Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 24718 del 05/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 05/11/2020, (ud. 06/11/2019, dep. 05/11/2020), n.24718

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12916-2014 proposto da:

T.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TRACIA 4,

presso la Dott.ssa MARZANO VALERIA, rappresentato e difeso

dall’avvocato MORENA PIERLUIGI;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 472/2013 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

SALERNO, depositata il 26/11/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

06/11/2019 dal Consigliere Dott. FEDERICI FRANCESCO.

 

Fatto

RILEVATO

Che:

T.F. ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 472/12/2013, depositata il 26.11.2013 dalla Commissione Tributaria Regionale della Campania, sez. staccata di Salerno, che, confermando la sentenza di primo grado, aveva rigettato l’impugnazione dell’avviso di accertamento con il quale l’Agenzia delle Entrate, contestando maggiori ricavi e costi indeducibili relativamente all’anno d’imposta 2007, aveva rideterminato l’Irpef, l’Iva e l’Irap del contribuente.

Con il contenzioso instaurato avverso l’atto impositivo il ricorrente, titolare di una ditta casearia, aveva contestato le risultanze dell’accertamento fiscale condotto nei suoi confronti, nel corso del quale era emersa l’inattendibilità e la carenza delle scritture contabili, riconducendo ad imponibile ricavi non dichiarati, e costi non deducibili.

La Commissione Tributaria Provinciale di Salerno, con la sentenza n. 358/08/2011, e la Commissione Tributaria Regionale della Campania, con la pronuncia ora al vaglio della Corte, avevano rigettato i ricorsi del contribuente, che censura con due motivi la decisione del giudice d’appello:

con il primo per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 e art. 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente ritenuto corretto l’accertamento induttivo dell’Ufficio e corretti i maggiori ricavi ed i minori costi contestati al contribuente;

con il secondo per insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per avere superficialmente valutato le argomentazioni addotte dal contribuente a sostegno delle proprie ragioni.

Ha pertanto chiesto la cassazione della sentenza.

Si è costituita l’Agenzia con controricorso, contestando i motivi di ricorso, del quale ha chiesto il rigetto.

E’ stata depositata memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c. dal contribuente.

Diritto

CONSIDERATO

Che:

I motivi di ricorso, che possono essere trattati unitariamente perchè intrinsecamente connessi per aver criticato la sentenza in ordine alla ricostruzione del reddito del contribuente, sotto i profili dell’error iuris in iudicando e del vizio motivazionale, sono infondati e vanno rigettati.

Quanto al primo motivo, che si concentra sulla denuncia della violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2 – in merito ai principi regolatori dell’accertamento presuntivo – e dell’art. 2729 c.c. – in riferimento alle regole di governo delle prove presuntive-, deve innanzitutto avvertirsi che il ricorso non coglie nel segno perchè la pronuncia del giudice regionale, analizzando i fatti emergenti dall’accertamento fiscale che ha attinto il contribuente, è inequivocabilmente rivolta non già a commentare e valutare le risultanze di un accertamento induttivo puro, qual’è quello disciplinato dall’art. 39, comma 2, cit., ma a considerare la correttezza o meno dell’applicazione dell’accertamento analitico-induttivo, previsto dal citato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), sul quale l’Amministrazione ha inteso fondare l’accertamento, recuperando ad imponibile ricavi non emergenti e costi indeducibili.

In questa corretta prospettiva è del tutto errato affermare che il giudice d’appello abbia pronunciato una decisione lacunosa e appiattita sulle risultanze della difesa dell’Ufficio e sulle motivazioni del giudice di primo grado, senza una autonoma valutazione delle questioni sollevate con l’atto d’appello.

Deve innanzitutto rammentarsi che la giurisprudenza ha ripetutamente affermato che l’accertamento con metodo analitico-induttivo, con cui il fisco procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, ancorchè di rilevante importo, è consentito, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacchè la disposizione presuppone scritture regolarmente tenute e tuttavia contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata, con conseguente spostamento dell’onere della prova contraria, tesa a dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni, a carico del contribuente (Cass., Sez. 5, sent. n. 20060 del 2014; sent. 23550 del 2014; in materia di Iva, cfr. Sez. 6-5, ord. n. 26036 del 2015).

