Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2471 del 27/01/2022
Cassazione civile sez. III, 27/01/2022, (ud. 28/10/2021, dep. 27/01/2022), n.2471
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –
Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –
Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 31738/2018 proposto da:
O.G., elettivamente domiciliato in ROMA, P.zza S. ANDREA
DELLA VALLE, 3, presso lo studio dell’Avvocato Massimo MELLARO,
rappresentato e difeso dagli Avvocati Giuliano SAITTA Giuliano, e
Giuseppe SAITTA;
– ricorrente –
contro
C.R., G.C., anche quali eredi di
G.F., elettivamente domiciliati in Roma, Via Sabotino, 31, presso lo
studio dell’Avvocato Giorgia MINOZZI, rappresentati e difesi dagli
Avvocati Carlo CARROZZA, e Pietro CARROZZA;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 753/2018 della CORTE D’APPELLO di MESSINA,
depositata il 31/08/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
28/10/2021 dal Consigliere Dott. Stefano Giaime GUIZZI.
Fatto
FATTI DI CAUSA
1. O.G. ricorre, sulla base di quattro motivi, per la cassazione della sentenza n. 753/18, del 31 agosto 2018, della Corte di Appello di Messina, che – respingendone il gravame avverso la sentenza n. 170/16, del 19 aprile 2016, del Tribunale di Messina – ha confermato il rigetto dell’opposizione al precetto dallo stesso esperita nei confronti di G.C., G.F. e C.R., precetto intimatogli sulla base di titolo giudiziale costituito da sentenza (non ancora passato in giudicato) con cui l’ O. era stato condannato a risarcire, ai medesimi, i danni conseguiti ad un sinistro stradale di cui era rimasto vittima, il (OMISSIS), l’allora minore G.C..
2. In punto di fatto, il ricorrente riferisce che G.F. e C.R., in proprio e nella qualità di genitori esercenti la potestà sull’allora figlio minore C., convenivano in giudizio esso O. e la Firs Assicurazioni, chiedendone la condanna in solido al risarcimento dei danni che asserivano di aver subito – anche “iure proprio” – in seguito al suddetto sinistro.
Si costituiva in giudizio la sola Firs, contestando la domanda attrice. Dopo l’interruzione del giudizio a seguito della messa in liquidazione della convenuta, la causa veniva riassunta nei confronti della gestione liquidatoria della Firs e della società Sai (quale impresa designata per la Sicilia dal FGVS) dai coniugi G. – C., oltre che dallo stesso G.C., divenuto intanto maggiorenne, con l’intervento in giudizio anche dell’ O.. Costui, in particolare, deduce di aver assunto tale iniziativa, con cui contestava la “mala gestio” della lite da parte della Firs, al solo scopo di consentire agli attori il superamento del massimale garantito dall’assicuratore e dal FGVS; e ciò in cambio della rinuncia dei G. – C. a far valere, nei suoi confronti, il loro credito risarcitorio.
Pronunciata dal Tribunale di Messina, il 15 gennaio 2001, condanna, in solido, dell’ O. e della Sai a risarcire i danni conseguenti al sinistro, all’esito del giudizio di appello (incardinato in forza di due distinti gravami, poi riuniti, proposti da Sai e dai G. – C., iniziative impugnatorie alle quali aderiva l’ O. con proprio appello incidentale), la Corte territoriale, per quanto qui ancora di interesse, ribadiva con sentenza del 16 ottobre 2003 la condanna dell’odierno ricorrente a risarcire i danni cagionati ai G. – C..
Orbene, prima ancora che detta pronuncia passasse in giudicato (essendo stato proposto, avverso di essa, ricorso per cassazione), con atto di precetto del 12 ottobre 2004, i predetti G. – C. intimavano all’ O. il pagamento di quanto liquidato in loro favore dal giudice di appello.
Proponeva, quindi, l’ O. opposizione al precetto, sulla base di una dichiarazione scritta del 22 gennaio 2002, con la quale i G. – C. si erano impegnati a rinunciare a porre in esecuzione la sentenza del Tribunale del 15 gennaio 2001, nonché quella che sarebbe stata emessa dalla Corte di Appello, dolendosi, altresì, l’opponente dell’eccessività dell’importo precettato, non avendo gli opposti detratto quanto ricevuto dal FGVS.
