sono inammissibili in quanto “il compito di valutare le prove e di controllarne l’attendibilità e la concludenza spetta in via esclusiva al giudice di merito”; per la qual cosa, “la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata, per omessa, errata o insufficiente valutazione delle prove, o per mancata ammissione delle stesse, non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice di merito” (cfr., ex multis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. nn. 14541/2014; 2056/2011); e, nella fattispecie, la Corte distrettuale è pervenuta alla decisione impugnata attraverso un iter motivazionale condivisibile dal punto di vista logico-giuridico, anche in ordine alla valutazione dei mezzi istruttori addotti dalle parti, all’esito della quale, fa ampio riferimento al fatto che gli assunti del C. sono risultati privi di riscontro probatorio (v., in particolare, le pagg. 7, 9, 11 della sentenza impugnata);

che il sesto motivo (indicato con la lettera A) non può essere accolto, perchè non è centrato rispetto al thema decidendum, avendo la Corte distrettuale correttamente sottolineato che “il primo giudice, oltre che decidere in maniera difforme rispetto a quanto richiesto, atteso che per il C. furono il demansionamento e la dequalificazione a determinare le denunciate malattie, nella sua indebita modifica dei fatti costitutivi della pretesa, ha escluso la dedotta causa generatrice (demansionamento) dell’evento dannoso (la lamentata morbosità) e l’ha sostituita con un’altra (l’insalubrità dei locali della filiale di (OMISSIS)) che per il C. sarebbe stata solo una concausa peggiorativa del suo stato di salute”, peraltro “neppure provata” (v. le pagg. 14-15 della sentenza);

pertanto, come motivatamente e condivisibilmente osservato dalla Corte territoriale, il primo giudice, una volta esclusa la sussistenza di ipotesi di demansionamento e di dequalificazione, avrebbe dovuto respingere la domanda, essendo venuto meno il presupposto per la richiesta risarcitoria;

che il settimo motivo (indicato con la lettera B) è inammissibile, innanzitutto, per le ragioni analiticamente esposte relativamente al quarto ed al quinto motivo; inoltre, con riferimento al dedotto “omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”, va rilevato che non è indicato il fatto storico (Cass. n. 21152 del 2014), con carattere di decisività, che sarebbe stato oggetto di discussione tra le parti e che la Corte di Appello avrebbe omesso di esaminare; nè, tanto meno, viene fatto riferimento, alla stregua della pronunzia delle Sezioni Unite (n. 8053/2014), ad un vizio della sentenza “così radicale da comportare”, in linea con “quanto previsto dall’art. 132 c.p.c., n. 4, la nullità della sentenza per mancanza di motivazione”. E, dunque, non potendosi più censurare, dopo la riforma del 2012 (applicabile nella fattispecie, ratione temporis, in quanto la sentenza impugnata è stata pubblicata, come riferito in narrativa, il 23.8.2016), la motivazione relativamente al parametro della sufficienza, rimane il controllo di legittimità sulla esistenza e sulla coerenza del percorso motivazionale dei giudici di merito (cfr., tra le molte, Cass. n. 25229/2015), che, nella specie, è stato condotto dalla Corte territoriale con argomentazioni logico-giuridiche del tutto congrue poste a fondamento della decisione impugnata;

che l’ottavo mezzo di impugnazione (privo di numero e di lettere) risulta, all’evidenza, assorbito;

che il nono mezzo di impugnazione (anch’esso privo di lettere e numero), peraltro articolato in modo del tutto generico (nella prima parte, ci si duole, infatti, che gli importi delle spese di lite liquidati siano “sicuramente eccessivi”), non è fondato, in quanto i giudici di appello hanno condivisibilmente applicato la regola della soccombenza (v., tra le molte, Cass. nn. 3023/2012; 6338/2008; 19269/2005, secondo cui “il regolamento delle spese di lite è consequenziale ed accessorio rispetto alla definizione del giudizio, potendo e dovendo la condanna al relativo pagamento essere emessa, a carico del soccombente, ex art. 91 c.p.c., anche d’ufficio, pur se difetti una esplicita richiesta in tal senso della parte vittoriosa e pur se non sia stata prodotta la nota spese, prevista dall’art. 75 Disp. Att. c.p.c.”), tenendo, ovviamente, conto della entità della causa e del fatto, più volte sottolineato in sentenza (v., ad esempio, le pagg. 6, 7 e 8), che “la stessa domanda iniziale dell’ex bancario appare in parte errata ed in parte in contraddizione con la generale impostazione del suo ricorso introduttivo” e che “in una valutazione complessiva dell’intera domanda iniziale, si coglie una contraddizione tra la rivendicazione di mansioni superiori per il lavoro svolto dal 1999 al 2007 e l’asserito demansionamento per il medesimo periodo di lavoro a (OMISSIS)”;

che, per tutto quanto innanzi esposto, il ricorso va rigettato; che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;

che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, secondo quanto specificato in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali che liquida in Euro 5.800,00 per compensi professionali ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 23 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2021

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