Quanto alle concrete modalità di utilizzo e valorizzazione delle prove indiziarie, che con il ricorso il contribuente critica, denunciando sostanzialmente un malgoverno delle regole su cui si fonda la prova presuntiva anche in riferimento alla distribuzione dell’onere della prova, deve premettersi che compete alla Corte di cassazione, nell’esercizio della funzione nomofilattica, il controllo della corretta applicazione dei principi contenuti nell’art. 2729 c.c. alla fattispecie concreta, poichè se è devoluto al giudice di merito la valutazione della ricorrenza dei requisiti enucleabili dagli artt. 2727 e 2729 c.c., per valorizzare gli elementi di fatto quale fonte di presunzione, tale giudizio è soggetto al controllo di legittimità se risulti che, nel violare i criteri giuridici in tema di formazione della prova critica, il giudice non abbia fatto buon uso del materiale indiziario disponibile, negando o attribuendo valore a singoli elementi, senza una valutazione di sintesi (cfr. Cass., ord. n. 10973/2017, Cass., sent. n. 1715/2007).

Peraltro, ai fini dell’utilizzo degli indizi, mentre la gravità, precisione e concordanza degli stessi permette di acquisire una prova presuntiva, che, anche sola, è sufficiente nel processo tributario a sostenere i fatti fiscalmente rilevanti accertarti dalla amministrazione (Cass., sent. n. 1575/2007), quando manca tale convergenza qualificante è necessario disporre di ulteriori elementi per la costituzione della prova.

La giurisprudenza di legittimità ha tracciato il corretto procedimento logico del giudice di merito nella valutazione degli indizi, in particolare affermando che la gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge vanno ricavati dal loro complessivo esame, in un giudizio globale e non atomistico di essi (ciascuno dei quali può essere insufficiente), ancorchè preceduto dalla considerazione di ognuno per individuare quelli significativi, perchè è necessaria la loro collocazione in un contesto articolato, nel quale un indizio rafforza e ad un tempo trae vigore dall’altro in vicendevole completamento (tra le più recenti cfr. Cass., sent. n. 12002/2017; Cass., ord. n. 5374/2017). Ciò che rileva, in base a deduzioni logiche di ragionevole probabilità, non necessariamente certe, è che dalla valutazione complessiva emerga la sufficienza degli indizi a supportare la presunzione semplice di fondatezza della pretesa, salvo l’ampio diritto del contribuente a fornire la prova contraria.

Occorre allora verificare se nella sentenza gravata sia stato fatto buon governo dei principi appena esposti.

Dopo aver riportato, nella parte in fatto, la vicenda inerente l’accertamento e le questioni sollevate dal contribuente nel contenzioso, con specifico riferimento alle varie voci su cui si sono concentrate le critiche sulla ricostruzione (analitico)-induttiva del reddito d’impresa (ad es. resa delle materie prime, errata omologazione di prodotti merceologicamente diversi, costi degli automezzi ritenuti non inerenti, carenza e inattendibilità delle scritture contabili), in motivazione il giudice regionale solo nella premessa afferma che “le argomentazioni svolte nella impugnata sentenza sono pienamente convincenti…”, senza però appiattirsi su di esse. Analizza invece la pluralità di elementi raccolti in sede di verifica ed esprime specifiche considerazioni, che attengono tanto alla valenza dei dati medesimi (ad es. sulla resa delle materie prime, come la cagliata), quanto alla inconsistenza delle prove contrarie addotte dal Trotta (perchè prive di riscontri oggettivi o consulenze tecniche a supporto). Lo stesso dicasi sui costi indeducibili, e in particolare sulla riscontrata mancanza di prova della destinazione alternativa degli automezzi.

Trattasi dunque di una valutazione specifica, concentrata consapevolmente sugli elementi presuntivi fondanti dell’accertamento analitico-induttivo, senza che possano ritenersi violate le regole di governo delle prove presuntive.

Quanto poi alle critiche indirizzate alle conclusioni cui giunge il giudice regionale in ordine alla valutazione delle prove, è evidente che con esse il ricorrente ripropone questioni di merito, la cui valutazione è però inibita in sede di legittimità.

I limiti di impugnazione appena evidenziati si riflettono a maggior ragione sul secondo motivo, con il quale il contribuente, denunciando un vizio motivazionale, non si avvede della sua inammissibilità alla luce della nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, e applicabile al caso di specie.

A tal fine non ha importanza se la rubrica del motivo sia conforme alla attuale formulazione della norma, poichè dalla sua lettura emerge con evidenza che si tenta di introdurre argomenti tesi a denunciare supposte insufficienze o contraddittorietà della pronuncia impugnata, che già alla luce della vecchia formulazione della norma sarebbero state inammissibili, proponendo rivalutazioni in fatto, e che, a maggior ragione, con l’attuale ridotto perimetro assegnato al vizio motivazionale, esulano certamente dal sindacato di legittimità.

In conclusione il ricorso va rigettato.

All’esito del giudizio segue la soccombenza del ricorrente anche nelle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna T.F. a rifondere alla Agenzia le spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in Euro 5.600,00 per competenze e in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13. comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 6 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2020

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