L’adito Tribunale di Messina, tuttavia, rigettava l’opposizione (salvo che per la doglianza relativa all’eccessività dell’importo precettato), sul rilievo che con essa fosse possibile far valere solo fatti estintivi o modificativi del credito successivi alla formazione del titolo, tale non potendo ritenersi la dichiarazione di remissione del debito.
Proposto gravame dall’opponente, lo stesso veniva rigettato dal giudice di appello, che, peraltro, riqualificava la scrittura del 22 gennaio 2002 – già intesa dal primo giudice come una rimessione del debito – quale “pactum de non exequendo”, da farsi valere anch’esso, tuttavia, nel giudizio di cognizione.
3. Avverso la decisione della Corte messinese ricorre per cassazione l’ O., sulla base di quattro motivi.
3.1. Il primo motivo denunzia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione o falsa applicazione sia dell’art. 1236 c.c., in relazione all’art. 2697 c.c., sia dell’art. 115 c.p.c..
Il ricorrente si duole del fatto che, dalle deposizioni dei testi escussi (i legali che avevano assistito, rispettivamente, esso O. e i G. – C. nel giudizio in cui ebbe a formarsi il titolo giudiziario azionato da costoro in via esecutiva), sarebbe emerso che, ben prima della scrittura del 22 gennaio 2002, era intervenuto atto di remissione del debito, essendo quello previsto dall’art. 1236 c.c., un negozio unilaterale recettizio che non richiede particolari oneri di forma. L’intervenuta rimessione, dunque, sarebbe stata comunicata all’ O. “antecedentemente alla costituzione nel giudizio di primo grado”, e proprio allo scopo di “indurlo a costituirsi in giudizio”, in quanto unico soggetto legittimato ad ottenere una condanna dell’assicuratore superiore al massimale. Errata, dunque, sarebbe l’affermazione della Corte territoriale secondo cui la dichiarazione del 22 gennaio 2002 costituiva la formalizzazione di un impegno precedentemente assunto.
3.2. Il secondo motivo denunzia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3), 4) e 5), – un’ulteriore violazione o falsa applicazione dell’art. 1236 c.c., nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., e, comunque, “motivazione inesistente in ordine a questione di fatto controversa tra i contendenti”.
La censura investe, in primo luogo, l’affermazione della Corte messinese secondo cui avrebbe costituito una semplice “remora morale” dell’ O. (ispirata alla volontà di “non pregiudicare ulteriormente le ragioni dei creditori”) la scelta dello stesso di non sollevare, nel giudizio di cognizione, l’eccezione di intervenuta remissione, giacché essa avrebbe comportato la liberazione, ex art. 1301 c.c., della coobbligata solidale Sai. Orbene, tale affermazione – secondo il ricorrente – “non sembra costituire una motivazione fondata sul diritto”, e ciò “essendo stato pretermesso l’esame concreto della vicenda che, nella realtà, ha natura transattiva”.
Inoltre, il presente motivo si appunta sull’affermazione della Corte territoriale secondo cui l’effetto dell’intervenuto “pactum de non exequendo” era quello di impedire che la sentenza resa del giudizio di appello fosse posta in esecuzione prima del suo passaggio in giudicato. Nondimeno, tale affermazione non terrebbe conto della circostanza che, come sottolineato da esso O. nella propria memoria di replica, la sentenza suddetta, lungi dal passare in giudicato, venne cassata da questa Corte con pronuncia del 6 giugno 2008, n. 15028, circostanza sulla quale il giudice di appello avrebbe omesso di pronunciarsi.
3.3. Il terzo motivo denunzia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione degli artt. 474 e 615 c.p.c..
Secondo il ricorrente, deve ritenersi che – in forza dell’intervenuta cassazione della sentenza con cui esso O. era stato condannato a risarcire il danno – i G. – C. “hanno intimato il precetto” in forza “di titolo comunque non azionabile”, giacché la caducazione del titolo giudiziale determina il venir meno di tutti gli effetti del provvedimento, rendendo illegittima “ex tunc” l’eventuale esecuzione forzata che sia stata intrapresa in forza di esso.
3.4. Il quarto motivo denunzia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., lamentando che la Corte territoriale, al pari del Tribunale, ha disposto la compensazione delle spese di lite, mentre, qualora avesse accolto l’appello (come avrebbe dovuto), l’effetto sarebbe stato quello dell’applicazione del principio della soccombenza.
4. Hanno resistito all’impugnazione, con controricorso, G.C. e C.R. (entrambi anche nella qualità di eredi di G.F.), chiedendone la declaratoria di inammissibilità e, comunque, il rigetto.
Essi, in particolare, hanno evidenziato come la sentenza di condanna, costituente il titolo giudiziale posto a fondamento del precetto, sia stata effettivamente cassata,, ma non ad iniziativa dell’ O., che ha pertanto prestato acquiescenza alla condanna, donde il passaggio in giudicato della stessa nei suoi confronti. Sottolineano, dunque, come l’unico tema ancora “sub iudice” all’esito della disposta cassazione – sia quello relativo alla possibilità, per essi G. – C., di richiedere la condanna oltre il massimale nei confronti della Sai.
5. I controricorrenti hanno depositato memoria, insistendo nelle proprie argomentazioni.
Diritto
RAGIONI DELLA DECISIONE
6. Il ricorso va rigettato.
6.1. Il primo motivo è inammissibile, per più ragioni.
6.1.1. Innanzitutto, perché la denuncia di violazione dell’art. 2697 c.c. e art. 115 c.p.c., si risolve in una censura che investe l’apprezzamento delle risultanze delle deposizioni testimoniali in atti.
Tuttavia, questa Corte ha chiarito da tempo che la “violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, ord. 29 maggio 2018, n. 13395, Rv. 649038-01); evenienza, quella appena indicata, che non risulta lamentata nel caso di specie, restando, invece, inteso che qualora “oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti” (come avvenuto nel caso che occupa), essa “può essere fatta valere ai sensi del numero 5) del medesimo art. 360” (Cass. Sez. 3, sent. 17 giugno 2013, n. 15107, Rv. 626907 – 01), ovviamente “entro i limiti ristretti del “nuovo”” suo testo (Cass. Sez. 3, ord. n. 13395 del 2018, cit.).
Analogamente, la violazione dell’art. 115 c.p.c. – che sancisce il principio secondo cui il giudice decide “iuxta alligata et probata partium” – può essere dedotta come vizio di legittimità, oltre che nell’ipotesi, per vero più che altro scolastica, in cui si denunci “che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma”, allorché il medesimo “abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640192-01), fermo, inoltre, restando che l’eventuale cattivo apprezzamento delle risultanze istruttorie “non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4), disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4) – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez. 3, sent. 10 giugno 2016, n. 11892, Rv. 640194-01; in senso conforme, tra le altre, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass. Sez. 3, sent. 12 aprile 2017, n. 9356, Rv. 644001-01; Cass. Sez. 1, ord. 26 settembre 2018, n. 23153, Rv. 650931-01; Cass. Sez. 3, ord. 30 ottobre 2018, n. 27458, Cass. Sez. 6-2, ord. 18 marzo 2019, n. 7618);
6.1.2. In ogni caso, poi, il presente motivo – con cui si pretende di mettere in secondo piano la dichiarazione del 22 gennaio 2002, ipotizzando che ben prima di tale data fosse intervenuta, verbalmente, la rimessione del debito – non coglie la “ratio decidendi” della sentenza impugnata, donde l’applicazione del principio secondo cui “la proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al “decisum” della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 c.p.c., n. 4), con conseguente inammissibilità del ricorso” (o di un suo singolo motivo), “rilevabile anche d’ufficio” (Cass. Sez. 6-1, ord. 7 settembre 2017, n. 20910, Rv. 645744-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 3 luglio 2020, n. 13735, Rv. 658411-01).
La “ratio decidendi” della sentenza impugnata – al di là della qualificazione della dichiarazione del 22 gennaio 2002 come “pactum de non exequendo”, invece che come remissione del debito (ma analogo rilievo varrebbe anche per l’eventuale remissione “verbale” che, secondo il ricorrente, sarebbe intervenuta in data anteriore a quella della dichiarazione) – è nel senso che tale fatto non era sopravvenuto alla formazione del titolo, donde l’impossibilità di farlo valere mediante l’opposizione al precetto. Conclusione, questa, la cui correttezza “in iure” non e’, peraltro, revocabile in dubbio, essendo stata ancora di recente affermato da questa Corte, nella sua massima sede nomofilattica, che nell’opposizione all’esecuzione fondata su di un titolo giudiziale “non si può giammai addurre alcuna contestazione su fatti anteriori alla sua formazione o alla sua definitività, poiché quelle avrebbero dovuto dedursi esclusivamente coi mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento contro di quello” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 21 settembre 2021, n. 25478, non massimata sul punto; nello stesso senso già Cass. Sez. Un., sent. 23 luglio 2019, n. 19889, anch’essa non massimata sul punto).
6.2. Il secondo motivo non è fondato.
6.2.1. Esso, per vero, si articola in due diverse censure.
La prima, in particolare, si appunta sull’affermazione della Corte territoriale secondo cui la volontà di esso O. di non avvalersi, nel giudizio di cognizione, dell’eccezione di avvenuta remissione del debito (e ciò per evitare che si producesse, in favore della coobbligata solidale Sai, la liberazione ex art. 1301 c.c.) avrebbe costituito, più che altro, una “remora morale”.
La seconda, invece, stigmatizza l’omessa pronuncia del giudice di appello sulla circostanza – allegata dall’appellante nella propria memoria di replica – che la sentenza, l’esecuzione della quale il “pactum de non exequendo” mirava a scongiurare prima del suo passaggio in giudicato, lungi dall’essere divenuta irretrattabile ai sensi dell’art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c., era stata cassata da questa Corte.
Entrambi tali censure, come si notava, non sono però fondate.
6.2.1.1. Non lo è la prima, perché pretenderebbe di “indagare” sulle ragioni per le quali un fatto anteriore alla formazione del titolo esecutivo – che, come visto, non può essere posto a fondamento dell’opposizione all’esecuzione – non venne proposto, come necessario, nel giudizio di cognizione. Ma un accertamento siffatto, quand’anche evidenziasse che l’intenzione dell’ O. fosse effettivamente quella di non pregiudicare le ragioni dei G. – C. verso il coobbligato solidale, mai potrebbe condurre a legittimare la sua pretesa di far valere, per così dire, “ora per allora”, quanto solo nella sede processuale di formazione del titolo avrebbe dovuto farsi valere (e ciò qualunque fosse stata la motivazione che ispirò, invece, la scelta contraria).
6.2.1.2. Con riferimento, poi, alla seconda censura, nello scrutinarla occorre muovere dalla constatazione che la pronuncia di questa Corte – della quale si può (“recte”: si deve) qui prendere visione, visto che “il giudice dell’opposizione all’esecuzione è tenuto a compiere d’ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, ed anche per la prima volta nel giudizio di cassazione, la verifica sulla esistenza del titolo esecutivo posto alla base dell’azione esecutiva, potendo rilevare sia l’inesistenza originaria del titolo esecutivo sia la sua sopravvenuta caducazione” (cfr. Cass. Sez. Lav., sent. 29 novembre 2004, n. 22430, Rv. 578146-01; Cass. Sez. 3, sent. 13 luglio 2011, n. 15363, Rv. 619222-01), è priva di riflessi sulla procedura esecutiva intrapresa.
Dalla disamina di tale sentenza, difatti, emerge che nessuna iniziativa impugnatoria fu assunta, in sede di legittimità, dall’ O. contro la decisione che costituisce il titolo dell’esecuzione intrapresa nei sui confronti, sicché deve concludersi – come correttamente sottolineano i controricorrenti – che il medesimo ha prestato acquiescenza alla condanna comminatagli, donde il passaggio in giudicato della stessa nei suoi confronti, e la sua idoneità a fungere da titolo esecutivo, rimanendo il solo tema ancora “sub iudice”, ex art. 394 c.p.c., privo di effetti nei suoi confronti.
D’altra parte, poi, deve osservarsi che – secondo quanto affermato da questa Corte, nuovamente, nella sua massima sede nomofilattica – la sopravenuta caducazione del titolo esecutivo giudiziale (nel caso di specie, peraltro, insussistente), pur comportando la cessazione della materia del contendere del giudizio di opposizione (in applicazione del principio compendiato nel classico brocardo “nulla exesecutio sine titulo”), non comporta in modo automatico la “ingiustizia” dell’esecuzione intrapresa, o meglio, non determina “di per sé, la fondatezza dell’opposizione all’esecuzione” e, dunque, il suo accoglimento (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. n. 25478 del 2021, cit.). E ciò perché “la caducazione del titolo esecutivo giudiziale avvenuta in sede di cognizione” rappresenta, per così dire, “un evento esterno, rispetto al quale i motivi dell’opposizione all’esecuzione possono coincidere o meno”, sicché “considerando che il titolo esecutivo può venire meno anche per ragioni diverse da quelle poste a base dell’opposizione all’esecuzione, giudicare fondata tale opposizione in un caso del genere equivarrebbe ad accoglierla per motivi diversi da quelli effettivamente proposti; il che risulta disarmonico rispetto alla ricostruzione del sistema” (così, in motivazione, nuovamente Cass. Sez. Un., sent. n. 25478 del 2021, cit.).
Da quanto precede deriva, dunque, che in nessun caso potrebbe accogliersi la censura – la seconda, oggetto del presente motivo di ricorso – con cui è lamentata l’omissione di pronuncia in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nel non dare rilievo alla (sopravvenuta) caducazione del titolo giudiziale. Si è detto, infatti, da un lato, come tale caducazione non vi sia stata, nonché, dall’altro, che essa non avrebbe, per ciò solo, condotto all’accoglimento della proposta opposizione. Orbene, questa duplice constatazione impedisce di dare rilievo all’omissione in cui è incorso il giudice di appello, atteso che questa Corte può astenersi dall’operare la cassazione con rinvio della sentenza impugnata, allorquando la questione di diritto, sulla quale sia mancata la pronuncia del giudice di appello, “risulti infondata, di modo che la pronuncia da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello, determinando l’inutilità di un ritorno della causa in fase di merito, sempre che si tratti di questione che non richiede ulteriori accertamenti di fatto” (così, in motivazione, Cass. sez. Un., sent. 7 maggio 2019, n. 11933, non massimata sul punto).
6.3. Il terzo motivo, del pari, non è fondato.
6.3.1. Esso torna a riproporre la questione – sebbene non più sotto il profilo dell’omessa pronuncia del giudice di appello, ma in ragione della sua autonoma rilevanza, anche in sede di legittimità – relativa alla (supposta) sopravvenuta caducazione del titolo giudiziale dell’esecuzione. Ma le stesse ragioni – consistenti nella evidenziazione che nessuna caducazione vi è stata – che hanno condotto al rigetto della censura di violazione dell’art. 112 c.p.c., impongono il medesimo esito anche in relazione al presente motivo.
6.4. Infine, il quarto motivo – sulle spese di lite – è inammissibile.
6.4.1. Esso, infatti, si presenta alla stregua di un “non motivo” (Cass. Sez. 3, sent. 31 agosto 2015, 17330, Rv. 636872-01; Cass. Sez. 1, ord. 24 settembre 2018, n. 22478, Rv. 650919-01), giacché, lungi dal dedurre vizi nell’applicazione della normativa relativa alla loro liquidazione, postula quale “res sperata” la caducazione della statuizione sulle spese, come conseguenza dell’accoglimento degli altri motivi di impugnazione, o comunque della riconosciuta illegittimità della sentenza impugnata.
7. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza, essendo pertanto poste a carico del ricorrente e liquidate come da dispositivo.
8. A carico del ricorrente, infine, stante il rigetto del ricorso, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto secondo accertamento spettante all’amministrazione giudiziaria (Cass. Sez. Un., sent. 20 febbraio 2020, n. 4315, Rv. 657198-01), ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.
PQM
La Corte rigetta il ricorso, condannando O.G. a rifondere, a G.C. e C.R., le spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 14.000,00 più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo, se dovuto, a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 28 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2022